Qualche giorno fa ho letto una notizia che mi ha lasciato perplesso. In un liceo di Bari, il padre di una studentessa è entrato in classe durante una lezione per rimproverare un docente, reo di aver messo 5 alla figlia nell’ultimo compito in classe. Davanti agli alunni sbigottiti, il padre si è scagliato contro il professore e gli ha sferrato un pugno in faccia, mandandolo all’ospedale. Ho così cercato in rete episodi simili, sperando che si trattasse di un’eccezione. Non lo era.
In un istituto superiore di Bari, pochi giorni fa una studentessa è entrata in classe in ritardo e ha impedito lo svolgimento della lezione incitando i suoi compagni a fare caciara. Il professore le ha messo una nota sul registro e lei l’ha minacciato dicendogli che “l’avrebbe pagata”. Ha mandato un messaggio a qualcuno e, qualche ora dopo, si sono presentati a scuola due energumeni (probabilmente dei parenti della ragazza), che hanno preso a schiaffi l’insegnante davanti a tutti. In entrambi i casi citati – ma sul web se ne possono trovare a iosa – sono intervenute le forze dell’ordine. Se un tempo Victor Hugo scriveva che “colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione”, oggi ci ritroviamo in una società dove si corre il rischio che ad aprire quella porta sia un padre violento, destinato poi a finire dietro le sbarre.
Il “patto educativo” tra genitori e scuola ha subito diverse mutazioni nel corso degli anni, passando da un eccesso all’altro. Per le generazioni dei nostri nonni, e in alcuni casi anche dei nostri genitori, un figlio veniva consegnato alla scuola quasi rasentando la delega educativa, per cui gli stessi insegnanti usavano metodi da terapia d’urto, spesso avvicinandosi alla violenza fisica o psicologica, il famoso abuso nei mezzi di correzione. La visione punitiva era tollerata – anzi, sollecitata – dai genitori stessi, che stavano sempre dalla parte dei professori. Bacchettate sulle dita, sculacciate, colpetti in testa: nella scuola pre 1968 erano prassi consolidata e la figura dell’insegnante veniva temuta, creando una sorta di rapporto sergente Hartman-soldati. Con gli anni, fortunatamente, sono state abbandonate le punizioni fisiche, ma la transizione è stata graduale. Si è passati inizialmente a quelle psicologiche, con l’umiliazione del bambino/ragazzo messo dietro la lavagna o dileggiato davanti agli altri studenti. Il passaggio successivo che si auspicava poi, ovvero il rispetto per l’insegnante senza bisogno che quest’ultimo ricorresse alla strategia del terrore, è avvenuto solo in parte, poiché si è passati da “il professore ha sempre ragione” a “il professore ha sempre torto”, con gli alunni aizzati dagli stessi genitori a contestare un’autorità attraverso un meccanismo di iperprotezione. Molti genitori di oggi, infatti, pur senza arrivare ai gesti estremi poc’anzi citati, mettono i figli sotto una campana di vetro, e chiunque provi a sfiorarla, insegnanti compresi, viene additato come nemico.
Per Sigmund Freud “i mestieri più difficili in assoluto sono nell’ordine il genitore, l’insegnante e lo psicologo”. Il problema odierno è la confusione che porta le figure a dover rappresentare tutti e tre i ruoli contemporaneamente. Il compito della scuola è fondamentale – per Pietro Calamandrei è un’istituzione più importante del Parlamento, della Magistratura e della Corte costituzionale – ma un professore non può vestire i panni anche del genitore o dello psicologo. La base di partenza resta sempre l’educazione impartita in famiglia, e assolvere sempre i figli anche di fronte alle loro malefatte crea uno scompenso nell’intera società, in quanto i bambini in questione diventano poi degli adulti condannati alla deresponsabilizzazione. Incolpare un insegnante per un brutto voto del figlio vuol dire infrangere quel patto educativo tra genitori e scuola, con una pratica che causerà ripercussioni anche nel futuro sotto il profilo del rispetto delle istituzioni. Per cui l’adulto di domani incolperà il vigile per avergli fatto la multa dopo aver trovato una macchina parcheggiata in doppia fila, si sentirà legittimato a frodare lo Stato-canaglia trovando uno stratagemma per non pagare le tasse e, dunque, si creerà un esercito di individui incapaci di sottostare alle regole all’interno di una comunità.
Nel libro del 1990 Parenting With Love and Logic: Teaching Children Responsability, Foster W.Cline e Jim Fay coniarono per la prima volta l’espressione “genitori elicottero” per descrivere questo fenomeno. Per gli autori, i genitori elicottero stanno costantemente sopra i figli per vigilarli e risolvere per loro i problemi della vita. Viene generata una dinamica di controllo e protezione che impedisce ai figli di essere liberi di sbagliare e di prendere le proprie decisioni. Viene meno quindi la ricerca dell’autonomia, in quanto i genitori non mostrano ai figli la strada: gliela preparano. In tal modo, l’apprendimento mediante mezzi esterni alla famiglia risulta farraginoso, c’è la tendenza a crescere sapendo di avere costantemente la giustificazione genitoriale alle spalle – il cordone ombelicale mai reciso – e, di conseguenza, i figli non affrontano del tutto le difficoltà della vita, le schivano perché sono abituati ad avere qualcuno che rimuova per loro gli ostacoli sul proprio sentiero. In questo modo, la principale eredità lasciata dai genitori è proprio quella di essere figli per sempre.
Uno dei casi editoriali degli ultimi anni è L’educazione di Tara Westover, un memoir che racconta la crescita dell’autrice in una famiglia mormona dell’Idaho con un padre-padrone che ha impedito ai sette figli di iscriversi a scuola, in quanto considerata un’associazione a delinquere creata dai socialisti e dagli Illuminati per fare il lavaggio del cervello ai cittadini. Senza per forza toccare queste vette di estremismo, nella società di oggi la scuola per i genitori elicottero viene associata a un pericolo, perché il proprio figlio-eternamente-pargolo si trova a contatto con compagni di classe appartenenti a realtà diverse dalla sua e con dei professori che i genitori stessi percepiscono come rivali, e non più complici, nel percorso educativo del figlio. Il genitore elicottero non può permettere che un insegnante rimproveri il figlio per non aver studiato o per aver dato fastidio al compagno di banco, e anche un brutto voto o una nota sul registro vengono visti come una forma di intromissione nel ruolo genitoriale. In questo modo il ruolo dell’insegnante viene smantellato, nonché posto sotto vigilanza dei genitori stessi, diventando spesso sinonimo di minaccia.
Il 2022 è stato però anche l’anno in cui finalmente sono stati riconosciuti alcuni diritti all’insegnante, un mestiere finito finalmente nella lista dei “lavori usuranti” in seguito all’ultima Legge di bilancio. Purtroppo, il riconoscimento non è completo, perché rientrano in questa categoria soltanto gli insegnanti della scuola dell’infanzia, i maestri e i collaboratori scolastici della primaria. Tutti gli altri insegnanti, a partire dalla scuola media in poi, sono esclusi, nonostante il loro compito non sia meno gravoso, avendo a che fare con classi sempre più numerose e con alunni nella fase più delicata della crescita, e quindi difficili da gestire. E non si tratta solo di una medaglietta al petto, perché chi esercita lavori usuranti – la lista comprende decine di mestieri, dal minatore all’agricoltore – può andare prima in pensione, per l’esattezza a 63 anni di età con 30-36 anni di contributi. Diritto che per esempio non avranno i professori delle superiori picchiati brutalmente da genitori poco avvezzi al decoro civico.
Nessuno chiede che si torni a un’impostazione da Signorina Rottermeier, ma è lecito almeno aspettarsi che lo Stato tuteli gli insegnanti. Certo, non può farlo fino in fondo, perché non può controllare l’educazione impartita da ogni singolo genitore ai figli. La scuola, come scrisse il giornalista Sydney J. Harris, ha lo scopo di trasformare gli specchi in finestre, quindi di formare un individuo ampliando le sue conoscenze e i suoi orizzonti, ma non può ribaltare i diktat educativi che un figlio ha appreso dai genitori. Spetta dunque alle famiglie far sì che la loro prole possa guardare oltre il semplice specchio, impedendo che resti incastrata nella propria immagine e che il modo di affrontare la vita si trasformi in un percorso già apparecchiato, preparato ad arte per negare i pericoli esterni e la realtà stessa. Il punto di partenza per istruirli alla vita è evitare di assolverli continuamente. Sarebbe un sollievo per i figli senza autonomia, per i professori sempre più umiliati e per una società che, mai come ora, avrebbe bisogno di un’educazione votata al rispetto dei ruoli e a un senso di responsabilità che fatichiamo sempre di più a ritrovare.