In Italia, il dibattito sul linguaggio inclusivo si svolge soprattutto online, se non si considerano le occasioni in cui viene ridicolizzato sulla carta stampata. Mentre sono decenni che si discute, anche in ambito accademico e politico, dell’uso non sessista della lingua italiana con l’invito a declinare i nomi delle professioni al femminile, la questione della resa del neutro attraverso lo schwa è abbastanza recente e poco nota al grande pubblico. Come spiega la docente e linguista Vera Gheno in un TEDx, lo schwa è nato come una forma di sperimentazione linguistica all’interno dei collettivi femministi e LGBTQ+ per riferirsi alle identità non binarie, e soltanto da pochi anni è uscito da questo ambito di applicazione. Per il momento il suo uso è legato soprattutto all’attivismo politico, ma non mancano eccezioni come il comune di Castelfranco Emilia, che lo ha adottato nei suoi post su Facebook, o la casa editrice effequ, che lo utilizza al posto del maschile sovraesteso nei suoi libri. Di recente, anche Michela Murgia ha usato lo schwa nella sua rubrica “L’antitaliana” su L’Espresso. Pochi esempi, che al massimo fanno storcere il naso a qualche purista della lingua italiana o forniscono l’ennesimo argomento contro “le follie del politicamente corretto” ai conservatori.
In altri Paesi, la questione della lingua inclusiva è invece ben più avversata e ha cominciato ad avere conseguenze politiche di rilievo. In Francia, l’uso del genere neutro è stato bandito dalle scuole e dalla pubblica amministrazione con un decreto che cita il parere dell’Académie Française, che lo ha definito “pericoloso per l’uso e la comprensibilità della lingua”. Non è la prima volta che la politica francese, il cui approccio nei confronti della lingua si può definire interventista, si espone sulla questione dell’inclusività. Un provvedimento simile era già stato approvato nel 2017 dal primo ministro Edouard Philippe, che aveva vietato l’uso della lingua inclusiva nei testi scolastici.
Quell’anno, infatti, fece scalpore la pubblicazione di un manuale scolastico che introduceva alcune proposte per una lingua più rispettosa delle differenze di genere. In francese, come in italiano, esiste un genere grammaticale maschile e uno femminile, ma non un genere neutro, e quindi per riferirsi a una moltitudine che comprende uomini e donne si usa il cosiddetto “maschile sovraesteso”: come nella nostra lingua, a una classe composta da venti femmine e due maschi, l’insegnante si rivolgerà dicendo: “Ciao bambini”. Il manuale sosteneva invece la validità della cosiddetta regola di prossimità, secondo cui gli aggettivi vanno declinati a seconda del genere del sostantivo più vicino a cui sono riferiti, e non soltanto al maschile: “bambini e bambine sono studiose” è più corretto di “bambini e bambine sono studiosi”. La consuetudine del maschile è infatti un’invenzione abbastanza recente, stabilita dall’Académie Française nel Diciottesimo secolo – insieme all’epurazione di diversi nomi femminili – con lo scopo preciso di dimostrare la superiorità maschile in tutti i campi. Nei testi di Racine, famoso drammaturgo francese del Seicento, per esempio, si trova ancora utilizzata la regola di prossimità. A supporto di quanto sostenuto nel manuale francese, 300 tra docenti e intellettuali francesi avevano scritto una lettera pubblica dichiarando che da quel momento in avanti avrebbero corretto i compiti degli studenti secondo la regola di prossimità.
Gli esponenti dell’Académie Française definirono l’iniziativa un’“aberrazione” che metteva la lingua francese “in pericolo mortale”. Oltre alla questione della regola di prossimità, il manuale spiegava anche quella del point médian, un punto che separa le desinenze del maschile e del femminile, includendo entrambe, e che serve a rendere il genere neutro: per esempio, si scrive “directeur·trice” per riferirsi sia a un direttore che a una direttrice. A fronte del diffondersi del point médian, fortemente promosso dalla prestigiosa agenzia di comunicazione Mots-clés, e del pronome iels, che corrisponde al singular they dell’inglese, lo scorso febbraio il deputato del partito di maggioranza La République En Marche! François Jolivet ha proposto una legge per vietare definitivamente l’utilizzo della lingua inclusiva nella pubblica amministrazione. Jolivet si è detto contrario al point médian non solo perché confonde i software di lettura per i non vedenti – problema che si presenta anche per lo schwa – ma anche perché a suo dire l’uguaglianza di genere non si promuovere con la lingua ma con “azioni concrete”.
Anche in Germania diversi esponenti politici stanno prendendo posizione in merito al linguaggio inclusivo, che in tedesco si rende con una soluzione simile al point médian, cioè con due punti o con un asterisco a separare le desinenze. Il dibattito si è acceso quanto il famoso dizionario Duden ha deciso di aggiungere il genere femminile a 12mila lemmi. La scelta ha dato vita a una petizione per “salvare la lingua tedesca dal Duden”, firmata anche da diversi esponenti politici come il deputato della CDU Alexander Krauß. Il vicepresidente del parlamento tedesco Wolfgang Kubicki ha dichiarato in un’intervista di fine maggio che il linguaggio inclusivo è un linguaggio di élite che fa sentire escluse le masse, mentre Wolfgang Steiger, ex deputato e oggi segretario del Consiglio economico della CDU, vorrebbe vietarlo nelle reti televisive pubbliche, che hanno cominciato a utilizzarlo. Come dichiarato da Steiger in un’intervista a Bild, “Soprattutto le autorità e le emittenti pubbliche sono obbligate alla neutralità, dovrebbero comunicare in modo grammaticalmente corretto e senza sovrastrutture ideologiche”.
Quello che sta accadendo nei due Paesi è molto significativo, al di là delle singole questioni linguistiche, dal momento che l’opposizione al “linguaggio inclusivo” va dalle proposte più innovative e sperimentali, al semplice utilizzo della declinazione femminile. Sia in Francia che in Germania, questi usi sono accusati non solo di essere ideologicamente connotati, ma anche di mettere in pericolo la neutralità delle istituzioni. Ma le istituzioni, di cui il linguaggio è la porta d’accesso, non possono mai essere neutrali, dal momento che riflettono le gerarchie di potere. Il modo in cui si sta svolgendo il dibattito sulla lingua inclusiva in Francia e Germania ricorda l’allarmismo sul “politicamente corretto” che “cancella la nostra identità”, con la pretesa che la nostra sia l’unica identità possibile.
Nel caso della lingua, il paradosso è ancora più evidente: nell’uso, il maschile si è imposto come la forma superiore con una pretesa di neutralità che, di fatto, questo genere non possiede. Lo scorso anno, la ministra della Giustizia tedesca Christine Lambrecht, del Partito socialista e da sempre impegnata per la parità di genere, aveva scritto la bozza di una legge sulla procedura fallimentare interamente declinata al femminile, provocando l’ira di praticamente tutto il panorama politico del Paese. La legge rischiava di essere incostituzionale, perché secondo alcuni sarebbe valsa solo per le donne, cosa che ovviamente non accade per le leggi, tutte, scritte al maschile. Anche in Italia, mentre ci sono decine di direttrici che vogliono farsi chiamare “direttore”, ancora nessun ministro insiste perché vuole essere appellato “ministra”.
Il problema non è di facile risoluzione – almeno quando si parla di leggi o documenti ufficiali – e diventa ancora più complicato quando si cerca di far notare la necessità di riferirsi non solo a uomini e donne, ma anche a persone trans e non binarie che hanno tutto il diritto di partecipare al discorso pubblico. Ma al di là della pur importante questione dell’usabilità, la reazione politica di fronte al linguaggio inclusivo ci mostra quanto ancora la partecipazione delle donne e di tutte le minoranze nel mondo politico non sia sufficiente e sia considerata non la normalità, ma l’eccezione. E ci mostra anche un’altra verità, su cui vale la pena di riflettere: una delle principali argomentazioni contro il linguaggio inclusivo è che le innovazioni linguistiche non si possono imporre con la forza. Ma quando c’è bisogno di fermarlo per decreto, ecco che la legge diventa improvvisamente lo strumento più adatto.