Per non restare una generazione di infelici dobbiamo creare una nuova scala di valori - THE VISION

Chi, in questi ultimi dieci mesi, non si è sentito triste, sconsolato, demotivato, solo e impaurito di fronte allo scenario mondiale, oltre che attirare la mia curiosità, ha la mia stima. In questo periodo, come hanno ripetuto più volte gli specialisti, sentirsi infelici e sperduti è del tutto normale, una sorta di sintomo, un campanello d’allarme che forse ci permetterà di capire qualcosa in più, di cambiare non solo ciò che abbiamo scoperto non funzionare nel mondo, ma anche nella nostra vita di tutti i giorni. 

Mentre aspettiamo che tutto questo finisca, senza avere una data precisa (cosa già molto difficile, poiché anche aspettare è sfibrante), non dico che disperarsi faccia bene, ma resto convinta che sperimentare l’angoscia possa aiutarci a dare il giusto valore alla serenità e a farci trovare basi più solide alla motivazione che ci muove. Il dolore emotivo è, prima di tutto, una domanda e la prima cosa da fare quando si sta male è chiedersi perché, come mai e in che modo, dato che solo così si potrà cercare di stare meglio. Se la risposta a questa sofferenza ha a che fare con la pandemia, sembrerà strano, ma siamo già a buon punto: significa infatti che ha una ragione oggettiva e che è anche una condizione diffusa per tanti e in diversi luoghi del mondo. Il Covid, infatti, riguarda tutti noi, anche se ovviamente ha conseguenze diverse per ciascuno. 

La scrittrice giapponese Banana Yoshimoto, nel 1988, scriveva nel suo primo romanzo, Kitchen: “Chi nella vita non conosce almeno una volta la disperazione, diventa adulto senza avere mai capito che cosa sia veramente la gioia”. Ciò significa che bisogna accettare che anche i momenti difficili della vita sono parte della nostra esistenza e che, una volta che si manifestano, è inutile ignorarli, fissandosi con la positività o vivendoli con vergogna; né, tanto meno, porta a qualcosa il crogiolarsi nello sconforto. Spesso, in questo periodo, sentiamo dire o diciamo cose come “sono stanco” o “non ce la faccio più”; ancora più ricorrente è la sensazione che debba venire qualcosa da fuori, dagli altri, a risolverci come complicate equazioni di terzo grado. 

Mai come oggi vi è la necessità di implementare il sistema di assistenza psicologica e di eliminare l’ingombrante tabù, ancora presente, del bisogno di rivolgersi a un professionista della salute mentale in alcuni momenti della vita. C’è un’intera generazione – ragazzi e giovani adulti – che sempre più spesso si trova ad aver a che fare con disturbi come l’ansia e la depressione e che spesso non ha i mezzi economici per affrontarle, né persone intorno capaci di non appesantire la situazione – magari con un bel “Reagisci!” del tutto fuori luogo. Il punto è che problematiche come l’ansia e la depressione non vanno confuse con l’infelicità e la tristezza che in questo momento sembrano chiamate dagli eventi. Nel primo caso, infatti, si tratta di condizioni cliniche di cui è necessario ed estremamente importante parlare con esperti in materia; nel secondo, invece, per quanto una chiacchierata con uno psicologo potrebbe comunque risultare utile, di norma non vi è una condizione patologica che inficia la vita quotidiana e la possibilità di fare qualcosa – qualsiasi cosa – per migliorare il proprio stato.

Mi rendo conto che essere onesti su come ci si sente è una cosa che spesso risulta facile solo a parole, anche perché spesso quando stiamo male siamo anche confusi e siamo i primi a non capire bene le ragioni da cui quel disagio origina. Bisognerebbe allora fare caso alle nostre abitudini, solo che il Covid le ha stravolte, rendendo tutto più difficile. Fino a qualche tempo fa, ad esempio, il mio miglior rimedio alle giornate difficili – per riprendermi da litigi con le persone care, dalle frustrazioni professionali e da varie preoccupazioni – era l’uscire di casa e camminare veloce per qualche chilometro, giù fino al mare, con gli auricolari nelle orecchie. Una volta lì, ormai placata, se ne avevo voglia, mi era assai semplice telefonare a un amico e dire: “Ci vediamo per un aperitivo?”. Oggi, invece, non solo mi trovo in zona rossa, ma sono anche tra i più scrupolosi osservanti delle regole. Dunque è come se vivessi ogni giorno un corto circuito emozionale, e la stessa cosa succede a tanti altri. Eppure so che la mia condizione, per quanto trovi terreno fertile nella mia emotività, non è una patologia, quanto uno stato di cui devo e posso occuparmi. 

A differenza della depressione, che necessita di una terapia medica, l’infelicità può essere “tutta merito nostro”. Alla stessa maniera, provare a essere, se non felici, almeno un po’ più sereni, può rappresentare un punto d’orgoglio del tutto personale. Non si tratta di fare uno show sul tema – “Guardate come sono capace di vivere la mia vita come se niente fosse!” – ma di riconoscere che il rischio di farsi prendere dalla tristezza o dall’avvilimento è, purtroppo, molto concreto e complicato dal fatto che siamo perennemente online. Passare del tempo sui social non significa solo tenerci in contatto con gli amici o discutere di un tema che ci appassiona, ma anche fare da spettatori, o comparse, di uno spettacolo di finzione in cui occorre mostrarsi sempre di successo, pronti, impegnati, sarcastici e profondi. Siamo sollecitati ad avere sempre qualcosa da dire o da esibire: ecco il presupposto della narrazione dei social. E non ci vuole uno studio – che pure esiste – a dire che questa cosa non ci fa bene, in nessun caso. 

Quando la pandemia è entrata nelle nostre vite facendone saltare gli assi che credevamo saldi, io mi sono sentita, in una certa maniera, pronta. Per quanto preoccupata e spaventata, davanti all’annuncio del lockdown, non ho vissuto quel brusco chiudersi di possibilità che ha fatto vacillare molti altri e questo perché nei mesi precedenti mi ero già trovata sola e chiusa in casa per un problema di salute: le mie giornate, insomma, non cambiavano di molto. Ho proseguito, dunque, con la routine che per caso avevo dovuto tracciare in tempi non sospetti e il fiorire di eventi online, in realtà, mi ha tolto anche buona parte della noia che ero stata invece costretta a sperimentare quando la condizione di isolamento riguardava solo me. Poi è successa una cosa strana: ho iniziato a non poterne più. Oggi, invece di sentirmi una campionessa della clausura sociale sono stanca e infastidita dall’idea di poter utilizzare questo momento per continuare a scavare dentro di me. 

“Certo, c’è un virus misterioso e altamente contagioso che sta invadendo le nostre comunità, ma non vuoi uscire dalla quarantena con addominali e una sceneggiatura finita? Non vuoi usare questo ritrovato ‘tempo libero’ per iniziare una nuova attività secondaria o scrivere un romanzo?” si chiede, sarcastica, la scrittrice Nora McInerny sul sito di TED, per poi proseguire raccontando di come la frase “Niente di nuovo per ora”, letta su un profilo Instagram, per lei sia diventata una sorta di mantra liberatorio. Questo tipo di approccio non è risolutivo, ma almeno ha il potere di farci concentrare sul qui e ora, senza sbandamenti nostalgici sul passato, né crash test sul futuro. Imparare a riconoscere i nostri stati d’animo nel presente è ciò che ci permette anche di sapere che sono passeggeri e di trasformarli in altro. Curarci che questo “altro” rappresenti qualcosa di buono per noi è nostra responsabilità, proprio come lavarci i denti, prepararci da mangiare e così via.

Quando mi sveglio preoccupata dalla giornata che ho davanti, avvilita dalla certezza che per molti versi sarà identica a quella precedente, mi sembra di non avere scampo, né so dire quando lo avrò. I consigli motivazionali, in quei momenti, mi danno sui nervi, sono benzina sul fuoco; la prospettiva di praticare yoga o meditare – cose che pure, di norma, mi piacciono e aiutano – è quanto di più lontano da me: in un presente che lascia poco spazio all’autodeterminazione, la mia ribellione è allora dichiararmi sconfitta. Posso passare ore così, a contarmi difetti e sfortune, tristezze e frustrazioni, incognite e inquietudini, ma volte è proprio questo a farmi bene. Perché arriva sempre il momento in cui io stessa non mi sopporto più e mi dico che così non va. E non va non perché aspiri a qualcosa in particolare, ma perché non me la sento di darmi per vinta. È semplice avere, come dato certo nell’incertezza totale, l’evidenza che la realtà che ci troviamo a vivere sia orribile, povera e deludente, ma pensare che sarà così per sempre o che non possiamo fare nulla in merito è una presunzione deresponsabilizzante. 

“Ogni ottimista,” scriveva Helen Keller – autrice, attivista e insegnante statunitense, sordo-cieca sin da bambina, “si muove con il progresso e lo accelera, mentre ogni pessimista tiene fermo il mondo […] Il pessimismo uccide l’istinto che spinge le persone a lottare contro la povertà, l’ignoranza e la criminalità e prosciuga le fonti di gioia del mondo”. Conoscevo già questo passaggio, ma a ripropormelo è stato qualche settimana fa l’oroscopo di Brezsny: scrollando sui social – schivando tristezze altrui, rabbie, articoli, numeri di contagi, dirette del presidente della Regione – cercavo come tanti qualcosa che mi desse la voglia e la forza di tirarmi su, e per le infinite vie del web è arrivato. La prima cosa che ho fatto, allora, è stata mettere giù il cellulare e provare, solo provare, a mantenere aperte le finestre del possibile per quella giornata, mentre le porte, per il momento, restavano chiuse. Lo sono ancora, ma, come dire: mi è un po’ più semplice riconoscere che così come ero pronta quando si sono chiuse voglio esserlo altrettanto quando si riapriranno.

Segui Raffaella su The Vision