In Italia trattiamo un writer come un boss mafioso ma paghiamo per vedere Banksy al museo - THE VISION
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L’ultima opera di Keith Haring si chiama Tuttomondo e si trova a Pisa. È un gigantesco murale che occupa tutta la parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio Abate. A convincerlo a realizzarlo fu l’allora studente universitario Piergiorgio Castellani, il quale ha in seguito ricordato che l’artista “Si sentiva protetto da questa grande tradizione e dalla sincerità di chi lo aveva accolto a braccia aperte, addirittura senza chiedergli di presentare un bozzetto preliminare del murale che avrebbe realizzato in un centro storico protetto da vincoli burocratici. Lui che veniva anche arrestato per le sue performance pubbliche, a Pisa è stato accolto nel cuore della tradizione cattolica che tanto ha dato alla storia dell’arte”. Uno dei padri della street art ha quindi lasciato il suo testamento artistico nel nostro Paese, eppure non tutte le città italiane hanno riconosciuto e valorizzato il suo lascito con lo stesso entusiasmo di quanto accadde a Pisa o Venezia. 

A Roma, infatti, ben due opere dell’artista statunitense sono state cancellate dai muri che le ospitavano, nel 1992 e nel 2001. Nel primo caso, l’allora sindaco Franco Carraro pensò bene di rimuovere i graffiti sulla facciata laterale del Palazzo delle Esposizioni per non far “sfigurare” la città agli occhi dell’illustre visitatore Michail Gorbačëv; mentre, qualche anno dopo, fu il suo successore Francesco Rutelli a sottovalutare la portata artistica del grandissimo murale realizzato da Haring sulle pareti trasparenti del Ponte del Tevere, lungo il tratto Flaminio-Lepanto della metro A. In entrambi i casi, la leggerezza nel prendere sottogamba la street art e l’eredità lasciata da uno dei suoi maggiori esponenti venne a ragione stigmatizzata da più parti, ma nonostante il passare degli anni e il cambio delle giunte comunali gli inquilini del Campidoglio continuano a condannare l’arte di strada e i suoi più importanti esponenti.

Proprio qualche giorno fa la sindaca Virginia Raggi ha comunicato in pompa magna l’identificazione del writer Geco, come se si trattasse di un boss della mala, dimostrando per l’ennesima volta un atteggiamento criminalizzante e ormai anacronistico nei confronti di quella che è considerata oggi a tutti gli effetti una forma d’arte. Mentre le più famose città del mondo si adoperano per convincere i migliori nomi della scena a riqualificare con le loro opere molti edifici e addirittura interi quartieri, Raggi posta sul proprio profilo Facebook il seguente annuncio, parlando del concittadino Geco come del “writer più ricercato d’Europa”: “Grazie al lavoro del Nucleo Ambiente e Decoro, e a un anno di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma, i nostri agenti sono riusciti a identificare il writer. I magistrati hanno poi disposto perquisizioni domiciliari e nei mezzi a sua disposizione. Era considerato imprendibile, ma ora Geco è stato identificato e denunciato. Ha imbrattato centinaia di muri e palazzi a Roma e in altre città europee, che vanno ripuliti con i soldi dei cittadini. Una storia non più tollerabile”. 

Virginia Raggi

L’accaduto, e i toni usati anche da alcuni media per raccontarlo, non fanno purtroppo che dimostrare quanto nel nostro Paese le istituzioni siano indietro nel comprendere le possibilità che potrebbero aprirsi superando certi stereotipi e pregiudizi. Tutto ciò assume tratti ancora più ridicoli se si considera che la vera notizia, per molti, è stato scoprire l’esistenza di un “Nucleo Ambiente e Decoro” in una città come Roma, che negli ultimi anni è finita sulle prime pagine di tutto il mondo per il problema della spazzatura, i bus in fiamme, i crateri aperti nel manto stradale e in generale la gestione di qualsiasi minima opera pubblica. Altrove, chi è riuscito a capirne il potenziale ne raccoglie intanto i frutti: a Berlino quello che resta dello stesso muro che per decenni è stato archetipo della divisione è diventato, attraverso la street art, simbolo del suo esatto contrario. In questo caso, furono proprio le autorità cittadine a richiamare nella capitale appena riunificata 129 artisti di 20 diversi Paesi affinché realizzassero i famosi graffiti che oggi abbelliscono l’ultimo chilometro rimasto del muro, formando la celebre East Side Gallery. Tra i vari lavori, il più iconico è il bacio tra i due leader socialisti Erich Honecker e Leonid Brežnev, realizzato da Dmitri Vrubel, che dimostra come questo tipo di arte sia profondamente popolare e si faccia spesso portavoce di un forte messaggio politico e sociale. 

Non sempre, però, si riesce a replicare questo risultato: oggi, dove non viene criminalizzata, l’arte di strada deve comunque convivere con il rischio di venire snaturata e privata di significato. Nel dicembre del 2014, l’artista italiano conosciuto come Blu rimosse infatti il suoi murales – Brothers e Chain – in Cuvrystraße nel famoso quartiere berlinese di Kreuzberg, prima che le coprisse il proprietario del terreno adiacente – finalmente libero di edificare sul terreno in seguito allo sgombero del famoso Cuvry Camp – in seguito alla gentrificazione che in tutta la città stava facendo schizzare i prezzi degli immobili. Quanto accaduto in Germania si rivelò essere solo il primo passo della battaglia che Blu sta tuttora combattendo affinché le logiche capitalistiche non finiscano per fagocitare una forma d’arte nata per essere libera e indipendente. Circa due anni dopo, nel 2016, l’anonimo street artist cancellò altre sue opere a Bologna, prima che venissero staccate dai muri e ricollocate in una mostra d’arte canonica all’interno di un palazzo storico della città. In quell’occasione, quello che anche il Guardian aveva definito come uno dei dieci migliori artisti di strada in attività aveva affidato la spiegazione del suo gesto di protesta al collettivo di scrittori Wu Ming che, sul proprio blog Giap, aveva scritto a suo nome: “La mostra Street Art è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi”.

La ritrosia di grandi nomi come Blu nel venire esposti nei musei si spiega soprattutto con il desiderio di conservare la matrice con cui è nata la street art: nell’Italia degli anni Settanta creare un murale era quasi sempre soprattutto un atto politico, e veniva spesso vissuto come un’esperienza collettiva che coinvolgeva artisti ma anche circoli culturali e persino scuole o comitati di quartiere. Le opere toccavano moltissimi temi con un’estrema varietà stilistica, pur restando legate fisicamente ai muri: in esse si condannavano i simboli del potere e si inneggiava a una solidarietà internazionale che si traduceva nell’appoggio ai popoli di Paesi oppressi.

In generale, per l’esplosione della street art fu fondamentale tutto un immaginario formato da quelle che il professor Carlo Branzaglia ha definito “iconografie del marginale” e che aveva origini proprio in determinate sottoculture: dagli skaters al mondo hip-hop fino a realtà come i culture jammers, gruppi che anche tramite interventi urbani praticano una pacifica guerriglia contro lo strapotere iconografico delle multinazionali. Si tratta di tutto un universo di suggestioni che ha arricchito l’arte di strada, ibridandola nel tempo sempre di più con i codici espressivi dei tatuaggi, del fumetto, del cyberpunk e dei rave. 

Come detto, però, la street art è legata a doppio filo soprattutto alla cultura hip-hop che al suo interno dà infatti molta importanza al writing. Per capire questo stretto rapporto è ancora valida la visione del documentario del 1983 di Tony Silver Style Wars, che si sofferma sul valore dei graffiti nella cultura urban. Il legame tra street art e sottocultura hip-hop si può però ritrovare anche dando un’occhiata alla traiettoria di molti rapper, partiti in molti casi dal writing. Anche uno dei primissimi esempi di rap in italiano è stato d’altronde proposto da qualcuno che prima e dopo si è dedicato soprattutto all’arte di strada: Speaker DeeMo è stato uno dei padri del genere in Italia con “Sfida il buio” ma, dopo quel fondamentale brano, si è dedicato alla street art, contribuendo alla diffusione della cultura hip-hop principalmente attraverso i suoi lavori artistici (uno di questi è diventato la copertina di SxM dei Sangue Misto, uno dei dischi rap in italiano più importanti di sempre). Musica e street art sono però legate a doppio filo anche all’infuori del mondo hip-hop. Non è un caso che molti sospettino che il misterioso artista Banksy sia in realtà uno dei membri fondatori del gruppo Massive Attack, Robert Del Naja, anche lui nativo di Bristol e anche lui con una carriera parallela nella street art con lo pseudonimo di 3D.

Style Wars (1983)

A prescindere da quale sia la sua effettiva identità, Banksy è ormai globalmente il più conosciuto tra gli artisti di strada, al punto da venire paradossalmente seguito sui social dalla stessa Virginia Raggi, quando non si trova impegnata a “catturare” il suo collega Geco. L’artista inglese è stato molto criticato proprio per essere entrato nei musei e in generale nel circuito dell’arte mainstream: oggi la gente fa la fila per fotografarsi vicino a uno dei suoi lavori e postarlo su Instagram, mentre le sue opere, di immediato impatto, risultano talmente iconiche da venire stampate su milioni di magliette in tutto il mondo, finendo come spesso succede in questi casi per snaturarne il messaggio sovversivo-rivoluzionario. D’altronde, più o meno dagli anni Ottanta, l’arte di strada e i suoi codici influenzano anche la moda e in generale la maniera in cui ci vestiamo. Se oggi anche i grandi marchi hanno deciso di inserire elementi legati alla street art nelle loro collezioni, spesso coinvolgendo in prima persona gli stessi grandi nomi della scena, molto del merito va dato a Keith Haring. Secondo vari esperti del settore, sarebbe stata infatti la sua collaborazione con Vivienne Westwood, all’interno della collezione Witches, il momento di svolta, quello in cui la moda “scoprì” e incorporò al suo interno per la prima volta il linguaggio proprio di questa forma d’arte. A più o meno quarant’anni di distanza non ci si stupisce più che Louis Vuitton abbia realizzato per anni collezioni di sciarpe con importanti artisti come i brasiliani Os Gemeos, o che Trouble Andrew abbia finito per portare il suo fantasmino Gucci Ghost sui capi del brand da cui prende il nome. Esistono d’altra parte moltissimi marchi che sono caratterizzati proprio dal loro legame con la street art sin dagli inizi: si pensi a The Quiet Life o a Obey, fondato dall’omonimo artista statunitense responsabile di lavori corredati anche in questo caso da risvolti politico-sociali.

Obey

Guardando la trasformazione di Obey in un brand a tutti gli effetti molti hanno riproposto la questione se effettivamente la street art non rischi di perdere credibilità e contenuti piegandosi in qualche misura alle logiche del mercato. L’italiano ZED1 – autore di opere di riconosciuto valore come il murale CuciMilano, nella periferia Sud della città – ha spiegato in un’intervista al Il Sole 24 Ore che la street art rischia a suo parere di morire solo quando viene decontestualizzata e tolta dal luogo in cui è stata pensata, o se viene imbrigliata e censurata da limiti espressivi imposti da altri. Quanto accaduto a Roma con Geco ci ricorda però che il rischio più grande per la questa forma d’arte rimane ancora, come ai suoi inizi, quella di non venire capita anche e soprattutto da chi dovrebbe trattarla per quello che è, un’arte.

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