Appena pochi mesi fa la Regione Piemonte pubblicava un bando attraverso cui intendeva riconoscere un contributo a chi decideva di trasferirsi in uno dei suoi 465 comuni montani sotto i cinquemila abitanti. Si parlava di una cifra tra i 10 e i 40mila euro. Un’iniziativa, si legge sul sito della Regione, finalizzata “a sostenere la rivitalizzazione e il ripopolamento delle aree montane anche a seguito dei bisogni sociali crescenti causati dall’attuale emergenza sanitaria”. La valorizzazione delle aree interne è una strada percorsa anche a livello nazionale, ad esempio per mezzo del rilancio dei piccoli borghi previsto dal Pnrr, dei fondi per la rigenerazione urbana e della Strategia Aree Interne, con cui si cerca di “contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese”. Questa attenzione rivolta a realtà territoriali che rappresentano una piccola porzione di popolazione è senz’altro positiva, ma allo stesso tempo mette in luce grandi divergenze. In Italia, infatti, il 15% della popolazione è compresa in dodici grandi comuni, mentre nei 5500 piccoli comuni, il 69% del totale, si conta solo il 17% della popolazione nazionale.
Negli ultimi anni sembra essere in crescita il desiderio di fuggire dalle zone urbane, che sempre più spesso si trasforma in realtà. Da tempo le storie di chi abbandona la propria vita in città e decide di ricominciare tutto in un piccolo paese in campagna o in un borgo di montagna popolano giornali, riviste e pagine online. Ci sono persone che prendono decisioni davvero radicali, come l’archeologo belga Michael Willemsen che ristrutturando una baita a Prato Gaudino, in provincia di Cuneo, è diventato l’unico abitante di una borgata fantasma composta da una ventina di case. Ma chi abbandona la vita cittadina per le zone rurali non sceglie necessariamente di imitare i personaggi di Paolo Cognetti e isolarsi tra le montagne in una baita o in un rifugio alpino. Per esempio, Chiara Innocenzi, già presidente di CIA Arezzo, aveva raccontato di aver abbandonato un impiego in banca a Milano per trasferirsi in val di Chiana, in provincia di Arezzo, e avviare un’azienda agricola. Il 1° settembre 2020 La Stampa riportava poi la storia dell’insegnante di musica Cristina Teppati, che a 49 anni aveva lasciato la propria casa a Torino, nella centrale piazza Statuto, per andare ad abitare in quella dei suoi bisnonni, a Ceres, nelle valli di Lanzo. Questo fenomeno è stato accresciuto dalla pandemia, che ha rivelato durante i periodi di lockdown il lato più difficile della vita nelle città. Su quest’onda si colloca la vicenda riportata da Huffington Post riguardante Elena Stella, consulente e docente di Turismo Culturale alla RCS Academy, che raccontava di essere “fuggita” sulle colline dell’alto trevigiano alla ricerca di un luogo più tranquillo, dove la vita scorresse più lentamente.
I ritmi della vita in città tendono, si direbbe, per forza di cose alla frenesia, nutrita da una società orientata dal concetto di ottimizzazione del tempo. L’esigenza di rallentare questa tensione ossessiva verso l’efficienza e la produttività porta così in tanti alla ricerca di quei tempi più distesi e ciclici che è più facile trovare e mantenere lontano dai nuclei urbani, per brevi parentesi o lunghi periodi. L’anonimato cittadino lascia il posto all’identità di paese, anche questa coi suoi pro e i suoi contro, dove tutti si conoscono, le relazioni interpersonali però si dimostrano forse minori ma più intense e la vita spesso si apre a dimensioni comunitarie. Chi si sente soffocare dalla realtà cittadina e fatica a rispecchiarsi nei suoi ritmi intensi, trova così la propria dimensione in una società agli antipodi, in cui il tempo torna a distendersi.
La realtà attuale ricorda un po’ quella fotografata nella scena in cui il Marcovaldo di Calvino, seguendo le indicazioni del Dottore, porta il figlio a prendere una boccata d’aria buona in collina. Lui, che sogna profondamente di fuggire dalla città opprimente in cui vive, osserva le nebbie urbane e si sente angosciato al pensiero di dover ritornare in quella “landa plumbea, stagnante” da cui però non può separarsi. Al contrario, i degenti del sanatorio che incontra sulla collina, nonostante abbiano la possibilità di godere del mondo rurale, non desiderano altro che tornare a passeggiare tra i lampioni e le vetrine. Allo stesso modo, oggi, molti abitanti delle città si sentono intrappolati in una gabbia da cui non possono scappare, mentre le aree urbane continuano a esercitare una forza attrattiva nei confronti di chi fugge da zone in cui la scarsa occupazione e la carenza di servizi rappresentano un vero problema. I rapporti Istat mostrano come il calo demografico previsto per la nostra nazione colpirà sempre più le zone rurali rispetto alle città, che saranno favorite anche dalle migrazioni interne. Secondo un dossier di Legambiente, in venticinque anni i piccoli comuni hanno perso 675mila abitanti, con una differenza demografica rispetto al resto del Paese del 13%. Una persona su sette, nell’ultimo quarto di secolo, se n’è andata dai piccoli comuni, con un progressivo invecchiamento delle comunità e il proliferare di abitazioni lasciate vuote.
Tuttavia, questa tendenza sembra aver subito un rallentamento durante la pandemia. Uno studio de Il Sole 24 Ore ha rilevato un calo generale per buona parte delle città, eccezion fatta per Milano e Bologna. Le ragioni starebbero nell’effetto lockdown con le conseguenti limitazioni, il crollo del turismo e la crisi economica in corso, che stanno influenzando le scelte a lungo termine delle persone. Di certo una componente importante è rappresentata dalla maggiore strutturazione dello smart working all’interno delle aziende. Non serve cercare casi estremi come quello dei nomadi digitali, ovvero persone che girano il mondo lavorando a distanza, per trovare esempi concreti di valorizzazione territoriale a partire dallo smart working. Recentemente è balzata alle cronache la creazione di un villaggio per lavoratori a distanza sull’isola di Madeira, in Portogallo, anche se esempi di questo tipo sono già presenti anche in Italia. L’Europa stessa invita gli Stati a investire nella creazione di smart villages potenziando le linee internet e favorendo la digitalizzazione delle aree rurali per superare i loro naturali handicap territoriali in maniera sostenibile. Il primo borgo italiano a diventare a tutti gli effetti uno smart village è stato Santa Fiora, in provincia di Grosseto, che è rinato incentivando il ripopolamento del borgo puntando sul lavoro a distanza. Bisogna tuttavia dire che, in questo settore, diversi investimenti sono ancora necessari: quando da tempo si parla di rete 5G, basta osservare le mappe di Agcom per rendersi conto di quante zone ancora non sono nemmeno raggiunte dal 4G, per non parlare della fibra ottica.
Di certo, quella dello sviluppo digitale rappresenta una delle strade possibili per contrastare uno spopolamento rurale che, purtroppo, coincide spesso con una serie di disagi. Territori che avrebbero bisogno di maggiori servizi, infatti, si trovano spesso a lottare per mantenere quelli attuali. Recente è la vicenda che ha visto protagonista il paesino cuneese di Monticello d’Alba dove, pochi mesi fa, una protesta guidata dal sindaco non era stata sufficiente per salvare dalla chiusura uno sportello di banca. Eloquente è l’esempio del Verbano Cusio Ossola, nel nord del Piemonte: basta simulare l’acquisto di un biglietto sul sito di Trenitalia per verificare l’assenza di una linea diretta che collega la stazione internazionale di Domodossola e il capoluogo regionale, Torino. I tempi minimi di percorrenza sono di almeno tre ore. Un fatto che esemplifica un fenomeno ampio, che riguarda numerose realtà rurali e rappresenta un disincentivo per chi immagina di trasferirvisi. Collegamenti poco efficienti con le aree urbane, infatti, rendono complicato il pendolarismo, così come l’accesso a scuole e università.
In quest’ottica bisogna tuttavia stare attenti agli eccessi ed evitare di snaturare le realtà rurali che rappresentano luoghi attrattivi soprattutto per la loro autenticità. Quando Daniela Santanché lanciava la proposta di realizzare un aeroporto a Cortina, ad esempio, evidenziava un’idea di sviluppo elitaria di alcuni territori montani. Cementificare il territorio in modo superfluo, specialmente in funzione di un target turistico d’élite, significa infatti sacrificare le peculiarità di una zona rurale. Interventi che lasceranno le proprie tracce incancellabili anche nel momento in cui la forza attrattiva del luogo dovesse calare. Serve attenzione, quindi, nell’evitare che il ripopolamento delle aree rurali possa sfociare in un uso di suolo sconsiderato, per giunta all’interno di aree che presentano sempre più “abitazioni fantasma” che aspettano solo di essere ristrutturate. In quest’ottica è interessante il progetto Case a un euro, che prevede la cessione pressoché gratuita di immobili in disuso a persone che, però, devono rimetterli in sesto. Un’iniziativa sostenibile, utile per conciliare le esigenze del mercato immobiliare e perfettamente in linea con gli incentivi alle ristrutturazioni edilizie promosse negli ultimi anni. E, soprattutto, finalizzata alla rivitalizzazione di borghi che rischiano sempre più di ritrovarsi deserti, con la perdita di un patrimonio culturale che contraddistingue in modo unico il nostro Paese.
Incentivare il ritorno alle realtà rurali, quindi, rappresenta una scelta positiva che deve essere supportata dalla consapevolezza di quanto sia importante preservare l’integrità di questi luoghi. Le loro caratteristiche rappresentano un patrimonio culturale enorme. Per questo è fondamentale che la valorizzazione di queste realtà passi attraverso investimenti importanti e con una visione a lungo termine, che metta al centro la sostenibilità non solo economica ma anche ambientale. È possibile, per non dire doveroso, incrementare opportunità, servizi e collegamenti dei territori rurali senza snaturare realtà che rappresentano una ricchezza per l’intero Paese.