Un’inchiesta di IRPI, Occrp, Investigace, Heut Nieusblad e Aktuality – alla quale hanno collaborato Jan Kuciak, ucciso lo scorso 21 febbraio, e Pavla Holcova – svela come Colombia, Calabria, Slovacchia fossero solo unite da un unico filo dipanato nelle Fiandre, tra Belgio e Olanda.
Il carbone è finito da tempo e della frontiera non è rimasta che una vaga idea. Nelle verdi pianure intervallate da boschi nel nord-est del Belgio, lungo il confine con l’Olanda, le cittadine nate intorno alle miniere hanno cambiato faccia, e sono diventate rade distese di villette fra i campi. Dei tempi del Sillion Industrielle restano musei e sparsi ruderi industriali. Una zona tranquilla, una quieta provincia che il 27 agosto di tre anni fa si è svegliata bruscamente, scoprendo una realtà che non sospettava minimamente.
Quel giorno Silvio Aquino, figlio di calabresi emigrati in Belgio, e sua moglie Silvia Liskova, slovacca, hanno da poco lasciato la villa di famiglia a Maasmechelen, cittadina di 40mila abitanti lambita dalle acque del fiume Mosa. La loro auto sfreccia tra gli alberi. Di colpo una Jaguar nera taglia loro la strada, bloccandoli: scendono tre uomini armati di mitra. Silvio ha una pistola, e spara per primo. Riesce a ferire uno degli assalitori, ma i sicari sono in troppi. Muore crivellato di colpi, mentre la moglie Silvia viene graziata. È una vera e propria esecuzione.
Inizia così la fine di una delle più potenti famiglie di narcotrafficanti d’Europa. Quando Silvio viene ucciso dai sicari, la magistratura belga aveva già portato alla sbarra lui e due dei suoi fratelli, ma il processo era agli inizi. Pare che qualcuno avesse deciso che Silvio doveva tacere per sempre.
Quella del narcotrafficante è una vita in bilico tra la sopravvivenza agli attacchi degli avversari e alle indagini di polizia. Gli Aquino si trovavano esattamente in questa situazione, avendo costruito un vero e proprio cartello per importare tonnellate di cocaina purissima direttamente dalla Colombia. Una tappa al porto di Anversa e poi lo scarico a Rotterdam. Il tutto nascosto in carichi di banane di Medellin.
Il processo ai fratelli Aquino – terminato a febbraio 2017 – è stato il più grande processo per narcotraffico della storia del Belgio, con 34 imputati e il sequestro di 8 milioni di euro tra contanti, droga, automobili e armi. Ma la difficoltà a collaborare tra magistrature di diversi Paesi ha fatto sì che le ramificazioni internazionali del cartello non siano rimaste coinvolte e che i personaggi che le compongono non siano niente più che soprannomi senza volto.
Quando è stato assassinato il 21 febbraio scorso, il giornalista Jan Kuciak – del giornale slovacco Aktuality – faceva parte di una squadra internazionale di reporter che stava ricostruendo le vicende attorno al cartello degli Aquino. A lui spettava capire in che modo questi narcotrafficanti riciclassero il denaro nel suo Paese, la Slovacchia.
Dopo la sua scomparsa, la squadra, coordinata dall’Organized crime and corruption reporting project (Occrp) e composta da giornalisti d’inchiesta di IRPI, Investigace e Heut Nieusblad, ha continuato a lavorare all’inchiesta, che The Vision pubblica in esclusiva per l’Italia.
Dalla Calabria alle Fiandre
I fratelli Aquino, omonimi ma non collegati al clan di ‘Ndrangheta di Marina di Gioiosa Ionica, di italiano hanno poco più che il nome: il padre era emigrato a metà anni Sessanta, lasciandosi alle spalle il paesino d’origine, Torano Castello, un piccolo borgo arroccato nell’entroterra cosentino. Cresciuti a Maasmechelen, i fratelli Aquino hanno costruito qui la loro vita e la loro carriera criminale.
La famiglia non risulta affiliata ad alcun clan di ‘Ndrangheta, ma non si può escludere che abbia mantenuto contatti con gli ‘ndranghetisti della zona. La polizia ha raccolto prove di alcuni viaggi che avrebbero intrapreso per incontrare i trafficanti del reggino. “Pur essendo vicino alla costa nord-ovest della Calabria controllata dal clan Muto, Torano è sotto l’egemonia della famiglia Abruzzese, anche nota come clan degli Zingari, l’ultimo a essere stato affiliato alla ‘Ndrangheta,” ci spiega Arcangelo Badolati, giornalista esperto di ‘Ndrangheta cosentina.
In odore di mafia o no, Silvio Aquino si è sempre dato da fare per emergere come criminale. “Io vengo dalla strada, ho rapito gente, l’ho fatto tutta la vita,” si vanta senza sapere di essere intercettato. Quando la polizia belga lo ascolta, è già un pluripregiudicato. La prima condanna per narcotraffico arriva nel 1998; la seconda nel 2004, questa volta in Olanda, per il rapimento di un fornitore che gli aveva rifilato zucchero al posto di cocaina. La terza, dieci anni dopo, di nuovo in Belgio, per l’export di 6,5 tonnellate di pillole di ecstasy verso l’Australia assieme a un broker della ‘Ndrangheta reggina.
Silvio, nel suo campo, era un lavoratore indefesso. Dagli interrogatori emerge la figura di un uomo votato ad arricchire se stesso e la famiglia, autoritario e inflessibile con i sodali. Suo fratello maggiore Raf si faceva chiamare “Padrino”, ma era Silvio il vero cervello della famiglia, aiutato dalla sua più grande alleata, la moglie Silvia Liskova, che seguiva da vicino i dettagli di tutte le loro operazioni. Ma non c’erano solo i parenti nel cartello degli Aquino. Le indagini hanno mostrato un gruppo di varie nazionalità – italiani, turchi, olandesi, est-europei e latinoamericani – organizzato gerarchicamente, in piedi già da prima che la Polizia lo affrontasse in modo organico.
Maasmechelen era una base perfetta. Gli permetteva di saltare continuamente fra Belgio e Olanda, procurando grossi grattacapi agli inquirenti costretti a emanare continue richieste di rogatoria per non perdere le loro tracce. E gli Aquino stavano attenti a tutto: pianificavano le operazioni di persona e al telefono usavano solo soprannomi e linguaggio in codice. Una cautela che per anni è stata sufficiente, nonostante i fratelli non dichiarassero pressoché nulla al fisco.
La polizia però aveva intuito di avere a che fare con dei criminali organizzati. Aveva solo bisogno di prove concrete per incastrarli. L’occasione arriva grazie a una fonte, che rivela alla polizia che il nipote di Silvio dovrà ritirare a breve un’auto nuova: installarci le microspie prima della consegna per gli agenti è semplice. Per otto mesi seguono i narcos da vicino, ascoltandone tutti i discorsi. Contano i chili di droga, anche dei carichi che non riusciranno a trovare e sequestrare: importazioni quantificate dagli inquirenti in almeno 2.400 kg di cocaina, pagata circa 21mila euro al chilo e venduta a circa 28mila. Un profitto calcolato nell’ordine di 15 milioni di euro in meno di un anno.
I carichi arrivavano principalmente al porto di Rotterdam, il più grande d’Europa: con undici milioni di container all’anno che passano dalle sue banchine e con percentuali di controllo inferiori allo 0,5%. La polizia olandese stima che da qui entri la buona metà di tutta la cocaina destinata all’Europa. Ma gli Aquino avevano elaborato una strategia vincente: inviare la cocaina a Rotterdam, facendola però passare dal porto di Anversa dove risultava controllata alla dogana, grazie a portuali corrotti.
Complici sulla banchina
Le partite venivano nascoste in spedizioni di banane dalla Colombia, e non a caso. I carichi di frutta si muovono veloci, in container frigo che raramente vengono ispezionati, poiché ad alto rischio alterazione. Gli Aquino in questo avevano trovato un doppio affare: importare cocaina tra le banane e poi vendere l’una a chi si occupa di spaccio e l’altra ai supermercati.
Avevano più di un canale di rifornimento, ma senza dubbio il migliore era quello organizzato da un cittadino turco. I container spediti dall’America Latina arrivavano ad Anversa. Lì, c’era una coppia di portuali conniventi, Marinus Simons e Sabine Nestor, il tipo di impiegati che ogni narcotrafficante vorrebbe dalla propria parte. Nestor era una marqueur per il più grande importatore di frutta del Belgio. Aveva accesso al piano di scarico delle navi, quindi sapeva con precisione dove e quando sarebbe stato scaricato il container con la cocaina, che marcava come “già ispezionato” in modo da evitare i controlli al porto successivo. Suo marito Simons faceva lo scaricatore sulla stessa banchina. Aveva diretto accesso ai container che venivano scaricati, e li sdoganava – aiutato dal fatto che sapeva esattamente quando sarebbero scesi. “Le ragazze sono in cammino verso l’hotel, baby. Abbiamo dovuto aspettare l’immigrazione. Ma stanno bene,” avverte Simons in un sms in codice diretto agli Aquino. È il 12 marzo 2013. Le “ragazze”, scoprirà di lì a poco la polizia, erano in realtà un carico di 330 chili di cocaina purissima.
Passata “l’immigrazione” di Anversa, il carico speciale raggiungerà Rotterdam due giorni dopo. E qui entra in scena un’altra pedina: l’autotrasportatore Ivan Grobben. La mattina del 15 marzo Grobben si mette in viaggio lungo i 170 chilometri che lo porteranno fino al porto di Rotterdam, senza accorgersi di essere seguito dalla polizia. Lì, il container arrivato il giorno prima lo aspetta alla banchina 7, gestita da uno dei principali importatori di frutta d’Olanda.
Con le banane e la cocaina a bordo, Grobben si districa nei meandri dell’enorme porto di Rotterdam. Quando ne emerge, viene raggiunto da un camioncino grigio. Sarà la sua scorta per assicurarsi che il viaggio di ritorno verso il Belgio fili liscio. Al confine, dove le cose diventano più delicate, alla scorta si aggiunge anche un van blu, sempre mandato dagli Aquino, ma tutte queste precauzioni servono a ben poco: non appena la carovana varca il confine, trova la polizia a serrargli il passo. I due camioncini tentano il tutto per tutto, cercando di distrarre le volanti e accelerando. Ma la polizia non è lì per controlli a campione come credono loro, è lì per il camion. Grobben non ha scampo. Tra le banane spuntano 330 chili di cocaina purissima.
Riciclare tra le vette della Slovacchia
Uno dei problemi principali che devono affrontare i narcos è quello di ripulire i guadagni. Non è banale trasformare montagne di contanti in fondi puliti. Jan Kuciak prima di essere ammazzato stava seguendo una pista che indicava come gli Aquino riciclassero i proventi del traffico in Slovacchia, oggi uno dei buchi neri d’Europa. Non tanto un paradiso fiscale, quanto una zona franca per il crimine e un territorio di conquista. Ai piedi dell’impressionante catena montuosa del parco nazionale Tatra, nel nord del Paese, c’è il caratteristico villaggio di Stara Lesna. Appena fuori, tra i boschi innevati, c’è un hotel speciale: il Kontakt Wellness. È un edificio triangolare in cemento armato, la facciata decorata da cinque balconate con vasi di surfinie viola e bianche, in pieno stile montanaro, circondato da chalet di legno e vasche di acqua bollente, e secondo la giustizia belga è di proprietà di Silvio Aquino.
Il narcotrafficante lo aveva scoperto grazie alla moglie, Silvia Liskova, ex-impiegata dell’albergo che a Stara Lesna ci era cresciuta. E Silvio non solo aveva deciso di acquistare l’hotel, ma anche di regalare alla consorte una villa di lusso, costruita da zero. Per puro caso, aveva scelto proprio un appezzamento di terra accanto al folkloristico B&B Solvo, gestito da un’altra famiglia di emigrati calabresi in Slovacchia: i Vadalà. Questi ultimi erano oggetto di un’altra inchiesta della stessa squadra di giornalisti pubblicata da Occrp e Aktuality come ultimo lavoro di Jan Kuciak. I giornalisti non sono riusciti a verificare se gli Aquino e i Vadalà avessero contatti di lavoro. A settembre 2012 Aquino avrebbe proposto all’azienda slovacca Kontak M s.r.o. – controllata dall’uomo d’affari Pavol Miskov – di comprare l’hotel per tre milioni di euro. Per l’acquisto Aquino si era avvalso di un prestanome, il commercialista belga Vezio Di Passio, che risultava ufficialmente nullatenente. In dibattimento il commercialista si è difeso dicendo di avere usato soldi propri per la transazione. I giudici della Cassazione, però, la vedono diversamente: Di Passio avrebbe comprato l’hotel come prestanome, in un’operazione legale, ma portata a termine i proventi illeciti degli Aquino. “Se aveste seguito l’intero processo, avreste visto che io sono finito in mezzo solo perché così potevano confiscare delle proprietà, le mie,” dichiara a IRPI.
Anche l’imprenditore slovacco Miskov, che ha ceduto l’hotel, sostiene che i magistrati abbiano interpretato male i fatti. Tramite il suo legale Jaroslav Novicky, ha dichiarato di non avere venduto l’albergo né ad Aquino né a Di Passio, ma di avere ceduto le azioni dell’azienda proprietaria dell’hotel all’azienda aperta apposta dal commercialista Di Passio. In una email mandata a IRPI, Miskov dichiara di essere “un onesto uomo d’affari che disconosce qualsiasi attività legata alla famiglia Aquino e di cui hanno scritto i giornali”. A luglio 2013 però, Miskov è stato arrestato a Tenerife, una delle isole Canarie, su ordine della procura belga. Viene trattenuto e interrogato per due giorni. Contro di lui non viene mossa alcuna accusa formale, ma l’hotel risulta tutt’ora sotto sequestro. “È stato un errore procedurale”, si difende Miskov. Ma secondo qualcun altro non ci sarebbe stato alcun errore procedurale. Per i magistrati, Miskov sarebbe rimasto direttore dell’albergo, agendo come prestanome, e per questo avevano deciso di interrogarlo.
Secondo le risultanze processuali, il Kontak viene usato anche come base operativa in Slovacchia. In più di un’occasione la moglie Silvia e l’autotrasportatore di fiducia per il traffico di droga Grobben avrebbero portato contanti dal Belgio a Stara Lesna. A cosa servissero questi trasferimenti di soldi, nessuno è riuscito ad appurarlo. L’unica attività economica che rimane in piedi da allora, oltre l’hotel, è una azienda slovacca di trasporti di cui Silvia Liskova è ancora azionista.
Piña colada per tutti
A causa dei limiti di giurisdizione, le autorità belghe non sono riuscite a indagare tutti i rami del cartello, che si estendevano anche fuori dal Paese. Le aziende di import-export di frutta al porto di Rotterdam e Anversa sono rimaste fuori dall’indagine penale. Tra queste c’è un’azienda importatrice olandese dalle cui banchine al porto di Rotterdam gli Aquino hanno recuperato alcuni dei container contenenti la cocaina. Questa azienda dichiara milioni di profitto, ma un solo impiegato, e il suo sito è work-in-progress da quando è stato registrato nel 2002; riceve banane da Banacol, un produttore di Medellin, Colombia, località tristemente nota per l’espansione le proprie piantagioni attraverso la violenza dei paramilitari.
Stando ai dati delle spedizioni analizzati da IRPI, nel 2016 l’azienda ha ricevuto carichi di ananas da parte della costaricana Comercializadora de Pina, più volte pizzicata a spedire cocaina alla ‘Ndrangheta. È di proprietà del trentenne German Andres Montero Picado, condannato per narcotraffico in Costa Rica nel 2014 e ritenuto dal Servizio Centrale Operativo (Sco) della Polizia di Stato italiana un burattino dei cartelli.
La sua condanna non ha fermato il flusso di droga. A dicembre 2014, un container inviato da Comercializadora è stato sequestrato a Rotterdam. Conteneva 3,5 tonnellate di cocaina purissima ordinata dalla ‘Ndrangheta. A ottobre 2015, lo Sco e l’FBI hanno scoperto una cellula di ‘Ndrangheta che operava dal Queens, un quartiere di New York. A inviargli la cocaina, nascosta tra i carichi di frutta, era di nuovo Comercializadora de Pina. Arrestati compratori e fornitori, ci si sarebbe aspettati l’interruzione almeno temporanea degli affari, e invece l’azienda ha continuato a spedire frutta e cocaina in tutto i mondo. Il 21 marzo 2016 un altro carico, questa volta di ben 4,8 tonnellate, è stato sequestrato ad Anversa. In tutto Comercializadora è riuscita a sopravvivere a tre indagini internazionali tra Italia, Costa Rica, Stati Uniti e Belgio. Incredibilmente, continua a operare.
Né la prima azienda, né Comercializadora hanno risposto alla richiesta di commento.
Messo a tacere per sempre
I due fratelli di Silvio Aquino, Mario and Raf, sono stati condannati in via definitiva, rispettivamente a sei e dieci anni di carcere per narcotraffico internazionale. Insieme a loro, in galera, sono finiti anche Grobben, l’autotrasportatore di fiducia, e la coppia di portuali di Anversa. Ma Silvio Aquino, non è riuscito a vedere la fine del processo, per sempre messo a tacere dai sicari della gang bosniaca Hamidovic, assoldata spesso per rapimenti e regolazioni di conti.
A finire sul banco degli imputati in quanto mandante, è un ex-ristoratore italiano di Maasmechelen, Martino Trotta. Il movente sarebbe stato un carico di cocaina. Trotta si dichiara innocente, ma in primo grado non è riuscito a convincere i giudici belgi ed è stato condannato a sette anni. Secondo l’avvocato di Silvio Aquino, Sven Mary, i due non sarebbero mai stati in contatto. Silvio avrebbe dovuto testimoniare in tribunale di lì a poco, e magari avrebbe scelto di collaborare, raccontando la vera entità del traffico da lui gestito. Sua moglie Silvia Liskova non ha voluto parlare con i giornalisti, come tutti gli altri protagonisti di questa storia.
*hanno collaborato Pavla Holcova, Jan Kuciak, Pieter Huyeberchts, e Jelter Meers.