In un’epoca in cui la distrazione è diventata un imperativo, credo che nel 2023 la vera rivoluzione sia fare una cosa alla volta. Siamo invece bombardati da informazioni, contenuti e immagini che creano nella nostra mente un numero eccessivo di stimoli, soprattutto perché la scarsa propensione a ottimizzare il tempo e una concezione distorta del multitasking ci portano a voler soddisfare tutti questi impulsi contemporaneamente. Così ci troviamo a lavorare su un progetto con il portatile tra le gambe mentre con gli auricolari sentiamo una conferenza di Alessandro Barbero sulla battaglia di Lepanto, diamo un’occhiata in tv a una partita di tennis al torneo di Indian Wells, mangiamo dei biscotti senza nemmeno guardarli e ogni tanto scrolliamo il telefono dove il feed di un social ci mostra il pinguino Olaf che viene nominato colonnello della Guardia Reale norvegese, un balletto durante un matrimonio indiano e un uomo che pronuncia tutto l’alfabeto ruttando. Crediamo di essere intrattenuti, di riempire gli spazi vuoti, ma è solo una ricezione passiva di ciò che abbiamo di fronte. Non ci approcciamo a un contenuto, lo subiamo.
Nel saggio 8 secondi – Viaggio nell’era della distrazione, la giornalista Lisa Iotti spiega come la soglia dell’attenzione si stia progressivamente abbassando fino a diventare inferiore a quella di un pesce rosso. Questo a causa dell’iperconnessione e dell’adattamento alla rivoluzione digitale, che non è ancora arrivato a renderci padroni del nostro tempo con la capacità di sfruttarlo al meglio a livello di fruizione di contenuti. Viviamo invece in una perenne sensazione di horror vacui che ci costringe a riempire i tempi vuoti attraverso il fast content, con la fusione di varie forme di intrattenimento che inevitabilmente diventano rumore bianco. Abbiamo bisogno di un sottofondo mentre svolgiamo qualsiasi tipo di attività e così facendo stiamo perdendo la capacità di comprendere e assimilare sul serio ciò che ci viene proposto.
Vale per tutti i campi. Prendiamo come esempio la musica, poiché anche le canzoni ci vengono imposte: in una palestra, in un bar o nei luoghi pubblici si crea quel sottofondo che Nicola Piovani chiama “musica da tappezzeria”. Il premio Oscar si è scagliato contro le “note passive”, tutto ciò che viene trasmesso creando un rumore di fondo che svilisce l’opera che si sta ascoltando. La passività è strettamente correlata alla distrazione e non riuscire a concentrarsi su una cosa alla volta genera una forma di dipendenza, che ci porta a cercare rifugio in più contenuti simultaneamente, a costo di deteriorare la nostra capacità di apprendimento. Secondo una ricerca dell’University of London, gestire più attività cognitive nello stesso momento porterebbe il QI di una persona ai livelli di chi ha passato una notte senza dormire o di chi ha appena fumato una dose massiccia di marijuana, con l’attività cerebrale comparabile a quella di un bambino di otto anni.
Consci di questa tendenza sempre più dilagante, anche i creatori di contenuti si sono adeguati all’andazzo, creando prodotti sempre più corti fatti apposta per tenere viva un’attenzione sempre più fragile. Se i podcast possono essere anche molto lunghi e servire come sottofondo, tutto ciò che invece deve essere visto e vive di immagini non può avere una durata eccessiva. Così i video su Youtube si accorciano per non essere soppiantati dall’immediatezza di quelli di TikTok o delle storie su Instagram. Si arriva dunque a una bulimia visiva: un video tira l’altro e non riusciamo a staccarci da ciò che ci propone l’algoritmo perché abbiamo bisogno di appagamento. Questo è ciò su cui fanno leva i social per tenerci incollati agli schermi. Sono infatti ottimizzati per stimolare nel nostro cervello la produzione di dopamina, la molecola che regola i meccanismi di piacere che sfociano nella dipendenza.
Se un processo chimico ci incatena alla fruizione selvaggia, anche a livello sociale siamo ormai schiavi della distrazione perenne. Il neurologo Richard Restak ha scritto nel suo saggio The New Brain: How The Modern Age Is Rewiring Your Mind che la sovrastimolazione ci sta portando a un punto di saturazione in cui smarriremo ogni forma di concentrazione, diventando degli esseri passivi di fronte a una mole di informazioni che già adesso non riusciamo più ad assimilare del tutto. Analizziamo ogni dato in modo superficiale, ma con la pretesa di averlo appreso solo per averne sentito parlare di sfuggita; guardiamo uno spezzone del trailer di un film e da questa esperienza frammentata traiamo già una conclusione; seguiamo un video motivazionale e crediamo di avere la verità in tasca. Immagazzinando poco di quel che ci arriva sotto forma di contenuto usa e getta, il sottofondo si trasforma nel sottosuolo di Dostoevskij, un luogo dove l’eco del mondo che ci circonda è ovattata e distorta, e l’unico modo che concepiamo per eludere i tempi morti è l’illusione del multi-intrattenimento, che in realtà è una regressione delle nostre doti d’apprendimento a livello cognitivo.
L’easy listening assume quindi i tratti dell’easy living, dove “easy” sta per superficiale, e tutto questo perché siamo nell’epoca in cui temiamo la noia più di ogni altra cosa. La associamo a un tempo che potrebbe essere riempito in altri modi e per contrastarla entriamo nel vortice delle “attività filler”: interazioni multimediali alla ricerca di una ricompensa che non arriverà mai, se non sotto forma di distrazione. Uno studio pubblicato sulla rivista World Psychiatry, dal titolo “The online brain: how the Internet may be changing our cognition”, spiega come i mezzi digitali che adoperiamo ogni giorno possano produrre alterazioni a lungo termine in specifiche aree cognitive del cervello, compromettendo i tempi di concentrazione e attenzione. Viene specificato che la carrellata di informazioni, notizie e contenuti senza soluzione di continuità modifica i modi in cui il nostro cervello valuta e memorizza ciò a cui viene esposto. Secondo altre ricerche, questa frenetica modalità con cui attingiamo al mondo digitale può addirittura generare sintomi da ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività). Pur essendo prettamente un disturbo pediatrico, o che comunque di solito si manifesta in principio durante l’infanzia, secondo il Manuale MSD può toccare anche soggetti in età adulta con sintomi comportamentali acuiti appunto da uno stile di vita che oggi è quasi un’imposizione sociale, nel tentativo di non perdersi niente del mondo – per lo meno quello dietro lo schermo – e fare dunque più cose contemporaneamente.
La fallacia del multitasking risiede proprio nell’abbaglio che abbiamo sulla terminologia. Universalmente lo associamo alla capacità di svolgere più compiti allo stesso tempo, ma in realtà è una parola che viene dalle funzioni del computer, che quando deve eseguire i processi A e B va a una velocità tale da indurci a credere che siano compiuti contemporaneamente. Non è così: il context switch, cioè il passaggio da A e B, è composto da due fasi separate, dunque il computer che lavora in multitasking fa sempre una cosa alla volta, registrando le informazioni a ogni passaggio. La pretesa inconscia dell’uomo del terzo millennio di sovrastare la macchina ci porta a travisare questo concetto. Ma dove non arriva il computer, non vedo perché dovremmo arrivarci noi, soprattutto se gli studi già citati dimostrano i danni derivati dal tentativo di mischiare più stimoli e mettere in pratica diverse attività allo stesso tempo.
Tecnicamente la tecnologia ce lo consente, è vero: possiamo stare al centro di una stanza e avere accesi tutti i device immaginabili. Mentre Spotify trasmette una playlist di musica country, sul portatile abbiamo in riproduzione una puntata dei Soprano, sullo smartphone c’è Instagram aperto e sul Kindle le pagine di un libro di Philip Roth. Nessuno di questi apparecchi esploderà. Nemmeno il nostro cervello, sul momento. Ci resterà però poco del brano di Joan Baez, di Pastorale americana, della recitazione di James Gandolfini e delle notifiche dei social. Il contenuto passivo non lascerà tracce e forse sarebbe stato meglio limitarci a sparecchiare la tavola o a mettere in pratica una sola attività, riscoprendo il gusto antico della noia.