Si parla spesso della libertà di scelta, di movimento, di organizzazione del lavoro che caratterizza i freelance. Un aspetto sul quale ci si sofferma poco è però l’impatto che questo tipo di carriera ha sullo stato psicofisico dei lavoratori. Essere “il capo di se stessi” può dare tante soddisfazioni, ma al contempo può far incappare il lavoratore nella paura, nella solitudine e in una dose ingestibile di stress, veri e propri sintomi categorizzati in una sindrome: la “freelance anxiety”.
Per anni ci è stato detto che il lavoro del futuro era fuori dagli uffici, che l’evoluzione naturale delle professioni sarebbe stata l’assenza di spazi definiti e orari fissi. Un cambiamento coadiuvato dalla tecnologia che, riscrivendo i limiti della carriera delle nuove generazioni, ha permesso una sorta di ubiquità lavorativa e una costante e illimitata reperibilità. Purtroppo, negli anni, queste attraenti prerogative si sono rivelate spesso un mero eufemismo per camuffarne un’altra: “precariato”.
Uno studio, pubblicato lo scorso aprile da tre professori della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, ha identificato come fattori generatori di stress le grandi insicurezze legate al futuro professionale e le difficoltà finanziarie della libera professione. Questi elementi si riversano sulla salute mentale dei lavoratori sotto forma di disturbi del sonno, sintomi della depressione e il cosiddetto “presenteeism”, un termine che viene tradotto con “l’essere presenti sul luogo di lavoro [anche in senso lato] oltre l’orario richiesto, soprattutto come manifestazione di insicurezza sul proprio futuro lavorativo”.
Altri studi effettuati da due ricercatrici della Harvard Business School e dell’Università della British Columbia, hanno dimostrato che coloro che “valutano il tempo come denaro” tendono a essere meno felici dei lavoratori stipendiati, in quanto le ore non dedicate al lavoro vengono percepite come meno importanti. Il tempo libero è valutato come un “costo” e di conseguenza viene associato al senso di colpa. Quando il lavoratore dà un valore economico al tempo, trattandolo come un qualsiasi bene all’interno di un sistema capitalista, tende a massimizzare il profitto che può trarne, un atteggiamento che aumenta l’impazienza e a volte svuota di significato il contenuto del lavoro stesso. Quando il valore economico dato al tempo diventa un fattore saliente nella vita di una persona, questo mina la sua socialità con implicazioni che si rivelano negative sul suo benessere personale.
Vincenzo Noletto, fotografo, ha 31 anni e ha la partita Iva da due, è contento di questa scelta professionale e non tornerebbe indietro. Quando gli chiedo di descrivere la gestione del suo tempo risponde: “La cosa che più mi dà ansia è non riuscire a gestire il tempo libero. Se devo vedermi con la mia ragazza, che vive in un’altra città, diventa complicato potermi organizzare, perché non posso prenotare prima i biglietti [perché potrei ricevere una chiamata improvvisa] e, se lo faccio, mi capita spesso di dover cambiare i treni perché vengo chiamato all’ultimo minuto da un cliente” e, aggiunge Noletto, “Il tempo è l’unica ricchezza”.
In Italia il fenomeno della freelance anxiety è pericolosamente sottovalutato, soprattutto considerando il fatto che il nostro Paese ha un tasso di self employed pari al 23,8%, secondo solo alla Grecia con il 29%, rapportati a una media europea che si assesta al 14% – stando agli ultimi dati in merito diffusi da Eurostat nel 2017.
Non di rado, la percezione distorta del binomio tempo-denaro è acuita da una legislazione farraginosa o addirittura assente. Un esempio, è il caso dei giornalisti freelance, per i quali la legge non stabilisce un equo compenso. Nonostante venga richiesto da anni, non esiste una normativa atta a quantificare quanto debba essere retribuito un articolo. Problemi come questo sviliscono la professionalità dei lavoratori autonomi che denunciano la mancata applicazione delle norme esistenti e un sistema di welfare insufficiente. Basta anche solo pensare alla confusione generata dai termini “lavoratore autonomo” e “libero professionista”, quest’ultima una dicitura con la quale si indica di solito chi svolge in autonomia un lavoro intellettuale che spesso richiede anche l’iscrizione a un Ordine professionale o ad altre associazioni di categoria.
Enrica, 45 anni e partita Iva da un anno, si occupa di comunicazione e ufficio stampa e racconta di aver trascorso lunghi anni da dipendente precaria, durante i quali le sono stati offerti contratti di tirocinio o compensi al nero, prima di prendere la decisione di rendersi autonoma a tutti gli effetti: “la partita Iva dà una dignità lavorativa”, racconta, ma quando le chiedo di parlare dei suoi diritti espone preoccupazioni comuni a molti liberi professionisti in merito alle scarse tutele previste dallo Stato in caso di malattie e infortuni. Effettivamente se si mette a confronto l’assistenza data a un dipendente e quella accordata a un libero professionista il bilancio è quasi sempre impietoso. Un problema molto sentito, che induce numerosi lavoratori autonomi a stipulare assicurazioni private. Avere la percezione di non potersi ammalare perché ogni giorno in cui non si lavora corrisponde a non guadagnare, è una condizione che aumenta l’ansia e lo stress. È bene dire, allora, che per alcune categorie di liberi professionisti – e al netto della giungla burocratica – i diritti in materia esistono, ma spesso sono ignorati come la malattia domiciliare, l’indennità giornaliera per ricoveri, interventi chirurgici o day hospital.
Il lavoro è una tematica in continua evoluzione, subisce cambiamenti tanto repentini quanto poco gestibili, tali che le leggi riescono raramente a stare al suo passo. Questa mancanza di sincronia, culturale e legislativa, spesso si riversa sulle spalle dei lavoratori sia dal punto di vista della salute mentale sia da quello dei diritti.
Maria, nome di fantasia, ha 31 anni e lavora come redattrice letteraria freelance. Ha deciso che aprirà la partita Iva a breve, sulla gestione del tempo dice: “lavoro anche dodici ore al giorno, e spesso di sabato, domenica e nei festivi. Ultimamente, però, mi sono imposta di ritagliarmi del tempo per me stessa, perché mi sono resa conto che altrimenti, anche dal punto di vista professionale, rendo meno”. Alla domanda su come pensa in futuro di conciliare il lavoro da freelance e il desiderio di avere dei figli, risponde: “Se ci penso è una tragedia”. Un tema di cui non si parla abbastanza, infatti, è quello delle madri con la partita Iva: se normalmente c’è una disomogeneità di diritti tra freelance e lavoratori stipendiati – in materia di tasse, ma anche in caso di malattia o anche solo il congedo di maternità – quando quel lavoratore autonomo è una donna con figli i problemi aumentano in modo intollerabile.
Essere un lavoratore autonomo ha sicuramente i suoi vantaggi, i motivi per scegliere di essere una partita Iva comprendono, ad esempio, la possibilità di sviluppare progetti in cui si crede in totale autonomia, l’opportunità di rapportarsi al cliente con maggiore professionalità e, in alcuni casi, compensi più alti rispetto al lavoro dipendente, ma il carico di stress dovuto al rischio di impresa e all’assenza di tutele in molti casi può risultare eccessivo. Quando, in aggiunta a questo, il lavoratore ha già problemi psicologici, purtroppo, essere freelance potrebbe peggiorare la sua condizione. Uno studio tedesco del 2007, citato anche dal quotidiano inglese The Guardian, ha riscontrato che svolgere un lavoro indipendente aumenta “il rischio di peggiorare le condizioni di salute mentale dei lavoratori freelance, in quanto esposti a precarie condizioni di lavoro”.
La gig economy – l’organizzazione dell’economia nell’era di internet attraverso le piattaforme digitali – ha creato mondi, professioni e opportunità che nessuno prima aveva immaginato, ma la sensazione crescente è che una società iperconnessa sia regolata da una normativa inspiegabilmente obsoleta, come quella che vige in Italia, e più che aprire possibilità di lavoro crea lavoratori di serie A e di serie B. La soluzione, dal punto di vista personale c’è, come suggerito dagli psicologi della Harvard Business School: cambiare il valore che diamo al tempo libero. Bisogna rompere la catena che lega il tempo al denaro e considerare i momenti da dedicare a se stessi e ai propri cari come il tempo della rigenerazione, e come tale irrinunciabile.
Non tutti hanno la fortuna di poter fare questa scelta, è per questa ragione che, a livello collettivo, la soluzione è far sì che i lavoratori siano consapevoli dei propri diritti e ne pretendano di nuovi in quegli ambiti in cui mancano. Come sta facendo in Italia l’associazione Acta (Associazione consulenti del terziario avanzato), che mette in rete i lavoratori freelance e che dal 2004 lavora per creare una coscienza di classe tra soggetti che altrimenti difficilmente si incontrerebbero. “Siamo una particolare categoria di lavoratori autonomi, non siamo commercianti né contadini, non apparteniamo alle professioni protette da Ordini ma siamo tra i lavoratori indipendenti quelli più moderni, figli di un sistema che è stato chiamato postfordismo”. Sono queste le prime parole del Manifesto che Acta lancia nel 2010 e quasi dieci anni dopo il lavoro autonomo è ancora un universo sostanzialmente estraneo al legislatore.
Come riportato dal canale di informazione statunitense CNBS, in Nord America nel 2019 esistono sessanta milioni di freelance, il 35% della forza lavoro e i più convinti a intraprendere i lavori indipendenti sono proprio i millennials. I dati della CNBS preannunciano che molto probabilmente anche in Italia il numero dei lavoratori autonomi continuerà a crescere in modo esponenziale, complice la crisi economica. Per fare in modo, però, che questo fenomeno non avvenga a discapito dei diritti e della salute dei lavoratori bisogna informarsi e impegnarsi a non sacrificare la loro dignità professionale. Perché i lavori cambiano, ma i diritti devono rimanere.