La maggior parte di ciò che conosciamo lo apprendiamo dalle altre persone. So che Moroni è la capitale delle isole Comore, nell’Oceano Indiano, perché un’amica me l’ha raccontato giusto cinque minuti fa, e non ho motivo di dubitarne. Nemmeno lei c’è mai stata – probabilmente lo sa perché lo ha letto da qualche parte. È la testimonianza il tramite attraverso cui acquisiamo molte delle cose che sappiamo. Se dovessimo fare affidamento solo sui nostri sensi, avremmo una conoscenza molto limitata. Quando guardiamo il telegiornale, ascoltiamo le previsioni del meteo o spettegoliamo di un conoscente, ci stiamo affidando alla testimonianza altrui. È così che espandiamo il nostro orizzonte cognitivo. Quindi la maggior parte delle nostre convinzioni si basa su quelle di altre persone. Ma non sono l’unica cosa. Anche i nostri desideri, in parte, si fondano sui desideri degli altri.
Capita, per esempio, quando un amico continua a insistere per andare in un determinato ristorante. Difficile non ritrovarsi a volerci andare a nostra volta. O quando, trascinati in discoteca nonostante la stanchezza, ci ritroviamo a ballare perché tutti intorno lo fanno. È una sorta di “desiderio da contagio”, e ci coinvolge spesso. Non che debba sorprenderci. Sbadigliamo quando le persone attorno a noi sbadigliano; e le nostre emozioni vengono influenzate da quelle degli altri, come quando un film ci appare più divertente se tutti nel pubblico ridono forte. La differenza è che le nostre emozioni sono fugaci: usciti dal cinema potremmo non trovare più così esilarante quella pellicola o smettere di sbadigliare quando nessuno attorno a noi lo fa. I desideri che si formano sulla base di quelli altrui, invece, possono restare con noi a lungo, per decenni, trasformando la nostra vita – o addirittura rovinandola. Normalmente non impariamo cosa desiderare dai tifosi dell’Arsenal – com’è capitato a me quando vivevo a Londra –, ma dalla nostra famiglia: genitori, fratelli, sorelle. Molte di queste aspirazioni riguardano aspetti più intimi e profondi di quale squadra di calcio tifare. Il vero problema è che, mentre nel caso delle informazioni condivise da altri siamo abbastanza bravi a distinguere il vero dal falso, davanti ad alcuni “desideri da contagio” ci troviamo completamente indifesi. Se è davvero così, però, allora l’idea di un sé indipendente è in qualche modo illusoria. Gran parte di ciò che facciamo finisce per essere alimentato dalle ambizioni e dalle fantasie di coloro che ci circondano.
Ci sono quattro opzioni con cui formiamo i desideri. Nella prima, nascono semplicemente sulla base dei nostri bisogni, come quando ci svegliamo e sentiamo di avere sete. La seconda è un’evoluzione della precedente e si basa non solo sulle esigenze in sé, ma anche sulle convinzioni che vi leghiamo: in preda alla sete, crediamo che il succo d’arancia lasciato in frigo possa aiutarci a placarla perché abbiamo bevuto la stessa bevanda già molte altre volte in passato. Poi c’è la formazione di un desiderio a partire da una convinzione che abbiamo sviluppato dalla testimonianza di un’altra persona. Facciamo finta di non capirne niente di vino italiano ma, conversando con un amico che se ne intende, scopriamo che vuole provare a tutti i costi una bottiglia di Brunello di Montalcino del 2004. Ora anche noi vogliamo berlo. Non abbiamo mai assaggiato un Brunello, figuriamoci uno del 2004. La convinzione che sia la scelta migliore si fonda esclusivamente sulla testimonianza ricevuta. Per spiegare l’ultima, invece, torna utile Blow-Up, film cult del 1966 di Michelangelo Antonioni. In una scena, durante un concerto rock, il protagonista afferra un pezzo della chitarra che la band ha distrutto sul palco. Una volta che è riuscito a fuggire da tutti gli altri fan che lo bramavano e si trova da solo, al sicuro, per strada, butta via il frammento. Il suo desiderio si è modellato sulla base di quelli degli altri, ma partendo da qualcosa di diverso rispetto a una convinzione consolidatasi e giustificata da una loro testimonianza.
Gli ultimi due casi sono ciò che si intende con “desiderio da contagio”, ma sono separati da una grande differenza: la presenza o meno di una testimonianza, che permette di distinguere tra “desiderio da contagio indiretto” – il primo – e “diretto” – il secondo. A volte, infatti, siamo influenzati dal desiderio di qualcun altro indipendentemente da qualsiasi credenza potremmo aver acquisito da questa persona. Riconoscere quanto un’ambizione sia più o meno personale è spesso difficile, perché tendiamo a razionalizzarla. Se mi ritrovo con un desiderio che non sembra essere basato su nessuna delle mie convinzioni – o che forse è addirittura in conflitto con alcune di esse –, cercherò di trovare una spiegazione – magari campata in aria – del motivo per cui voglio proprio quella cosa. Diversi studi di psicologia sociale dimostrano come siamo disposti a far di tutto per dare un senso e giustificare – agli altri, ma soprattutto a noi stessi – le nostre azioni, preferenze e desideri. Razionalizzazioni di questo tipo possono finire per nascondere quanto quel desiderio sia il risultato di un’interazione più che di una nostra vera volontà.
Viene da chiedersi cosa fare. Come proteggersi dal ritrovarsi a desiderare desideri altrui. La cattiva notizia è che gran parte di questo passaggio avviene senza che ce ne accorgiamo. Come quello emotivo, ma diversamente da quando entriamo a conoscenza di qualcosa tramite una testimonianza. Nell’ultimo caso, infatti, potremmo riuscire a sviluppare un buon meccanismo di valutazione. Se il meteo dice che sta nevicando, ma guardando fuori dalla finestra ci accorgiamo che non è così, non abbiamo motivo di credere alle parole del presentatore. Così come se le informazioni condivise da un amico si rivelassero false, probabilmente non prenderemmo troppo sul serio le sue dichiarazioni. Un meccanismo che ci aiuta a difenderci anche nel caso dei “desideri da contagio indiretto”. Per quelli “diretti”, invece, è molto più complesso.
Le credenze sono quasi sempre coerenti fra loro, ma i desideri no. Possiamo, e molte volte lo facciamo, averne di contrastanti. Le pubblicità di sigarette o bevande gassate sono l’esempio migliore: non cercano di comunicare un messaggio – altrimenti probabilmente sceglierebbero qualcosa di più efficace dello slogan “Per essere un vero uomo devi fumare queste sigarette” – ma di innescare un desiderio, aggirando i nostri meccanismi di valutazione, che il più delle volte sono contro il fumo e il consumo di bevande zuccherate. E ci riescono: pur sapendo che certi prodotti sono malsani e poco indicati per la salute, se gli spot sono ben costruiti riescono a scatenare un certo bisogno. Un’opzione per resistere è capire che vogliamo molte cose, ma ne desideriamo veramente solo pochissime. Volere davvero qualcosa è ciò che li distingue. È un voler volere, con cui escludere tutto ciò a cui non ambiamo realmente. Il problema di creare una gerarchia tra desideri, però, è che nulla vieta che anche quelli più importanti nascano da fantasie altrui. Ma allora come fare? Creare un criterio per definirne di altri ancora più necessari? Anche questi non sarebbero del tutto immuni, portando al fallimento del suddetto meccanismo di screening. La differenza con il modo con cui individuiamo le false informazioni, poi, non è assoluta. Anzi, spesso fallisce.
Se esistono delle tecniche, in ambito psicologico, per rifiutare i cosiddetti desideri “indesirati”, rendendo palese il conflitto con altre nostre ambizioni, la mancanza di un procedimento standard ha un serie di potenziali implicazioni nel modo in cui pensiamo al sé. I nostri desideri cambiano. La domanda è: cosa li cambia? Ne acquisiamo molti per mezzo degli altri e, non esistendo un vero metodo per individuarli, significa che molto di ciò che vogliamo è, in un certo senso, ereditato dalle persone che ci circondano. Una conseguenza radicale di questa argomentazione riguarda il modo in cui dovremmo pensare al nostro io alla luce di queste considerazioni. Un modo diffuso di pensare al sé, che risale almeno al XVIII secolo e al filosofo scozzese David Hume, è che consiste nell’insieme di tutti i nostri desideri – oltre ad altri elementi. Ma se fosse così, allora ciò che siamo è il risultato, in larga misura, di un “contagio”.
Sappiamo anche che ignoriamo sistematicamente la possibilità che il nostro sé futuro possa essere diverso dal nostro io presente. È “l’illusione della fine della storia”: abbiamo la tendenza a considerare noi stessi un prodotto finito, ma non lo siamo. Ciò rende ancora più probabile che proveremo a fornire giustificazioni successive e a razionalizzare qualsiasi desiderio potremmo mai acquisire. Quindi il sé cambia. Viene da chiedersi allora quanto di questa trasformazione sia sotto il nostro controllo. La risposta, in parte, è che abbiamo una padronanza abbastanza buona su quali nuove convinzioni acquisiamo. E potremmo persino averla sui desideri davvero più intimi e profondi, o selvaggi e istintuali. Ma non abbiamo il pieno controllo. Così, se non impariamo a distinguerli o a conoscere in profondità noi stessi, i desideri altrui continueranno ad avere un impatto reale su chi siamo, chi saremo.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon