Mosul è una città di circa un milione e mezzo di abitanti, attraversata dal fiume Tigri. Anticamente conosciuta come Ninive, oggi è il secondo agglomerato urbano più grande dell’Iraq. O almeno, lo è ciò che ne rimane dopo mesi di estenuanti bombardamenti da parte della coalizione internazionale e tre anni da roccaforte del Califfato islamico. Quando nel 2014 è stata presa dall’Isis, in città risultavano ufficialmente schierati 25mila uomini, tra soldati e forze della polizia irachena, addestrati ed equipaggiati dall’esercito americano; le camionette nere di Daesh sono entrate in città e l’hanno conquistata nel giro di poche ore, con appena 2mila uomini. In molti si sono chiesti come sia stato possibile, come mai più della metà dei soldati iracheni abbia disertato senza nemmeno combattere.
Secondo lo storico israeliano Harari, le relazioni tra gli uomini si basano sui miti, storie che vengono condivise e tramandate e ci permettono di avere una base comune attraverso cui comunicare. Alcune di esse sono talmente potenti da influenzare il corso delle cose, come è accaduto nel caso di Mosul. Come in molte altre religioni, anche nella cultura islamica esiste una teoria sul giorno del giudizio: per i musulmani si tratta della profezia della Fine dei Tempi, secondo la quale, un giorno, una sanguinosa battaglia per la verità condotta dall’armata di Allah porterà all’eliminazione di tutti gli infedeli, lasciando il mondo nelle mani dei veri credenti. Nove musulmani su dieci credono a questa storia, e molti di loro pensano che questo accadrà lungo il corso della propria vita.
Nella campagna online che ha preceduto l’attacco di Mosul, l’Isis ha diffuso un video particolarmente cruento, in cui fa esplicito riferimento a tale profezia: tutti coloro che non si fossero schierati dal lato di Allah sarebbero stati puniti duramente. In quel macabro filmato, che avrebbe turbato e terrorizzato chiunque, vengono portate come esempio moltissime esecuzioni. Ma non è stato solo questo ad aver spaventato i soldati iracheni: a questa antica e potentissima credenza i soldati di Daesh hanno aggiunto uno strumento moderno, ma altrettanto efficace. Qualche mese prima dell’attacco i tecnici del Califfato hanno sviluppato un’app per Twitter chiamata “L’alba delle buone notizie”. L’applicazione avrebbe dovuto soltanto tenere gli utenti informati sugli aggiornamenti riguardanti il Califfato, ma con la propria iscrizione questi accordavano anche il permesso all’app di pubblicare sui loro profili contenuti prodotti dagli sviluppatori dell’Isis. Mentre le truppe di Daesh marciavano verso Mosul, più di 40mila account hanno twittato contenuti relativi all’imminente battaglia, dando l’impressione che l’esercito nero fosse ben più grande dei numeri reali. Facendo leva sulle credenze degli iracheni, e utilizzando la tecnologia in modo sapiente, i soldati del califfato sono riusciti a far sì che la loro narrazione si trasformasse in una profezia autoavverante.
Di estremismo islamista si è parlato molto negli ultimi anni in Occidente, e per un motivo. Nel solo 2014 le morti per attacchi simili nei Paesi dell’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sono aumentate del 650% e più della metà sono riconducibili all’Isis. Ma il terrorismo islamista rappresenta meno del 50% degli attacchi perpetrati in Europa con scopi politici. Dal gennaio 2012 al settembre 2016 sono state 130 le azioni terroristiche legate all’estremismo di destra, mentre 84 quelle commesse in nome del fondamentalismo islamista. Eppure in rare occasioni si è parlato con toni emergenziali dell’Alt-right americana, delle azioni di Forza Nuova o CasaPound, di EDL (English Defence League), BNP (British National Party), Pegida (gruppo tedesco che unisce i sedicenti “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”) e di tutti gli altri 920 gruppi islamofobi di estrema destra presenti in 22 nazioni del mondo. In Germania l’odio contro i musulmani è in forte ascesa, e solo nel 2017 il ministero dell’Interno ha contato 950 azioni violente; negli Stati Uniti, dall’11 settembre a oggi, la media di attacchi del genere è di 337 all’anno; nel 2016 nel Regno Unito un terzo degli arrestati per terrorismo proveniva dagli ambienti di estrema destra. In Italia, il collettivo Antifa Ecn ha raccolto dal 2005 più di 5mila testimonianze di violenza neofascista, e indicizzato 168 attacchi terroristici dal 2014 a oggi.
Queste due tipologie di terrorismo, seppur raramente accostate – anche perché quello di destra non viene quasi mai chiamato col suo nome, né da noi né all’estero – hanno in comune molto più di quanto si possa pensare. La ricercatrice austriaca Julia Ebner nel suo saggio La rabbia parla di radicalizzazione reciproca: anche se apparentemente agli antipodi, questi fanatismi si nutrono in realtà delle stesse incertezze, della stessa frustrazione e degli stessi miti, per quanto speculari.
Un esempio su tutti lo offre lo scienziato francese Alexis Carrel, il cui saggio pseudoscientifico L’homme, cet inconnu, che teorizza la presunta esistenza di una gerarchia delle razze, ha ispirato sia il regime filo-nazista di Vichy, sia l’ideologo di riferimento di al-Quida, Sayyid Qutb. Allo stesso tempo è facile notare come le narrazioni siano molto simili: se da un lato i nazionalisti estremisti bianchi vedono nell’immigrazione musulmana una minaccia per la società liberale – anche se liberale, fosse per loro, non sarebbe poi tanto – gli islamisti credono che il colonialismo e il suprematismo occidentale distruggeranno la cultura millenaria dell’Islam.
Entrambi hanno una visione manichea del mondo, che percepiscono come diviso a metà: buoni e cattivi, superiori e inferiori, credenti e infedeli. Inoltre, se da un lato i militanti dell’estrema destra non fanno differenza tra fondamentalisti, estremisti e semplici fedeli dell’Islam, i terroristi islamisti vedono in tutti gli occidentali suprematisti bianchi, intolleranti verso il diverso, arroganti e privi di valori. Un altro aspetto che hanno in comune è un forte conservatorismo, specialmente sul piano delle relazioni di genere: se da un lato si ergono a paladini della donna, soggetto ovviamente non in grado di difendersi da sé dalla minaccia dell’altro, sono allo stesso tempo intolleranti verso qualsiasi altra forma di sessualità, e in alcuni casi hanno sviluppato anche sentimenti misogini e omofobi.
Secondo Julia Ebner l’ondata di violenza rappresentata da questi estremismi ha la sua base principale nella crisi globale dell’identità che stiamo attraversando. La crisi economica, il fallimento delle politiche d’integrazione e la società fluida hanno generato nelle persone, specialmente nei giovani, un forte senso di smarrimento. Questo le ha indotte a idealizzare le certezze del passato, spingendole alla ricerca delle proprie radici. La radicalizzazione è alla base di tutte le politiche identitarie che si stanno diffondendo sia in Occidente che fra la umma, la comunità globale dei credenti musulmani.
Infine internet. Se come dimostra l’esempio di Mosul i social media sono stati fondamentali per la propaganda dell’Isis, allo stesso modo lo sono per tutti quei partiti che – seppur ripuliti dalle istanze più intolleranti e xenofobe – rappresentano l’estrema destra nei parlamenti d’Europa e nel Congresso americano. Non è un caso se Mark Rutte, il Primo Ministro olandese, per quanto conservatore, ha 41mila like su Facebook, mentre l’estremista Geert Wilders 278mila; Matteo Salvini ne ha 2.8 milioni e Matteo Renzi supera di poco il milione; Trump ha 53 milioni di follower su Twitter, Hilary Clinton ne ha collezionati meno della metà. La narrativa dell’estrema destra è efficace perché è semplice e immediata, ma spesso anche perché è manipolata. Un’inchiesta di Buzzfeed ha rivelato che il 38% delle informazioni contenute in pagine di destra è errato.
L’influenza che questi leader hanno su quelli che poi diventano militanti violenti è dimostrata secondo Ebner da alcuni dei più cruenti attacchi dell’estrema destra. Hendrick Vyt, il belga che ha ucciso una coppia di musulmani davanti agli occhi del loro bimbo di 4 anni; Anders Breivik, il norvegese che ha massacrato 77 persone il 22 luglio del 2011; l’inglese Thomas Mair, responsabile dell’omicidio di Jo Cox; il canadese Alexandre Bissonnette, che ha ucciso sei persone in una moschea a Québec. Tutte queste persone seguivano in modo attivo esponenti politici dell’estrema destra. Così come lo stesso Luca Traini, il terrorista di Macerata, era stato perfino candidato con la Lega. Certo, i partiti si discostano dagli attacchi quando questi avvengono, ma ignorano o fingono di ignorare che il linguaggio che usano nel quotidiano normalizza l’aggressività, che in alcuni casi può sfociare in aperta violenza.
L’esempio di Mosul, così come quello della correlazione tra la propaganda populista di destra e l’estremismo militante, rendono chiara l’idea di come la narrazione con la quale descriviamo il mondo non viene solo generata dai fatti, ma produce allo stesso tempo conseguenze concrete sulla nostra realtà. Gli estremismi raccontano il mondo in funzione delle proprie istanze, e hanno bisogno l’uno dell’altro per crescere e diffondersi tra la popolazione. Ad oggi, la risposta della politica moderata è stata insufficiente. In molti Paesi i governi, pur di rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata, sono andati a intaccare proprio quei valori di democrazia, solidarietà e libertà su cui erano fondati, nutrendo proprio quei mostri che avrebbero voluto combattere.