Nella nostra società esiste il curioso paradosso per cui il meno abbiente prende come modelli di vita, o come idoli, quei ricchi che hanno l’hobby di rimarcare la lontananza tra i loro stili di vita. Per comprendere questo fenomeno occorre prendere a figura di riferimento il personaggio che più di tutti negli ultimi trent’anni ha alimentato questo meccanismo: Flavio Briatore.
Qualche giorno fa, davanti alla platea degli imprenditori della Federalberghi, Briatore si è lanciato in una serie di dichiarazioni azzardate: “Se vuoi i turisti ricchi devi dargli un’accoglienza adeguata. Ma in Italia se crei corsie preferenziali e qualcuno passa avanti, tutti si arrabbiano perché è un Paese che non ama i ricchi. L’Italia è un paese comunista che vorrebbe tutti sfigati”. Quello che Briatore non comprende, intrappolato nella sua bolla lontana dal mondo reale, è che le corsie preferenziali che si augura, così come il concetto di “qualcuno che passa avanti”, sono la formula della diseguaglianza sociale. D’altronde, non è possibile aspettarsi altro da chi si vanta di vivere a Montecarlo perché “qui i poveri non esistono, non li fanno manco entrare”.
Quella di Briatore è la versione goffa dell’american dream, l’esaltazione del self-made man alla Berlusconi – dunque non privo di ombre – che fondamentalmente stuzzica l’italiano medio, che ha come massima aspirazione avere una cascata di soldi, donne concepite come trofei, un tavolo al Billionaire e l’ostentazione della ricchezza e di status symbol da mostrare con il sorriso beffardo. Se il berlusconismo è al tramonto la sua scia non tende ancora a dissolversi e sembra trovare in Briatore un degno alfiere. Quando l’imprenditore dichiara che non riesce a concepire una vita con 1.300 euro al mese dimostra una scarsa aderenza con la realtà che lo circonda, perché una buona fetta della popolazione – soprattutto tra i giovani – quella cifra non la vede nemmeno dopo anni di carriera.
I talk show ospitano Briatore come se fosse un messia pronto a indicarci la via, l’esempio da seguire per raggiungere il successo. Tra gli svariati motivi per cui questa idolatria è quanto meno inopportuna, forse il principale si trova proprio nel percorso di Briatore. Negli anni Ottanta si avvicina al gioco d’azzardo, venendo raggiunto da due mandati di arresto per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e quattro anni e mezzo di condanna. Si rifugia per anni a Saint Thomas, nelle isole Vergini e lì conosce i Benetton e apre alcuni negozi del famoso marchio italiano. Quando arriva l’amnistia, nel 1990, torna in Italia ed entra nel mondo della Formula 1, sempre sotto l’ala protettrice dei Benetton. Porta il giovane Michael Schumacher nel suo team, vince il mondiale piloti, quello costruttori e la sua vita cambia per sempre, facendo dimenticare a tutti gli scandali degli anni Ottanta.
Nell’ultimo trentennio Briatore è stato perseguito per nuovi affari poco limpidi. Imputato per reati fiscali, nel febbraio dello scorso anno è stato condannato, all’esito del giudizio di appello, a un anno e sei mesi di reclusione. La Corte di cassazione ha poi annullato la sentenza, assolvendolo dall’accusa di false fatturazioni e rinviando gli atti, per un nuovo giudizio, ai giudici di appello, con riguardo all’accusa di omesso versamento di Iva. Nel frattempo sono emerse nuove grane e Briatore è stato indagato anche per corruzione: secondo la pubblica accusa avrebbe corrotto un funzionario dell’Agenzia dell’Entrate per ammorbidire la sua posizione nel processo. Nel mentre ha gestito i suoi affari attraverso holding nei paradisi fiscali di tutto il mondo: Lussemburgo, Isole Vergini, Singapore. Ciò che è giusto contestare, non è la ricchezza di Briatore, ma il modo in cui questa è stata creata. Nessuna invidia sociale nei suoi confronti, bensì la necessità di fare una distinzione tra il suo mondo – quello dell’arrivismo spregiudicato, dell’avversione per le condizioni dei ceti bassi e di una mentalità capitalistica e dannosa per la società – e quello reale. Non è pauperismo, ma un rifiuto dell’ostentazione sfrenata e del culto del denaro che Briatore rappresenta.
Il suo universo ha dei parametri ben definiti, a partire dalla sua frase manifesto: “Sono i soldi a rappresentare la libertà”. Pensiero che condivide con la conterranea e amica di lunga data Daniela Santanchè. Il suo concetto è riconducibile a una visione del mondo che pone tutto il resto in secondo piano rispetto al conto in banca e dove ogni cosa funge da strumento per migliorare il proprio status, comprese le donne. Briatore ha infatti dichiarato: “È giusto che la donna lavori, anche perché se non lo fa ha solo motivo di romperti i maroni dalla mattina alla sera”. Per ribadire il suo pensiero sessista ha aggiunto: “Io ho avuto rapporti con ragazze anche famose, che guadagnavano. Però ero sempre io che guidavo la macchina e loro erano nel sedile vicino. Perché se fai guidare la macchina a loro, allora ti abitui a fare il numero due. Ma non va bene: finché posso faccio io il numero uno”. Certe affermazioni sarebbero risultate retrograde già diversi decenni fa, ma purtroppo rispecchiano ancora il machismo ancora dilagante in una società che cerca di estirpare il patriarcato dal basso, ma lo alimenta dall’alto.
Se classismo e maschilismo hanno già svelato i tratti caratteristici del personaggio, mancano ancora alcuni tasselli per delineare il quadro generale. Tra questi, il più sgradevole è quello della discriminazione territoriale. Briatore ha ormai da tempo intrapreso una personale crociata contro il Meridione, e non perde occasione per rimarcarla. Oltre a ribadire vecchi stereotipi, come quando afferma che “Al Sud non hanno voglia di lavorare” o che “Al Sud stanno tutti sul divano”, è riuscito nell’impresa di svilire l’immenso patrimonio culturale del Meridione. Quando ha dichiarato che si va in vacanza al Sud “solo per il mare e per il cibo, non per la cultura”, ha palesato la sua essenza e l’origine del suo individualismo.
Sarebbe superfluo elencare a Mr. Billionaire tutte le meraviglie culturali presenti al Sud, di certo non lo tocca il valore artistico delle influenze greche, arabe, spagnole o normanne: Briatore è il classico italiano medio che preferisce una discoteca a un museo, una partita di calcio a una mostra d’arte. Non a caso, forte della sua formazione, è convinto che l’università sia inutile e che non vi manderà suo figlio. La sua idea non è tanto frutto delle sue due bocciature al liceo, ma è legata a un’allergia per la cultura che lui stesso ha confermato: “Non mi sono mai svegliato al mattino pensando ‘Che peccato, questa settimana non ho letto un libro’. Non vedo perché devo perdere tempo a cercare di capire uno scrittore che ha scritto senza la preoccupazione di spiegarsi. Poi devo anche andare al cinema e pensare a cosa il regista voleva raccontarmi? Voglio vedere i film di Rin Tin Tin e di Furia, che capisco”. Sta tutto qui il mondo di Briatore, nel rifuggire da quello che non capisce.
Quindi per lui “Il Sud fa schifo” semplicemente perché non riesce a capire la condizione di chi sopravvive con 700 euro al mese in nero, l’assenza di infrastrutture e il futuro negato ai giovani costretti a emigrare; per lui i libri sono inutili perché non ha la propensione alla lettura e all’apertura mentale; le donne sono un passo indietro rispetto all’uomo perché non riesce a concepire per loro un ruolo diverso da quello di gregarie del maschio alfa; le tasse sono sbagliate perché lui non trova corretto pagarne così tante. Questi elementi si intrecciano e generano Flavio Briatore nella sua interezza, con tutti i suoi limiti. È l’arricchito che non si accresce in cultura, l’italiano medio che ce l’ha fatta e disprezza chi è rimasto indietro, facendogli notare ogni difficoltà lungo il suo percorso.
Eppure molte persone vogliono essere come lui, cercano un riscatto per poi un giorno sputare su quello che erano e mostrare dove sono arrivati. Già, dove?
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta l’8 maggio 2019.