Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno, in Italia il più diagnosticato in assoluto fra le donne: per chiunque possieda una televisione, utilizzi internet o – più semplicemente – trascorra una parte della giornata fuori di casa, d’altronde, evitare di imbattersi in qualche simbolo legato alla ricorrenza è quasi impossibile, dal momento che migliaia di prodotti in commercio – dall’acqua in bottiglia agli elementi d’arredo, dai prodotti di bellezza agli utensili da cucina, passando per indumenti e piastre per capelli – si “tingono di rosa”. Non importa in che misura il ricavato delle vendite sarà effettivamente destinato a “sostenere la ricerca”, né se, o in che modo, le aziende si preoccupino del problema nei restanti undici mesi dell’anno. La possibilità di riprodurre il celebre nastro rosa sui propri prodotti presenta un potenziale di guadagno a ogni livello. Reputazionale: chiunque concorderebbe con l’idea che la prevenzione del tumore al seno rappresenti una “buona causa”; economico: un prodotto percepito come “più etico” tenderà a essere acquistato di più; e numerico: grazie alla capacità di convertire in nuove clienti le persone maggiormente sensibili al tema.
Da un punto di vista simbolico, l’utilizzo del fiocco rosa non rappresenta una rivoluzione. L’idea di associare il nastro a un messaggio socialmente rilevante risale infatti al 1979, quando Penney Laingen, moglie di Bruce Laingen, un ambasciatore statunitense rapito in Iran, ispirata dalla vecchia canzone tradizionale di guerra, ripresa da John Ford nel western I cavalieri del Nord Ovest, “She Wore a Yellow Ribbon” decise di legare un nastro giallo attorno a un albero del suo cortile, invece che tenerlo al collo, nella speranza che, un giorno, sarebbe stato il marito a scioglierne il nodo. A partire da quel momento, per la popolazione statunitense il nastro giallo ricominciò a simboleggiare l’attesa dei soldati in guerra, proprio come durante la seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni Novanta l’idea del fiocco, questa volta nella sua versione rossa, fu poi ripresa da un gruppo di artisti sieropositivi, con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione a proposito dell’emarginazione sociale che colpiva le persone affette da AIDS. Il simbolo, diffuso senza alcuno scopo di lucro, divenne in breve tempo l’icona del World Aids Day – un successo intercettato, oltre che da celebrità ed esponenti politici, anche da molte famose multinazionali, attratte dall’opportunità di unire la possibilità di guadagno al sostegno di una buona causa.
Probabilmente ispirata dal successo di questa iniziativa, nel 1991 la casalinga statunitense Charlotte Haley cucì con un nastro color pesca una serie di fiocchi da distribuire in un supermercato locale, allegandovi una cartolina in cui denunciava la scarsità di fondi destinati dal governo alla ricerca sul cancro al seno – malattia che aveva colpito la nonna, la sorella e la figlia – e invitava la popolazione a sostenere la richiesta di maggiori finanziamenti. Le adesioni raggiunsero una portata tale che, pochi mesi più tardi, il New York Times ribattezzò il 1991 “l’anno del nastro”. Il potenziale commerciale del simbolo non sfuggì all’azienda cosmetica Estée Lauder e alla rivista Self, le quali contattarono Haley chiedendole di poterne acquistare il brevetto. A fronte del rifiuto della donna, la soluzione delle due aziende fu quella di modificare il colore del fiocco, appropriandosi, di fatto, dell’invenzione di Haley ma aggirando i vincoli legali che avrebbero impedito loro di rifarsi all’idea originale. Quanto alla tonalità, si optò per un rosa 150, colore “femminile” per eccellenza e dall’effetto calmante sulla psiche. Riprendendo la direttrice della Color Association Margaret Welch, “Il rosa è un colore innocuo, rilassante, rimanda alla vita: tutto ciò che il cancro non è”.
Da quel momento, l’applicazione di un nastro rosa su qualsiasi prodotto vendibile cominciò a comunicare, senza bisogno di esplicitarlo, che la tutela della salute femminile rappresentava un caposaldo etico dei brand e che parte del ricavato delle vendite sarebbe stata devoluta alla ricerca sul cancro al seno. L’impatto delle campagne di sensibilizzazione sull’atteggiamento della popolazione, d’altro canto, fu notevole: secondo l’American Cancer Society, per esempio, nel corso degli anni Novanta la percentuale di donne che si sottoponevano a mammografie annuali (essenziali per l’ottenimento di una diagnosi precoce e ridurre il rischio di mortalità) è più che raddoppiata. Nel frattempo, tuttavia, il nastro rosa si trasformò in uno strumento di marketing: come spiega Krystal Redman, direttrice esecutiva della Breast cancer action, “L’immaginario del ‘rosa’ non è sottoposto ad alcuna regolamentazione, e il suo utilizzo non implica necessariamente che la vendita di questi prodotti sia effettivamente utile alla prevenzione della malattia”. Un atteggiamento che, nel 2002, portò la stessa BCA a coniare il termine pinkwashing, dall’inglese pink (rosa) e whitewashing (imbiancare, nascondere).
Il primo problema legato alla commercializzazione del simbolo riguarda la mancanza di trasparenza a proposito delle modalità in cui il ricavato delle vendite verrà effettivamente speso. Secondo il Breast cancer consortium (BCC) per esempio, ogni anno negli USA vengono raccolti circa 6 miliardi di dollari da destinare alla prevenzione del cancro al seno ma, di questi, solo un miliardo finisce per finanziare la ricerca, soprattutto a causa dell’ambiguità che caratterizza i messaggi delle aziende. Un caso emblematico riguarda l’iniziativa Buckets for the cure promossa, nel 2010, dalla catena di fast food KFC in collaborazione con la celebre associazione di volontariato Komen, per cui per ogni confezione rosa di pollo venduta nel mese di ottobre KFC avrebbe donato a Komen 50 centesimi di dollaro. Più tardi, si scoprì tuttavia che la donazione era già stata fatta a priori, per una cifra complessiva di un milione di dollari (contro gli 8,5 milioni che l’azienda si proponeva di raccogliere). L’acquisto delle confezioni rosa, quindi, non avrebbe fatto altro che accrescere gli incassi di KFC, senza influire minimamente sulla ricerca per il cancro.
A ciò si aggiunge l’ipocrisia delle aziende che, pur aderendo sistematicamente a campagne di (presunta) raccolta fondi, favoriscono attivamente l’insorgenza della stessa malattia che dichiarano di contrastare, inserendosi a pieno titolo nel settore della cosiddetta “industria del cancro”. Al di là del già citato caso KFC (non è certo un segreto che l’assunzione di cibi ricchi di grassi saturi, nonché delle sostanze chimiche rilasciate dalla frittura della carne, presentino un potenziale cancerogeno), il fenomeno investe in particolar modo l’industria cosmetica. Uno dei casi più famosi riguarda la campagna del 2001 Kiss Goodbye to Breast Cancer, promossa dal brand statunitense Avon per finanziare la ricerca sul cancro al seno attraverso la vendita di nuova gamma di rossetti. Peccato che la formula dei cosmetici vedesse la presenza di parabeni, additivi chimici fortemente dibattuti a causa della loro presunta natura cancerogena. Negli ultimi decenni, fenomeni simili hanno coinvolto profumi dalla composizione discutibile (ma venduti in una confezione rosa), inviti a testare la guida di alcune auto di lusso con la promessa di donare in beneficenza un dollaro per ogni miglio percorso (con il conseguente rilascio inutile di idrocarburi cancerogeni) e persino una collaborazione fra l’associazione Komen e l’azienda di punta dell’industria petrolifera Baker Hughes, per la produzione di alcune trivelle rosa, anche queste ideali per favorire la diffusione di sostanze cancerogene nell’ambiente.
La problematicità del fenomeno non riguarda, però, soltanto l’atteggiamento delle singole aziende. Sebbene un immaginario “rosa” sia certamente preferibile alla realtà delle chemioterapie, infatti, l’iper-semplificazione della malattia proposta da molte campagne tende ad appiattire la complessità della condizione: come nota la sociologa Gayle Sulik, co-fondatrice del BCC, ciò impedisce al pubblico di “comprendere davvero cosa significhi affrontare il cancro, vivere con l’incertezza medica e accettare le difficili realtà della recidiva, del trattamento e persino della morte”. Nel frattempo, focalizzarsi esclusivamente su ciò che le donne possono fare per prevenire la malattia – come mantenere uno stile di vita sano, sottoporsi a regolari mammografie e sostenere la ricerca – devia l’attenzione dalle responsabilità delle aziende a quella individuale, ignorando così l’influenza del settore industriale e dei governi sulla salute della collettività.
Come se ciò non bastasse, l’impianto classista di molti progetti di sensibilizzazione ignora il fatto che, per molte persone appartenenti alle fasce socio-economiche meno abbienti – e quindi residenti in ambienti meno salubri, costrette a nutrirsi di cibo di bassa qualità, con meno accesso a informazioni accurate e meno possibilità di assentarsi dal lavoro per sottoporsi a esami di screening –, il contesto di vita rappresenta di per sé un fattore di rischio, indipendentemente dalla propria volontà. All’origine del cancro al seno concorre una molteplicità di fattori, spesso incontrollabili: ciononostante, il ruolo svolto dalle disuguaglianze sociali sulla decorrenza della malattia evidenzia l’inutilità di rivolgersi esclusivamente alle fasce più privilegiate della popolazione, come se a un aumento della consapevolezza di queste persone corrispondesse automaticamente una diminuzione dei livelli di rischio di tutte le cittadine (e i cittadini).
Una certa idealizzazione della malattia emerge anche nelle rappresentazioni proposte dalle campagne di sensibilizzazione, dominate da donne belle e sorridenti, talvolta svestite – l’ennesima inutile sessualizzazione del corpo femminile, dal momento che persino la ricerca ha dimostrato che l’aumento dei centimetri di pelle scoperta non favorisce in alcun modo la sensibilizzazione del pubblico – e rigorosamente bianche, a fronte di un rischio di mortalità più alto fra le donne nere e una sostanziale esclusione delle minoranze sessuali dalla ricerca oncologica. Per non parlare del fatto che l’unico modello di donna proposto è quello della “sopravvissuta combattiva” e resiliente, quasi a voler implicitamente colpevolizzare tutte coloro che – non certo a causa loro – sono sul punto di perdere la loro “battaglia”. Riprendendo l’antropologa medica Ana Porroche Escudero, anche per questo motivo sarebbe necessario che i progetti di sensibilizzazione “promuovessero il pensiero critico e non solo quello positivo […], per dare alle persone il potere di prendere decisioni informate e comprendere i reali impatti della malattia”. “Le campagne si concentrano su un modello specifico di donna”, continua Escudero, “ma sarebbero più efficaci se fossero autentiche, realistiche e basate su prove scientifiche”.
Il ricorso a simboli, come il nastro rosa, è importante per sensibilizzare la comunità a proposito dell’importanza della prevenzione, ma diventa un problema nel momento in cui vendere (o acquistare) prodotti “rosa” si trasforma nell’ennesima strategia di marketing – nel caso delle aziende – o in un gesto utile solo a sentirsi a posto con la coscienza – nel caso della popolazione. Ogni persona, ponendosi le giuste domande, ha la possibilità di acquistare in modo critico, evitando così di rendersi complice di un business dannoso per la salute e offensivo per migliaia di pazienti. Le prossime settimane ci offriranno molte occasioni per farlo.