Non è facendo un “figlio cerotto” che si salva una relazione in crisi - THE VISION

Come è ormai risaputo, il tasso di natalità in Italia è in costante calo. I più recenti dati Istat fotografano la situazione a partire dall’inizio del millennio, evidenziando come ci sia stato un calo del 28% delle nascite, toccando anche vette del 40% al Sud. È una tendenza sostanzialmente in linea con l’Unione Europea, mentre nella maggior parte delle nazioni asiatiche e africane, come dimostra il report dell’ONU World Population Prospects, assistiamo a un’imponente crescita demografica. Le stime delle Nazioni Unite indicano infatti che più della metà della crescita della popolazione mondiale da oggi al 2050 sarà concentrata nelle zone dell’Africa subsahariana.

Il calo occidentale, compreso quello italiano, è stato più volte analizzato prendendo in considerazione diversi fattori. I principali riguardano la precarietà generazionale a livello economico e antropologico, così come il distaccamento dalla pressione sociale che ha sempre spinto una coppia a raggiungere la propria completezza facendo un figlio. Allo stesso tempo si è discusso su temi etici e morali, come il timore di “consegnare” alle nuove generazioni un mondo strutturato su sistemi malsani, o la volontà di essere felici senza procreare per forza. I ventenni, trentenni e quarantenni di oggi non subiscono più la pressione sociale delle generazioni passate, la frenesia di metter su famiglia per trovare un proprio posto nel mondo adeguandosi agli standard vigenti. Oggi, chi fa un figlio lo fa spesso dopo una scelta ben ponderata, per un desiderio che diventa realizzabile quando le condizioni della coppia lo consentono.

A volte però, prende sempre più piede un pensiero che poi finisce per trasformarsi in un’azione nociva: fare un figlio per salvare una relazione in crisi. Potremmo definirli “figli cerotto”, ovvero quelli nati in seguito alla decisione di una coppia di diventare genitori per ravvivare il rapporto o per dargli un nuovo senso. In questi casi c’è la convinzione che una fase di stallo coniugale possa essere superata attraverso questo cambiamento radicale. A volte giunge quasi come un aut-aut: lasciarsi o svoltare la propria esistenza facendo un figlio. Chi sceglie questa strada solitamente non è consapevole – chi lo avrebbe mai detto – delle reali conseguenze della propria decisione –un bambino in carne e ossa di cui prendersi cura per tutta la vita – e l’impulso egoistico di mettere una toppa sulle ferite di una relazione o di uno dei due individui che ne fanno parte non sortisce l’effetto sperato. Al contrario, le problematiche si amplificano e la disgregazione di coppia coinvolge anche una figura terza, il figlio, che non ha colpe.

Nel libro delle psicoterapeute Doris e Lise Langlois Psicogenealogia. Capire, accettare e trasformare l’eredità psicologica familiare, vengono spiegate bene queste dinamiche: “Il figlio che porta nel proprio contratto un conflitto non risolto farà le spese di una guerra che all’inizio non è la sua, ma che poco a poco finirà per appartenergli”. Il “figlio cerotto” è così condannato non soltanto a non sanare la ferita dei genitori, ma a restare intrappolato in quelle tensioni che la coppia ha accumulato nel tempo. A mancare è una sorta di deontologia genitoriale, soprattutto se si considera che la nascita di un figlio rappresenta un cambiamento radicale, spesso traumatico, anche per le coppie più solide, dunque per quelle già appese a un filo la questione si complica ulteriormente.

Le coppie in questione, infatti, inseriscono una figura terza all’interno della loro vita, solo che invece di essere uno psicoterapeuta è un essere a cui ci si affida senza il suo consenso, un essere che peraltro essendo un neonato non può certo risolvere come per magia le psicopatologie di chi lo ha messo al mondo. Il figlio diventa quindi una sorta di stampella e col passare del tempo incombe su di lui il ruolo di colui che dovrà sostenere i genitori e non viceversa. Sin dalla sua nascita il figlio per questi genitori assume l’aura del salvatore, con tutte le responsabilità che questo compito comporta. Si entra dunque in una dinamica simile a quella rappresentata dallo psichiatra Stephen B. Karpman nel suo “Triangolo drammatico”. Si tratta di un semplice modello di interazione disfunzionale ed è composto da tre figure: la vittima, il persecutore e il salvatore. Nel quadro delineato da Karpman, il salvatore ha il compito di rimettere insieme i cocci e mediare, consciamente o meno, tra la vittima e il persecutore, che spesso si invertono anche i ruoli, ma finisce per non aiutare nessuno, in quanto non si arriva mai a un’assunzione di responsabilità e questo fa sì che si mantengano le vulnerabilità all’interno del triangolo. Così, all’interno della cosiddetta “genitorialità riparatrice” il padre e la madre si deresponsabilizzano affidandosi alla nuova nascita come a un atto fatalistico, perdendo l’orientamento di fronte a quello che dovrebbe invece rappresentare la nascita di un figlio e il ruolo di genitori.

Dopo una nascita, l’equilibrio di una coppia viene inevitabilmente alterato. Inizialmente si ottiene l’effetto sperato: di solito tutte le attenzioni si concentrano sul neonato e l’affetto per la nuova creatura nasconde le problematiche di coppia, che però restano a fermentare in attesa di riesplodere. La tregua non è altro che una distrazione, ma le crepe sono destinate a riaffiorare. Dopo un anno dalla nascita del figlio, diversi studi hanno infatti indicato notevoli difficoltà all’interno di molte coppie. Uno di questi, citato da The Sun e realizzato da ChannelMum e da The Baby Show su una platea di 2mila neogenitori, rivela che un quinto di essi si è lasciato nell’anno successivo alla nascita del figlio. Un quarto di questi ha dichiarato che i problemi erano presenti prima della nascita e che invece di migliorare sono peggiorati. Il 60% inoltre ha ammesso che non era preparato a diventare genitore e non poteva aspettarsi un tale impatto sulla propria vita. I problemi rivelati dallo studio sono legati soprattutto ai litigi, alle difficoltà comunicative e al cambiamento nella sfera sessuale di coppia. Un ulteriore sondaggio, realizzato nel 2017 in Uk dalla testata Parents, si concentra proprio sui problemi sessuali post partum. Il 20% degli intervistati, dopo un anno dalla nascita del figlio, ha dichiarato di aver totalmente abbandonato l’attività sessuale e il 31% non è più innamorato del partner.

I problemi sollevati dalla genitorialità sono tutt’altro che semplici e riguardano anche quelle coppie che prima del parto erano stabili. Colpiscono per forza di cose in maniera ancora più forte le relazioni che serbavano al loro interno già delle criticità. In questo caso spesso si aggiunge poi il senso di colpa per aver fatto un figlio auspicando un risveglio della coppia, ritrovandosi invece con un peso maggiore, avendo annesso un’altra figura, per di più indifesa e incolpevole, ai loro tumulti. La relazione quindi viene sottoposta a ulteriori stress che gravano sullo sviluppo psicologico del bambino. Lo stesso filo che lega i genitori al figlio rischia di interrompersi proprio perché su quest’ultimo erano state riposte aspettative non andate a buon fine e il bambino percepisce direttamente queste dinamiche, soprattutto se poi la coppia si separa e lui cresce con il fardello del ruolo non mantenuto di collante, che gli è stato ingiustamente attribuito prima ancora di nascere. A volte il figlio viene persino usato come alibi per non vivere al meglio una relazione, diventa il parafulmine di un esercito di genitori che hanno scelto di procreare più per il bisogno, o la speranza, di colmare le proprie lacune che altro.

Nonostante il calo demografico, o forse proprio per questo, ci sono ancora enormi sfere di persuasione e di condizionamenti esterni che portano una coppia a sentirsi in dovere di diventare genitori. Può essere una pressione dell’ambiente in cui i soggetti vivono, il retaggio della realizzazione intesa unicamente come edificazione di un nucleo familiare o l’influenza del mondo ecclesiastico. Ancora oggi, infatti, la Chiesa vede la procreazione come un atto dovuto e alcuni pensieri stridono con la contemporaneità e ciò che le giovani coppie devono affrontare, economicamente e non solo. Papa Francesco qualche mese fa ha dichiarato: “Oggi la gente non vuole avere figli. Ma hanno due cani, due gatti. Sì, cani e gatti occupano il posto dei figli”. E anche in quel caso prima di adottare un animale sarebbe buona cosa informarsi sull’impegno e sulle conseguenze che questo comporta, spesso tutt’altro che chiare e ponderate da chi adotta un animale sull’onda del desiderio di cambiare la propria vita.

Se ogni coppia ha il diritto di vivere la propria relazione senza essere sottoposta allo stigma sociale per la scelta di avere una vita senza figli, rispetto all’altro versante deve anche capire le reali esigenze che portano alla decisione di diventare o meno genitori. Se è un tentativo di ricucire un tessuto sfilacciato allora rischia di avere conseguenze drammatiche su tutti, in primo luogo sul nuovo nato.

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