Il 26 giugno 2020, Vittorio Feltri ha rassegnato le dimissioni dall’Ordine dei giornalisti, in polemica con l’Ordine regionale della Lombardia, dove era iscritto, che a suo dire lo “massacrava” con i procedimenti disciplinari a suo carico mentre era direttore editoriale di Libero. Ma sono rimasti delusi quelli che pensavano che Feltri avesse finalmente deciso di dedicarsi alle gioie della pensione, ai tornei di bocce, alle partite di briscolone, all’osservazione dei cantieri: anche da dimissionario, Feltri continua a scrivere sul “suo” quotidiano e a presenziare in televisione come se niente fosse. D’altronde, nessuno glielo può impedire. L’ultima uscita con cui ha esercitato il suo sacrosanto diritto a “dire quel cazzo che gli pare e nessuno gli deve rompere i coglioni” commentando con un editoriale su Libero il caso della ragazza che ha subito abusi sessuali dall’imprenditore Alberto Genovese, è qualcosa che è davvero difficile definire pubblicabile. L’articolo, intitolato “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese” è a metà tra la reprimenda sull’uso della cocaina, voyeurismo e osservazioni del calibro: “Personalmente ho constatato che si fa fatica a scopare una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”, “la cosa non giustifica tanto accanimento alla passera”, “Alberto godeva della fama di mandrillo”.
È noto che da anni Libero – terza testata per contributi pubblici ricevuti in Italia, dopo il quotidiano bolzanese in lingua tedesca Dolomiten e la rivista Famiglia Cristiana – usi un linguaggio volutamente provocatorio e polemico nella speranza di attirare l’attenzione del suo pubblico di riferimento: forse chi, a 77 anni, chiama ancora la vagina “passera”? D’altronde, il quotidiano può anche vantare di aver diffuso a livello nazionale il regionalismo lecchese “patonza” per titolare le sue ormai leggendarie gallery di celebrità in bikini, quindi stiamo parlando di un tale livello sociolinguistico che surclassa l’Accademia della Crusca. L’editoriale su Genovese fa parte di questa scelta più estetica che editoriale, questa postura che ormai Feltri ha assunto da molto tempo: quella del vecchio che può dire e fare quello che vuole, può spararla grossa e sempre più grossa e pretendere pure di restare impunito.
Il fenomeno Vittorio Feltri esplode nel 1990 su L’Europeo con un’intervista esclusiva a un carabiniere infiltrato nel covo delle Brigate Rosse di via Montenevoso durante i giorni del rapimento Moro. L’intervista è totalmente inventata. Ma tanto basta a creare Feltri, il giornalista con “la schiena dritta” una specie di Indro Montanelli agli steroidi (con cui, tra l’altro, non correva buon sangue): non il giornalista autorevole, non il cane da guardia pronto a rintuzzare il potente, ma questa sorta di campione della libertà di espressione portata all’estremo, che rivendica la libertà di insultare, di dire “frocio” e “ricchione” perché sono parole che si trovano sul dizionario, perché gay è una parola inglese e lui parla invece “il linguaggio della gente”.
Ogni uscita di Feltri sembra una sfida a oltrepassare il limite stabilito in precedenza, a porsi sistematicamente dalla parte opposta della ragione, incurante delle conseguenze, per non dimostrare niente che non sia lo spasmodico bisogno di portare attenzione su di sé e il quotidiano che rappresenta. Muore Camilleri? “Finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni”. Tutti parlano della crisi climatica? A lui interessa la figa. Una donna di 75 anni viene violentata? “Bisogna avere anche il pelo sullo stomaco, non so se tu saresti in grado di compiere un atto così eroico”. Si fa davvero fatica a capire per chi sono scritte o pronunciate queste frasi: l’indignazione e il “purché se ne parli” funzionano, ma non sarà certo chi si leva in protesta ogni volta che Feltri apre la bocca ad acquistare più copie di Libero. Forse il trucco sta nell’esagerare la chiacchiera da bar, nell’estremizzare ciò che le persone sotto sotto pensano, elevando a opinione pubblica quella specie di retropensiero che sta nella reazione emotiva alla notizia del giorno, ancora prima della sua formulazione.
Questa però non è la funzione del giornalismo e dell’informazione. È irrispettosa non solo per chi viene preso di mira e per i suoi cari – leggendo quell’editoriale il pensiero non può che andare alla sopravvissuta e alla sua famiglia, cui Feltri raccomanda una “tirata d’orecchie” – ma anche per i suoi stessi lettori, costantemente presi in giro da un opinionista che non informa, non commenta e a ben vedere non fa nemmeno opinione. Scrive quello che gli passa per la testa in una sorta di flusso di coscienza dove l’unica regola sembra essere la sgradevolezza nevrotica e fine a se stessa. L’editoriale su Genovese ne è un esempio lampante. Non mettiamo in dubbio che qualcuno, leggendo di questo caso di violenza, avrà pensato che la ragazza sia stata un’ingenua, ma c’è una bella differenza tra il pensarlo fra sé e sé e scriverlo su un quotidiano nazionale condendo il tutto con le memorie delle proprie performance sessuali di gioventù.
Il giornalismo ha delle regole ben precise, che possano piacere o meno. Nessun diritto, nemmeno quello sancito all’articolo 21 della Costituzione secondo cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” è illimitato. Stare in una società significa scendere a compromessi con i diritti altrui, porre dei limiti necessari alla propria libertà individuale nel nome della collettività. Questo vale anche per la libertà di espressione, a maggior ragione se per campare scegli una professione che è fatta di grande responsabilità sociale, che ti assumi totalmente nel momento in cui la scegli. Se non sei disposto a farlo, nella vita ci sono tante altre professioni da svolgere.
La cosa veramente assurda è che in tutto ciò, Feltri si dipinge come un perseguitato – e chissà, magari lo pensa davvero. L’Ordine dei giornalisti lo incalza, lo imbavaglia, vuole fermare questo campione della libertà di espressione. Feltri se ne va dall’Ordine in grande stile, accompagnato da un commiato di Sallusti che lo fa sembrare il Nelson Mandela del giornalismo italiano: “Immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all’accanimento con cui da anni l’Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione”. In realtà, quello che Feltri sembra voler fare è evitare di assumersi la responsabilità dell’accumulo di procedimenti disciplinari a suo carico e continuare a scrivere ciò che scrive con un senso di impunità ancora più grande. Finalmente libero dal giogo della professione giornalistica, Feltri se la ride mentre legge di chi oggi invoca la sua radiazione dall’Ordine: ci ha pensato da solo. Per arginare la sua incontinenza verbale, forse sarebbe utile ridimensionare chi gli dà voce: quanta vita avrebbe Libero senza godere dei 2 milioni e mezzo che riceve l’anno? O se le persone cominciassero a chiedere agli inserzionisti pubblicitari di non investire su quella testata?
Anche se Feltri non è più giornalista, ciò non significa che sia immune dalla responsabilità penale e civile di quello che dice: quella, per fortuna, resta. Eppure, Feltri forse ora si sente ancora più in diritto di prima a dire quel che vuole; anzi, con le sue stesse parole, a dire “la verità”, perché è quella che conta, “non che aggettivo hai usato per dirla”. Una grande lezione di etica professionale, questa, a maggior ragione se detta da uno che nel suo giornale aveva come vicedirettore un collaboratore dei servizi segreti italiani, che pubblicava notizie false passate dal Sismi (per la cui presenza in redazione, Feltri è stato sospeso 2 mesi dall’Ordine dei giornalisti per “fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale”).
Feltri si sarà forse evitato altri procedimenti disciplinari, ma deve ancora rispondere delle querele di diffamazione a mezzo stampa del passato, come quella presentata da Virginia Raggi per il titolo ormai tristemente famoso della “patata bollente”. Eppure, imperterrito, continua a deliziarci con le sue imperdibili e necessarie opinioni. Se sente tanto il peso della persecuzione politica nei suoi confronti, il nostro consiglio è uno ed è molto semplice: smettere di scrivere. Anziché passare la terza età fra avvocati e tribunali, è ancora in tempo per dedicarsi all’attività consona per un uomo della sua età: godersi la pensione.