Alla voce “epurazione”, la Treccani recita: “L’azione di epurare, di liberare dalle scorie, dagli elementi indegni […] o comunque indesiderabili”. La notizia del passaggio – più un dirottamento forzato, suvvia – di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto a Discovery va in quella direzione in quanto atto politico, allontanamento di elementi, appunto, indesiderabili. Quando si parla di servizio pubblico, e quindi di lottizzazione della Rai, è risaputo che ogni nuovo governo, una volta eletto, tenti di piazzare i suoi uomini nelle posizioni di potere. A volte si giunge a compromessi con figure super partes. No, non è il caso del governo Meloni, che sta muovendo i fili per trasformare la Rai nella versione moderna dell’Istituto Luce.
Nel 2021, Matteo Salvini si auspicava al vertice della Rai una figura “interna e meritevole, senza tessere, parentele o amicizie importanti”. Deve aver dimenticato quella dichiarazione, perché il nome più accreditato come nuovo direttore generale della Rai è Giampaolo Rossi, in quota Fratelli d’Italia e tra gli organizzatori di Atreju. Ai più non dirà nulla, ma basta sbirciare sul suo blog, i suoi profili social e i suoi articoli per Il Giornale (classico quotidiano per niente schierato) per farsi un’infarinatura. Fan sfegatato di Putin, Trump e Orban, più volte contestatore di Mattarella, si distinse durante la pandemia per abominevoli parallelismi tra la vaccinazione e la descrizione di Hannah Arendt dei totalitarismi. Ha avuto un pensiero un po’ per tutti: per le femministe “vomitate da una caricatura”, per le “cianfrusaglie travestite da donne”, per i partigiani “orchi trasformati in eroi”, per quella “sostituzione etnica” che sembra il tema ricorrente dell’attuale governo. Amante dei complotti, della teoria del Nuovo Ordine Mondiale e con delle venature discriminatorie neanche troppo implicite – come quando disse che le categorie del nigeriano e del buonista sono la feccia di questo Paese, e che devono essere messe nella condizione di non nuocere – , Rossi è la crasi perfetta tra Salvini e Meloni, un po’ come quel Marcello Foa portato al vertice della Rai da Lega e M5S nel 2018, colui che condivideva fake news come quella delle cene sataniche di Hilary Clinton a base di sperma, sangue e latte materno. Ci apprestiamo dunque ad avere una Rai fatta a immagine e somiglianza del governo, e non è una buona notizia per il servizio pubblico.
Lo stesso Rossi, ai recenti Stati generali della cultura nazionale, ha detto: “La nuova Rai dovrà garantire la pluralità delle narrazioni, il racconto della nostra nazione nelle sue diverse forme di espressione, garantendo il principio fondamentale della libertà”. Frasi che stonano con l’addio di Fazio e soprattutto con il machiavellico Decreto Fuortes architettato dal governo Meloni. Carlo Fuortes, nominato ad della Rai ai tempi del governo Draghi, aveva ancora un anno di contratto, ma da mesi era nel mirino del centrodestra che intendeva pensionarlo in anticipo. Ce l’ha fatta con un decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri il 4 maggio, riguardante “disposizioni urgenti in materia di amministrazione di enti pubblici e società”. Il decreto mette il tetto dei settant’anni per gli amministratori di alcune strutture finanziate dallo Stato (come fondazioni, teatri o musei), in modo tale da rimuovere Stephane Lissner dalla direzione del teatro San Carlo di Napoli, offrire a Fuortes quel posto e mettere alla Rai una figura filogovernativa con un anno d’anticipo. Quattro giorni dopo l’approvazione del decreto sono arrivate le dimissioni di Fuortes. Adesso la Rai, terra di conquista dei partiti, è totalmente in mano al governo Meloni, e stiamo già assistendo ai primi effetti.
Mentre si parla di un ridimensionamento del ruolo di Corrado Augias e addirittura di Amadeus, che ha garantito alla Rai numeri incredibili con le sue edizioni del Festival di Sanremo, risuonano le sirene di quell’editto bulgaro risalente al 2002. Silvio Berlusconi, allora premier, parlò durante una visita a Sofia di un “uso criminoso della Tv pubblica” da parte di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, invitando la nuova dirigenza Rai a cambiare passo. Da quel giorno i tre soggetti indicati da Berlusconi furono estromessi dai palinsesti. La vicenda Fazio ha dei contorni diversi, ma possono esserci delle similitudini. Matteo Salvini da anni parla del conduttore durante i comizi, allacciandosi soprattutto alla narrazione dello stipendio troppo alto. “Fazio guadagna più di me” è stata per parecchio tempo la sua battaglia al sapore di pauperismo per dileggiare un avversario. Ieri, dopo l’ufficialità dell’addio alla Rai di Fazio e Littizzetto, Salvini ha commentato sui social scrivendo “Belli ciao” con l’emoticon del saluto. Le opposizioni sono giustamente insorte. Intanto Salvini è un ministro della Repubblica e, come recita l’articolo 54 della Costituzione, “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Ovvero evitando pagliacciate del genere, di fatto il festeggiamento di un’epurazione con un riferimento inappropriato a “Bella ciao”. Come a dire: “Le idee opposte alle nostre saranno cancellate”. Eppure Fazio ha più volte invitato Salvini a Che tempo che fa, ed è stato il ministro a rifiutare, a differenza di Silvio Berlusconi o, più recentemente, di ministri dell’attuale governo come Carlo Nordio.
Le reazioni di queste ore hanno ancora una volta dimostrato come le vicende del nostro Paese vengano affrontate con modalità di tifo da stadio. In realtà, soprattutto quando si parla di un’azienda, i parametri per valutare l’operato di un suo dipendente dovrebbero essere due: i numeri e la qualità. Per i numeri parla la storia di Che tempo che fa, con venti anni di share inusuali per Rai Tre, solitamente la rete di nicchia dell’azienda. Quindi anche i discorsi sullo stipendio di Fazio sono fuorvianti: guadagna tanto perché fa guadagnare tanto la sua azienda attraverso la pubblicità e gli sponsor. Inoltre non stiamo parlando di un personaggio “messo lì” dal centrosinistra: Fazio è in Rai dal 1983 e Che tempo che fa è stato inaugurato nel 2003, in piena era Berlusconi. Per il discorso qualità, è innegabile poi come la trasmissione di Fazio abbia portato contenuti altrimenti inaccessibili altrove. Interviste a premi Nobel, capi di Stato, persino il papa, per non parlare di artisti nazionali e internazionali che sono stati ospiti in quanto consapevoli di trovarsi in un salotto credibile. Se Moretti o Sorrentino, Sting o Bono, Obama o Gorbaciov sono passati da Fazio e non altrove è proprio perché il programma ha sempre avuto una sorta di timbro di qualità.
Questo non vuol dire che per forza tutti debbano apprezzare Fazio. Tra i nomi citati, Bono lo chiamò “Mr. Valium” e Moretti lo prese in giro dicendogli di definire “il migliore” tutti i suoi ospiti. E c’è un fondo di verità. Agli innumerevoli pregi di Fazio – un programma sulla Shoah con Liliana Segre è roba da annali della televisione pubblica – vanno aggiunte le preferenze personali. Io stesso, per esempio, non sono mai riuscito ad apprezzare fino in fondo le sue interviste e il suo modo di porsi. Per alcuni è una forma di servilismo, un modo di fare da tappetino all’ospite, ma credo sia più un garbo esagerato che rientra nel carattere del soggetto in questione, preoccupato di non mettere in difficoltà l’ospite con domande troppo scomode – e questo, nonostante le critiche di una certa parte politica, è sempre avvenuto con politici di tutti gli schieramenti.
Apprezzo meno quelle che potremmo definire “interviste di rimando”. Fazio, infatti, spesso pone domande basate su dichiarazioni che l’ospite ha già rilasciato, del tipo: “Hai dichiarato che… ce lo vuoi spiegare?”. Non sempre repetita iuvant, soprattutto per gli spettatori che vorrebbero domande e risposte inedite e un po’ di verve in più. Inoltre, non credo nemmeno che Fazio debba essere martirizzato: ha avuto tanto e avrà tanto anche altrove. Semplicemente non possono essere le ingerenze politiche a determinare l’andamento della televisione pubblica, anche a livello puramente commerciale. Sostituire un programma di successo come quello di Fazio mettendo magari uomini vicini alle idee di governo – Nicola Porro? Pino Insegno convertito in fine analista politico? Iva Zanicchi dall’alto della sua prestigiosa esperienza da europarlamentare? – difficilmente porterà gli stessi effetti in termini di risultati, quindi share e qualità. Solo che adesso anche giornalisti e personaggi dello spettacolo stanno passando all’incasso, e la spartizione delle poltrone è un gioco che la Rai conosce ormai bene, seppur adesso somigli sempre di più a un metodo da tirannide, con gli epigoni del MinCulPop a scegliere cosa mostrare al pubblico e cosa eliminare.
La vicenda Fazio non deve essere quindi percepita come una difesa a oltranza del personaggio – che può piacere o meno – ma una battaglia per il pluralismo nel servizio pubblico e per la salvaguardia di chi non è subordinato ai diktat governativi. Il tutto considerando che altre tre reti generaliste, quelle Mediaset, appartengono già a una delle tre teste del governo, per un’anomalia tutta italiana che ci portiamo dietro da decenni – e che colpevolmente la sinistra non ha mai aggiustato. Inoltre, fa impressione che i tentacoli della destra raggiungano anche Rai Tre, storica oasi di sinistra, anche durante i governi destrorsi. Una caratteristica della Rai, infatti, è sempre stata quella di garantire uno spazio alla “minoranza politica” e dei contenuti di gradimento per le diverse fasce della popolazione. Una sorta di tripartizione partitica dei canali Rai. Stavolta invece è stato eliminato proprio il principale programma di Rai Tre, tradizionalmente canale più a sinistra. La prospettiva per il futuro riguarda anche una questione di riferimenti culturali. Salvini è un noto appassionato del Grande Fratello e dei suoi derivati, tanto da dichiarare qualche anno fa: “E anche quest’anno è andata! Il Grande Fratello è come la Serie A: come si può stare senza per tutti questi mesi?”. Per anni, sui social, ha rincarato la dose postando foto in cui passava le serate davanti a reality show di dubbio gusto, mentre magari su Rai Tre Fazio stava dialogando con un antropologo o con uno scienziato di fama mondiale. È la berlusconizzazione del Paese, un collasso culturale che ha avuto ripercussioni in questi decenni nel substrato sociale, solo che adesso si è aggiunta la quota nera del melonismo. Quindi non ci resta che aspettare con impazienza uno speciale in prima serata con un conduttore di telequiz che ci spiega la crudeltà dei partigiani e una star dei cinepanettoni intenta a raccontarci la bonifica dell’Agro Pontino. Viva la Rai.