Nel 2015, l’industria della moda ha prodotto 100 miliardi di capi per 7 miliardi di persone, causando un soprannumero di articoli del valore di 4,3 miliardi di dollari. Molto spesso l’invenduto viene bruciato, provocando emissioni di anidride carbonica per 1,35 tonnellate per megawattora, più della combustione del carbone e del gas naturale.
In media, nel suo breve ciclo di vita, un indumento della fast fashion produce emissioni inquinanti in ogni fase della lavorazione: quella di produzione delle fibre causa il 18% delle emissioni di gas totali prodotte dall’industria manifatturiera, quella dei filati il 16% e quella di utilizzo da parte del consumatore (lavaggio, asciugatura e smaltimento) il 39%. Le fibre sintetiche, come il nylon, l’elastan e il poliestere hanno gli effetti peggiori sull’ambiente: in quanto materiali plastici, derivano dal petrolio e per la loro produzione il settore dell’abbigliamento utilizza 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili. Non va meglio con quelle artificiali: la viscosa, molto comune perché dà un effetto simile alla seta ma a prezzi decisamente più bassi, viene ricavata dalla cellulosa, e il suo processo produttivo è altamente inquinante.
Anche le fibre naturali, che potrebbero sembrare preferibili, hanno conseguenze da non sottovalutare. La produzione della lana causa elevate emissioni di metano, mentre rispetto alle fibre sintetiche diminuiscono nettamente le emissioni di anidride prodotte in fase di utilizzo, presumibilmente perché un indumento di lana è utilizzato più volte rispetto a equivalenti in altri materiali e spesso è lavato a mano. La fibra naturale più utilizzata, il cotone, richiede circa 11.000 litri d’acqua per produrre un chilo di materiale, 2700 litri in media per una normale t-shirt. Non è nemmeno esente da rischi per la salute, sia per chi lo lavora sia per il terreno, in quanto viene trattato con fertilizzanti e pesticidi invasivi o altre sostanze poco sicure. Il cotone biologico a prima vista sembrerebbe un’alternativa sostenibile, ma rappresenta solo l’1% della produzione mondiale. Inoltre, secondo alcuni studi, necessita complessivamente di più risorse poiché non è modificato geneticamente per massimizzare la produzione: non bisogna cadere nella trappola di ritenere automaticamente ecologico e sicuro ciò che si spaccia per “biologico”. Molto meglio orientarsi verso alternative più sostenibili, come il bambù e il lino, che crescono in fretta e impiegano meno risorse naturali.
In Italia le regole sull’uso dei prodotti chimici potenzialmente dannosi sono tra le più severe e tramite il Reach, un regolamento relativo a registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche prodotte o importate all’interno dello spazio economico europeo, l’Unione Europea mira a maggiore trasparenza e sicurezza. Ma poiché le ispezioni doganali non sempre riescono a intercettare tutti i capi o i tessuti importati, in questo caso il pericolo arriva dai Paesi asiatici in cui si produce in outsourcing e, a causa di restrizioni e controlli più blandi, si hanno casi di grave inquinamento da parte degli stabilimenti tessili, come succede al fiume Buriganga in Bangladesh e al Fiume delle Perle in Cina. Proprio la Cina è il primo produttore, con una quota del 66% delle fibre artificiali globali, ed esporta in Europa prodotti poco costosi e già trattati. Le aziende cinesi, per ottenere il colore adatto alle richieste dei consumatori pur spendendo il minimo, utilizzano anche sostanze molto inquinanti. Il Reach rischia in questo senso di avere l’effetto collaterale di accrescere la concorrenza sleale da parte delle aziende extra-europee che, con tessuti meno costosi, riescono a superare la barriera dei controlli. Seppure sia importante verificare la provenienza dei capi prima di acquistarli, anche per essere consapevoli delle condizioni di lavoro della manodopera che li ha prodotti, l’etichetta non riporta, comunque, le sostanze impiegate per trattare e tingere il tessuto.
Durante la produzione delle fibre e la loro lavorazione per ottenere il tessuto, una percentuale variabile della materia prima (tra l’1,9% del poliestere e il 10% circa del cotone) diviene prodotto di scarto, ma anche una volta conclusa la produzione delle fibre l’impatto ambientale del tessuto che diventerà la nostra maglia non è terminato: finissaggio, sbiancatura e tintura sono fasi molto inquinanti. Tanto più, ad esempio, per un paio di jeans, che inquinerà ancor più della t-shirt nelle fasi di manifattura e di tintura del denim. In queste fasi si impiegano alcune sostanze inquinanti, come metalli pesanti, ammine aromatiche, clorobenzeni e ftalati, i cui residui finiscono nell’ambiente e da lì nell’organismo umano, dove possono accumularsi provocando danni agli organi (tiroide, fegato e reni prima di tutto) e causando problemi ormonali nei pesci, danneggiando così la vita riproduttiva acquatica. In particolare, una maglietta in cotone è inquinante specialmente nelle fasi di produzione della materia prima e di utilizzo dell’indumento, con grande risparmio di emissioni nel caso si impieghino fonti di energia rinnovabile per la produzione e lavorazione della materia prima.
Una volta acquistati dai consumatori a ritmi sempre crescenti (dal 2000 in poi la vendita mondiale di abbigliamento è aumentata costantemente, di pari passo con la diminuzione del suo utilizzo) gli indumenti rilasciano microplastiche a ogni lavaggio. Degli appositi filtri per lavatrici possono essere un’opzione per diminuire la quantità di microplastiche che finiscono nello scarico, ma, dato il numero di lavatrici esistenti al mondo e la loro durata media, difficilmente saranno applicabili in tempi brevi su vasta scala. Un’altra possibilità è l’acquisto, lasciato alla coscienza dei singoli, di oggetti come Guppy Friend, un sacco in cui inserire la biancheria prima di metterla in lavatrice in grado di trattenere una buona dose di microplastiche. L’azienda Patagonia, che lo commercializza, sovvenzionando uno studio dell’Università della California di Santa Barbara sulla quantità di microplastiche rilasciate nell’ambiente dai propri indumenti, ha scoperto che per ciascun lavaggio di una giacca sintetica vengono rilasciati nella lavatrice in media 1,174 milligrammi di microfibre, il 40% delle quali, attraverso l’impianto di smaltimento delle acque reflue, arriva a fiumi, mari e oceani. E da lì persino nel sale da cucina, oltre che in tutti i gradini della piramide alimentare acquatica. L’effetto a lungo termine del consumo umano non è facilmente indagabile, mentre è noto il suo impatto biologico, ad esempio sui granchi, che, come mostra uno studio condotto dall’Università di Exeter e dall’Università di Concepción, se sottoposti a una dieta contenente microplastiche, mangiano meno e hanno meno energia disponibile per la crescita.
Data la scarsa qualità di questi vestiti – inevitabile se si vogliono mantenere così bassi i prezzi – e alla quantità di fibre perse ad ogni lavaggio, gli indumenti si rovinano in fretta e la loro vita nei nostri armadi è breve. Si pone così il problema dello smaltimento anche per le aziende della fast fashion che, producendo su vasta scala si trovano a fare i conti con una buona dose di invenduto, di cui ogni singolo pezzo porta con sé lo spreco di materie prime e lo sfruttamento della manodopera impiegata per produrlo, oltre alle emissioni dovute al trasporto e quelle provocate dal suo smaltimento, che sarebbero maggiori di quelle causate dalla combustione di carbone o gas naturale.
Le aziende spesso offrono sconti in cambio di abiti dismessi, alimentando il circolo vizioso per il quale, di fronte a qualcosa offerto a poco prezzo, siamo portati a comprarlo anche se non ne abbiamo bisogno. Questa soluzione all’invenduto non è poi migliore della sua combustione, poiché ci abitua a pensare che gli indumenti abbiano scarso valore e che siano dei beni usa e getta. Un problema non da poco: i materiali tessili rappresentano il 20% dei rifiuti globali e meno dell’1% del materiale impiegato nel settore dell’abbigliamento viene riutilizzato per produrre altri capi. Negli Stati Uniti il tasso di riciclo dell’abbigliamento usato è tra i più bassi di tutti i settori, e in Italia, come emerso qualche anno fa, dietro la raccolta di vestiti usati talvolta si cela persino la criminalità organizzata. Lo smaltimento di quel che finisce in discarica, infine, è inquinante tanto nel caso delle fibre naturali che sono trattate con agenti chimici e disfacendosi producono anidride carbonica, quanto di quelle sintetiche, che derivano dal petrolio.
Se è vero che utilizziamo solo una piccola percentuale degli indumenti presenti nei nostri armadi, come consumatori siamo dipendenti da questo meccanismo per ragioni psicologiche e neurologiche per le quali il nostro cervello reagisce all’acquisto dandoci un senso di gratificazione, che può diventare il mezzo divertente con cui l’acquisizione di oggetti materiali sostituisce quella del proprio posto nel mondo. Il ciclo è anche alimentato dal fatto che nel corso di un anno un’azienda di moda fast produce anche 30 collezioni, quando non di più, con soli 15 giorni a disposizione: in questo modo i nostri acquisti sono continuamente superati e noi costantemente fuori moda.
Dobbiamo ripensare le basi del sistema su cui si regge la nostra abitudine a riempirci l’armadio sentendoci degli strateghi dell’acquisto. Compare vestiti di qualità migliore, ma comprarne meno; utilizzarli di più, perché raddoppiando la durata della vita di un indumento portandola a due anni si può risparmiare il 24% delle emissioni; infine, lavarli quando ne hanno davvero bisogno, poiché ogni giro di lavatrice produce tra 0,6 e 3,3 chili di anidride carbonica, a seconda della temperatura e dell’uso o meno dell’asciugatrice. Questi sono i doveri dei singoli cittadini per quel che riguarda i loro armadi: così facendo, hanno il potere di far pressione sulle aziende per indurle a cambiare rotta. A loro volta i colossi della fast fashion, da H&M a Zara a Primark, devono assumersi la responsabilità del potere che hanno di influenzare gli acquisti, investendo con decisione per uno shopping più etico e sostenibile per l’ambiente e comunicando con trasparenza, ad esempio tramite etichette che riportino le modalità di realizzazione di quel capo e le risorse impiegate per produrlo.