In Italia si possono onorare i fascisti pregiudicati, ma non le vittime della polizia
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Il primo settembre scorso è stata una data speciale per Roma. Non è mai successo che il derby cittadino si giocasse così presto, già alla seconda giornata di campionato. Al momento dell’ingresso in campo dei giocatori, era prevista la solita sfida di coreografie da parte delle curve rivali di Roma e Lazio. La curva Sud, casa giallorossa, è però rimasta a guardare a causa di dissidi interni ai gruppi ultras. La curva Nord di fede laziale si è invece colorata di biancoceleste, mentre un volto campeggiava su un enorme striscione che ha occupato quasi tutto il settore di tifosi. Il profilo era quello di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, capo del gruppo ultras degli Irriducibili, morto lo scorso 7 agosto.

Fino a qui non ci sarebbe nulla di strano: una figura di riferimento del tifo laziale deceduta alcune settimane fa, la sua curva che gli dedica la coreografia del derby, i rivali della Roma che onorano il personaggio con uno striscione che recita “riposa in pace Fabrizio”. La cerimonia ha ottenuto il semaforo verde da parte del prefetto di Roma e della Digos, incaricati di vigilare su coreografie, striscioni e stendardi esposti negli stadi. Eppure, guardando con più attenzione alla commemorazione e facendo maggiore caso ai dettagli, ci si rende conto di come la passerella di domenica scorsa sia stata tutto fuorché normale. Cori antisemiti, magliette nere e saluti romani hanno accompagnato la coreografia, per ricordarci chi era davvero Diabolik, ucciso con un colpo di pistola dietro l’orecchio in un regolamento di conti di stampo mafioso.

Fabrizio Piscitelli

Fabrizio Piscitelli si è fatto strada nella curva della Lazio tra gli anni Ottanta e Novanta, diventando uno dei capi del gruppo estremista di destra degli Irriducibili. La sua era una lunga fedina penale, con frequenti rapporti di affari con esponenti della criminalità organizzata per il traffico di stupefacenti, elemento che ha portato al suo arresto nel 2013, dopo un mese di ricerche e condannato due anni dopo a 4 anni e 8 mesi per traffico di sostanze stupefacenti. Piscitelli tesseva relazioni, tra gli altri, con il clan Abate di San Giorgio a Cremano, nell’ambito dell’importazione e del commercio di hashish e eroina. Nel 2016 gli sono stati sequestrati beni per un valore di due milioni di euro (anche se la Cassazione gli restituì la villa a Grottaferrata), e già in passato aveva subito sequestri per problemi con il fisco legati ad alcune sue attività presso società dell’hinterland romano. Nel 2015 è anche stato condannato in primo grado per il tentativo di scalata alla Lazio, in quanto autore di una campagna intimidatoria e di pressione sul Presidente Claudio Lotito affinchè vendesse il club. Il nome di Piscitelli compare anche nei verbali di Mafia Capitale per i suoi legami con il “Nero” Massimo Carminati.

Piscitelli “usava il tifo come arma di potere per affari criminali”, per dirla con le parole del giornalista Paolo Berizzi. Ma non finisce qui. Il capo ultras laziale era anche un fascista convinto, impegnato in discorsi di sovversione dell’ordine dello Stato. Un nostalgico del terrorismo nero: “Se vogliono tornare al terrorismo degli anni Settanta, a quel clima, noi siamo pronti. Anzi, io non vedo l’ora e di certo non ci tiriamo indietro”, ha detto il giorno dopo l’esplosione di una bomba carta davanti a una sede della tifoseria organizzata laziale, nella notte tra il 5 e il 6 maggio scorso. “Siamo fascisti, gli ultimi rimasti”, ha poi aggiunto. In passato Negli ultimi anni Piscitelli e il suo gruppo degli Irriducibili sono stati anche tra i protagonisti di diverse iniziative di inneggiamento al fascismo, o riconducibili alla sua ideologia. Gli striscioni per Mussolini, le lodi allo stadio per il criminale di guerra serbo Željko Ražnatović (noto con il nome di battaglia di Arkan), le foto di Anna Frank con la maglia giallorossa, i volantini a firma “Diabolik Pluto”in cui si vietava alle donne di sedere nelle prime dieci file della curva, sono solo alcuni degli esempi più recenti.

Il 2 settembre è stato diffuso un video dove Fabio Gaudenzi, braccio destro di Carminati già condannato a 2 anni e 8 mesi per Mafia Capitale, dichiara l’imminente cattura da parte della polizia e la sua intenzione di dichiararsi prigioniero politico. “Dal 1992 appartengo a un gruppo elitario di estrema destra denominato ‘I fascisti di Roma nord’ con a capo Massimo Carminati e di cui fanno parte, tra gli altri, Fabrizio Piscitelli”, spiega Gaudenzi nel video, per poi aggiungere: “Non siamo mafiosi ma fascisti, lo siamo sempre stati e lo saremo sempre”.

Ecco chi era Fabrizio Piscitelli. Un fascista sovversivo che si sentiva a suo agio a contatto con il mondo del crimine. Un personaggio su cui era meglio non soffermarsi troppo a lungo e sul quale invece sono rimasti puntati per giorni i riflettori della città, dai funerali pubblici, alle commemorazioni cittadine, fino al grande show in mondovisione allo stadio Olimpico, autorizzato da Digos e Prefettura. “Ringrazio le istituzioni, in particolare il prefetto e la Digos che hanno permesso a tutti i tifosi di realizzare dentro lo stadio un grandioso spettacolo di civiltà in onore di Fabrizio. Voglio porgere i miei complimenti a coloro che si sono impegnati e dedicati a far sentire così presente mio fratello con una coreografia davvero emozionante e spettacolare”, ha dichiarato la sorella di Diabolik, presente allo stadio insieme alla moglie dell’ultras. Un ringraziamento alle autorità che hanno permesso che Roma si fermasse per commemorare Piscitelli, vittima di quella criminalità organizzata e di ispirazione fascista con cui era in contatto da decenni. Il solo fatto che Digos e Prefettura abbiano permesso una simile commemorazione deve essere fonte di preoccupazione, se non indignazione; ma tutto diventa ancora più assurdo se si considera che le stesse autorità si sono comportate in modo decisamente diverso quando a essere commemorato avrebbe dovuto essere un altro ragazzo ucciso. Non in un regolamento di conti, ma per mano dello Stato.

Federico Aldrovandi è uno dei simboli della violenza istituzionale italiana. Nel 2005 è stato ucciso in strada a Ferrara, per mano di quattro poliziotti poi condannati per eccesso colposo in omicidio colposo a tre anni e sei mesi, poi diventati sei mesi con l’indulto. Aldrovandi era un tifoso della Spal e in questi anni il suo volto è comparso su bandiere e magliette dei tifosi emiliani. Questa scelta ha portato problemi a chi lo ha fatto. La stessa Digos che ha dato l’ok ai cerimoniali di domenica scorsa per Piscitelli, a fine 2018 ha vietato ad alcuni tifosi della Spal di entrare nel settore ospiti dell’Olimpico con magliette e bandiere raffiguranti il volto di Federico Aldrovandi, perchè considerato “provocatorio nei confronti delle forze dell’ordine”. Commemorare una vittima della violenza degli agenti sarebbe insomma una provocazione verso la polizia. Le tifoserie di Parma, Viareggio, Torino, Atalanta, Sampdoria, Robur Siena e Prato sono state multate e hanno subito diffide per aver violato il divieto dei prefetti. “Per qualcuno una provocazione, per noi un ragazzo”, ha recitato uno striscione fatto entrare di nascosto nel settore ospiti di un match tra Sampdoria e Spal. Lo sguardo di un diciottenne su una piccola bandiera di una curva viene considerata minacciosa, perché riporta alla mente ricordi che si spera cadano nell’oblio. Commemorare allo stadio un ragazzo appena maggiorenne ucciso per mano dello Stato è così un’istigazione alla memoria per Digos e Prefettura, che invece non hanno nulla da dire se in mondovisione si saluta con macro-coreografie e gigantografie una persona vicina alla storia criminale e fascista romana come Fabrizio Piscitelli.

Tutto questo, in fondo, non ci stupisce. Le svastiche nella curva del Verona, gli ululati razzisti più o meno in ogni stadio, le infiltrazioni mafiose nella curva della Juventus dimostrano che esiste un problema di tifoserie organizzate in Italia su cui si preferisce far finta di niente, tanto a livello istituzionale che societario. Sul teatrino di domenica scorsa allo Stadio Olimpico non si è sentita una sola parola da parte della società Lazio, così come regna sempre il silenzio da parte della dirigenza del Verona sulla vergogna neo-nazista che ogni domenica contraddistingue la sua curva. Si tende a sminuire, a ignorare, mentre la repressione viene canalizzata su altri aspetti, del tutto innocui o comunque meno meritevoli di attenzione.

Autorizzare una cerimonia pubblica come quella dedicata durante l’ultimo derby a una figura pericolosa come Diabolik rischia di diventare un’implicita autorizzazione a quello stesso metodo violento e fascista che contraddistingue molte, troppe curve ultras italiane. Anche l’ultimo dei peccatori merita il suo estremo saluto, purché resti privato. Questo non può trasformarsi in uno show pubblico sponsorizzato da quelle autorità che proprio su episodi di questo tipo sono chiamate a vigilare. Le stesse che dedicano tempo e risorse a fare repressione su casi come quello di Federico Aldrovandi, su cui è invece fondamentale che non vengano mai spenti i riflettori. Di morti di Stato come la sua se ne contano a decine in Italia e, per questo, è necessario continuare a parlarne, in qualunque sede. Nelle scuole, nelle piazze e negli stadi.

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