Dagli attacchi alla Boldrini al Vaffaday, passando per la ormai sistematica violazione da parte di quasi tutte le testate della Carta di Roma, che chiarisce senza possibilità di fraintendimento il modo in cui un professionista dell’informazione deve occuparsi di migranti e richiedenti asilo, il nemico numero uno sembra essere diventato il politicamente corretto. Questa esigenza di esprimersi senza filtri fa da contraltare, o più probabilmente nutre, la violenza sul web, sulla cui pervasività non si dovrebbero avere più dubbi e che fa sempre più spesso uso del lessico fascista. Basta pensare alle espressioni usate sulle pagine social del vicepremier Matteo Salvini: “Me ne frego”, “Chi si ferma è perduto” o “Tanti nemici, tanto onore.” Ricorrenze apparentemente casuali, ma che un esperto di comunicazione politica – di cui un vicepremier non può non servirsi – sarebbe impensabile non tenesse conto. Questo ricorso solleva due riflessioni: una, sul modo in cui si comunica sulla rete e il monitoraggio che i social applicano ai contenuti, ma soprattutto un’altra, sulla sempre più sdoganata memoria positiva del fascismo, che mette in discussione la storia come finora è stata raccontata, al punto che Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, può chiedere di cancellare la festa della Liberazione, asserendo che “il 25 aprile è divisivo”, e presupporre quasi senza tema di smentita di generare un dibattuto serio, se non persino una proposta da considerarsi formalmente.
Nonostante la legge Scelba fin dalle pagine della Costituzione, di cui attua la XII disposizione transitoria, sanzioni come autore di reato “Una associazione, un movimento o comunque un gruppo non inferiore a cinque [che] persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, […] ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”, si moltiplicano ormai movimenti ed esternazioni che fanno esplicito riferimento al Ventennio senza incorrere in sanzioni: non si ha notizia di comminazione dei prescritti anni di reclusione ai sempre più numerosi esponenti di CasaPound, né ai giovani camerati che a Sassari, sul sagrato della chiesa di San Giuseppe, hanno salutato il professore e giurista Giampiero Todini a braccio teso, forti, come riporta l’Unione Sarda, di un pronunciamento della Corte di Cassazione secondo la quale il saluto romano, se a scopo commemorativo, non è da considerarsi reato.
Un recentissimo aggiornamento della Carta – risale infatti al febbraio di quest’anno – si aggiunge ai segnali di un clima talmente diffuso da indurre un ministro della Repubblica, Lorenzo Fontana, ad auspicare l’abrogazione della legge Mancino, che sanziona azioni e slogan legati all’antifascismo, tutelandoli al contrario come manifestazioni di libero pensiero. La stessa motivazione, per altro, addotta proprio dai costituzionalisti, oltre che da quegli odiatori in rete contro i quali si chiede una legge sul discorso d’odio oggi inesistente.
Del resto, anche stando a Facebook, sembra che il rifarsi ormai palese al ventennio sia almeno parzialmente accettato. Interpellato da La Repubblica sul perché i contenuti smaccatamente fascisti non vengano censurati, il responsabile di Facebook Italia si è limitato a dichiarare che “Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone”.
Movimenti antifascisti che dei social fanno uno dei loro luoghi cardine, come l’”Osservatorio democratico sulle nuove destre” o “I sentinelli di Milano”, denunciano una policy del social di Zuckerberg molto più permissiva con le pagine neofasciste che con chi – secondo legge – vi si oppone. Eppure, non è possibile attribuire tutto questo al semplice malfunzionamento di un algoritmo. Se infatti, da un lato esso rimuove automaticamente post contenenti alcune parole offensive, il ban non dipende soltanto da un automatismo. Dove non proceda per filtro di parole chiave, l’eliminazione di contenuti su Facebook si verifica per numero di segnalazioni. La presenza massiccia di pagine fasciste, anche numericamente significative in termini di follower, denota che esse siano molto seguite e poco segnalate: ciò significa che il dilagare del neofascismo si appoggia su una base sempre più larga, che sui social trova terreno fertile. In questa ottica, anche chi distingue tra gesti fascisti tout court e quelli “atti a ricostruire il partito”, stigmatizzando solo i secondi, ha il sapore di un’amara presa d’atto di una realtà già sfuggita dalle mani di chi avrebbe avuto il compito di arginarla.
Circa le motivazioni dell’oscuro e mai abbastanza indagato legame degli italiani con il fascismo, vari intellettuali l’hanno ricondotto al fascino dell’immagine dell’uomo forte, virile, che ostentava maschia potenza e paternale condiscendenza. Un’immagine cui tutta l’iconografia del duce rimanda in modo quasi parossistico. La stessa sulla quale le immagini contro cui si scaglia Alessandra Mussolini fanno ironia, cogliendone gli aspetti ridicoli. Che pure non devono sembrare tali a chi oggi accorda la propria fiducia a uomini che all’immagine in canotta e trebbiatrice tra le mani hanno sostituito quella in felpa e panino con la salamella, ai discorsi fitti di riferimenti alla romanità i congiuntivi sbagliati come li sbaglia l’uomo comune.
L’esigenza di riconoscersi nel proprio leader, e insieme di affidarsi quanto più possibile alla sua forza, declinata oggi in concretezza, in contrasto al politicamente corretto e al “politichese” della cosiddetta “kasta”, oppure in onestà che squaderni i segreti della “vecchia politica”, non è certo una caratteristica innata degli italiani. È frutto piuttosto di una scelta di educazione, maturata fin da quando gli stessi dirigenti fascisti, così come la gente comune, non hanno fatto che riporre nell’armadio la camicia nera, spesso per indossare, nel momento adatto, il fazzoletto azzurro o rosso dei partigiani.
Esiste quindi un rimosso diffuso che la storia, la politica e la vita civile hanno scelto di operare sui motivi profondi della capacità penetrativa del fascismo sulle coscienze. Su quanto si sia rivelata vincente la strategia dell’identificazione con il potente e la sua capacità di rassicurazione, ovvero quella che la filosofia del diritto chiama “strategia dell’acclamazione”, sta la diretta, drammatica coerenza con cui sempre più spesso la memoria collettiva passa un colpo di spugna (una delle espressioni idiomatiche superstiti del linguaggio fascista) sulle atrocità del Ventennio, in nome del fatto che “ha fatto anche cose buone”. In questo senso, l’educazione politica degli italiani si è formata in modo da ritenere accettabile la limitazione della libertà degli oppositori politici, così come dello status democratico dell’intero Paese, in nome di un superiore interesse. L’idea, quindi, che il fine giustifichi i mezzi, e che il nemico sia da ricercarsi al di fuori di un confine al di là del quale gli esseri umani possederebbero caratteristiche di umanità diverse da quelle di coloro che si identificano come propri simili, dagli ebrei agli africani, passando per gli zingari.
Se questo tipo di educazione prende piede, non stupisce che le idee violente, discriminatorie e razziste che sostenevano e sostengono l’ideologia fascista possano essere percepite da chi le cova nient’altro che come semplici opinioni sulle quali dovrebbe essere possibile istaurare un dibattito a parità di considerazione. La fame di semplificazione, che permetta di andare avanti nel modo più indolore possibile, è il contesto nel quale cresce una generazione alla quale la memoria del Ventennio arriva mediata da ricordi sempre più nostalgici, che nell’incertezza diffusa del presente intravedono nella pretesa solidità del leader una sicurezza alla quale affidarsi, disposti senza troppi scrupoli di coscienza a soprassedere sugli aspetti controversi, e anzi replicando le medesime strutture, frasi e attribuzioni di colpe, fatte di nemici della Patria e di presunto onore da difendere. Che può essere recuperato perché non si è voluto affrontare quel processo di confronto ed elaborazione che altre società, come ad esempio quella tedesca, hanno provato a intraprendere, seppur parzialmente.
Non che sia sufficiente a proteggere dalla recrudescenza di alcune retoriche, come il recente picco nei sondaggi da parte dell’estrema destra tedesca nelle elezioni bavaresi sta a dimostrare, ma l’argine al ritorno delle logiche fasciste, a prescindere dalle forme che esse assumono, così come ai discorsi d’odio, potrebbe rivelarsi lo stesso: una forma nuova e tutta da formarsi di pedagogia che passi non solo attraverso la memoria, ma soprattutto attraverso l’educazione alla complessità, alla riflessione articolata, all’assunzione di responsabilità diretta e informata, che sappia distinguere, anche, tra opinione e crimine.