Secondo il World Food Programme (Wfp) dell’Onu, il numero delle persone che al mondo rischiano l’insicurezza alimentare nel 2020 potrebbe quasi raddoppiare rispetto allo scorso anno, toccando i 265 milioni di individui. Si calcola che a causa della COVID-19 saranno 130 i milioni le persone che faticheranno a procurarsi cibo a sufficienza: i mancati introiti del comparto del turismo, il crollo delle rimesse e le conseguenze economiche delle restrizioni rendono infatti più difficile la produzione, la distribuzione e per molti anche l’acquisto delle derrate alimentari, con conseguenze potenzialmente disastrose. A questi 130 milioni si sommano i 135 che non riescono a sfamarsi a causa di guerre, crisi economiche ed emergenza climatica. Tra loro più di 75 milioni sono bambini che vivono nei 55 Paesi analizzati dal Global Report on Food Crisis 2020, pubblicato il 20 aprile dal Wfp.
L’ennesimo problema da risolvere relativo alla pandemia è proprio l’aumento a livello globale dell’insicurezza alimentare. Questa si definisce come la mancanza di un sicuro accesso al cibo nutriente in quantità adeguata al corretto sviluppo umano e a una vita sana e attiva. Perché la sicurezza alimentare sia garantita, il cibo deve essere disponibile in sufficienti quantità e varietà e gli individui devono essere nella condizione di poterlo conservare, cucinare e condividere in famiglia. La crisi alimentare denunciata dal report è la terza delle cinque fasi individuate dall’Onu che culminano nella mass starvation. È una minaccia che già pende sul capo di persone la cui possibilità di mettere un piatto in tavola dipende spesso dalla paga ricevuta di giorno in giorno. Il report avverte che in gran parte del mondo potrebbero verificarsi aumenti dei prezzi come quelli successivi alla crisi economica del 2008.
Le prime vittime di questa emergenza sono proprio i lavoratori a giornata e gli impiegati nel settore dell’economia informale – ossia quelle attività che non sono svolte in cambio di un salario, per esempio l’agricoltura di sussistenza – che, nell’impossibilità di lavorare a causa delle restrizioni o rimasti senza lavoro perché contagiati, se costretti a vendere i loro mezzi, come aratro o buoi, perdono la possibilità di guadagno e allo stesso tempo danneggiano la produzione di cibo per l’intera comunità. Il rischio di fare la fame è ancora più impellente per i 79 milioni di rifugiati e persone dislocate nel mondo. Per questo la preoccupazione dell’Onu è rivolta innanzitutto ai Paesi in cui le strutture di assistenza e il welfare non sono garantiti o sono deboli: si tratta solitamente di Paesi in via di sviluppo dove la recente pandemia rischia di mettere in crisi le infrastrutture sanitarie. Qui le popolazioni sono spesso vittime di problemi preesistenti, a cui si sommano gli effetti del coronavirus. Per esempio, delle 130 milioni di persone che lo scorso anno erano in stato di insicurezza alimentare, circa 77 milioni vivevano in Paesi in guerra, 34 sono stati colpiti dagli effetti della crisi climatica e 24 dalle crisi economiche. Tra le comunità più esposte si distinguono Etiopia, Kenya e Somalia, dove già circa 12 milioni di persone già subiscono le conseguenze della prolungata siccità e dell’invasione di locuste che ha colpito coltivazioni e pascoli tra dicembre e gennaio scorsi. Complessivamente il numero di persone a rischio di fame in Africa orientale potrebbe raddoppiare nei prossimi tre mesi, arrivando a 43 milioni di individui tra Etiopia, Kenya, Ruanda, Burundi, Gibuti, Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Uganda.
Gli elevati numeri dei contagiati (ormai oltre 3 milioni al mondo) e le misure di lockdown rischiano di ridurre la produzione alimentare, facendo anche aumentare i prezzi del cibo. Questo implica da un lato meno lavoro per chi vive alla giornata e si trova così con un potere d’acquisto ridotto, e dall’altro meno cibo disponibile e a prezzi più alti, con ripercussioni soprattutto su chi non si può permettere di acquistarlo, magari perché ha perso il lavoro o ha dovuto metterlo in pausa a causa del lockdown. Tra i più colpiti da questa eventualità ci sono i lavoratori stagionali di agricoltura, pesca e pastorizia. Inoltre, i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana che dipendono dalle importazioni di cereali dall’estero (oltre 40 milioni di tonnellate di prodotti nel 2018) per sopperire alle carenze della produzione interna oggi sono particolarmente vulnerabili ai rischi connessi alle fluttuazioni dei prezzi. Se la carenza o il rallentamento delle esportazioni nei Paesi industrializzati fa sì che alcuni prodotti importati scarseggino sugli scaffali, altrove gli effetti sono ben più gravi. In Zimbabwe, per esempio, l’insicurezza alimentare riguarda già 4,3 milioni di persone, rispetto ai 3,8 milioni di fine 2019. A essere colpite non sono solo le aree rurali: l’impatto sulle città è motivo di altrettanta preoccupazione, dato che coloro che sopravvivono grazie ai guadagni quotidiani, i lavoratori del settore dei servizi, ma anche la classe media sono improvvisamente vulnerabili a povertà e fame. In Angola e in Nigeria, infatti, il calo delle esportazioni di carburante, e il crollo del suo prezzo rischiano di impoverire molti della neonata classe media nata grazie allo sfruttamento del principale prodotto dell’export di questi due Paesi.
Il problema colpisce con più violenza chi vive dove la fame era diffusa già prima dell’emergenza Coronavirus. In Centro e Sud America, per esempio, un terzo della popolazione viveva già in stato di insicurezza alimentare: nel 2018 in cima alla lista dei Paesi con i più elevati livelli di fame c’erano Haiti, Venezuela, Nicaragua, Bolivia e Guatemala. Ma le conseguenze indirette della pandemia si fanno sentire anche altrove. Se in Italia tra le 100 e le 260mila famiglie scenderanno sotto la soglia di povertà a causa della quarantena prolungata – e i Comuni si sono attivati per fornire ai cittadini più bisognosi i buoni spesa per permettere loro di mettere un pasto in tavola – tra i Paesi altamente industrializzati preoccupano in particolare gli Stati Uniti. Il Paese più colpito dall’epidemia sta già registrando una perdita di posti di lavoro nell’ordine delle decine di milioni, situazione aggravata da un sistema di welfare basato proprio sulle assicurazioni garantite dai contratti di lavoro. Sono le famiglie a basso reddito le prime vittime della crisi, anche nel mondo occidentale industrializzato.
Il sistema scolastico di Elk Grove, a Sacramento (California), in una settimana ha consegnato due pasti al giorno a circa 11mila studenti; a Brenham (Texas), dove il 60% degli studenti delle scuole pubbliche ha i requisiti per ottenere pasti gratuiti o a prezzo ridotto, il distretto scolastico ha fornito circa mille pranzi e oltre 800 colazioni nei primi tre giorni del programma avviato a metà marzo. La corsa a svuotare gli scaffali dei supermercati a cui abbiamo assistito a inizio quarantena danneggia soprattutto coloro che non hanno i mezzi per fare scorte. Negli Stati Uniti il problema si aggrava negli Stati del sud, dove si concentrano ampie sacche di povertà: è un buon esempio la Louisiana, dove il 70% dei morti da Coronavirus è afroamericano – comunità cui appartiene il 30% della sua popolazione, ma che registra la maggior parte dei casi di diabete, ipertensione e problemi cardiaci. Tutte patologie che aggravano le condizioni dei malati da COVID-19, senza contare che molti si rivolgono agli ospedali solo quando le loro condizioni di salute sono ormai irrecuperabili, perché sprovvisti di assicurazione sanitaria.
Secondo quanto riportato da Reuters, nel 2020 i programmi di assistenza del World Food Programme avranno bisogno di circa 10-12 miliardi di dollari (erano 8,3 miliardi nel 2019) per far fronte alle emergenze dei prossimi mesi. Secondo Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, “Dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per combattere fame e malnutrizione. […] Abbiamo gli strumenti e la conoscenza per farlo. Ciò di cui abbiamo bisogno sono la volontà politica e un impegno sostenuto dai leader e dalle nazioni”. La cooperazione internazionale è oggi ancora più importante, se si considera l’ulteriore problema imposto dalla pandemia: la consegna degli aiuti umanitari da cui dipendono intere popolazioni è spesso rallentata e ridotta, dato che le risorse a disposizione delle organizzazioni governative e non sono in gran parte impiegate per affrontare il virus sul piano sanitario, indebolendo le misure contro malnutrizione e della fame. La crescente insicurezza alimentare che dobbiamo affrontare è una crisi nella crisi che rischia di rendere le persone più fragili e malnutrite e quindi più vulnerabili al virus, in quello che, secondo il direttore della Divisione Emergenza e Resilienza della Fao Dominique Burgeon, è un vero e proprio circolo vizioso.
In questa fase è essenziale mettere a frutto l’esperienza acquisita in avvenimenti simili nel corso degli ultimi anni. In Africa, durante l’epidemia di Ebola del 2014, la produzione alimentare crollò del 12%, con un picco in Liberia, dove il 47% degli agricoltori era impossibilitato a coltivare; le restrizioni e le chiusure dei mercati fecero crollare il flusso di alimenti e, a sua volta, la carenza di beni fece aumentare i prezzi. Questo ci deve mettere in guardia e guidare le nostre scelte globali nel prossimo futuro. Se la salute e la difesa dal virus restano una priorità, non si può trascurare la tenuta dei mezzi di sussistenza.