Durante una storica intervista alla BBC nel 1995, Lady Diana è stata acclamata per il suo coraggio nel parlare dei suoi problemi di bulimia in televisione: in quegli anni non era così usuale che certi argomenti legati alla salute mentale venissero discussi in pubblico. In questi giorni – a 26 anni di distanza – sui social sta circolando molto una foto della modella Bella Hadid in lacrime mentre, sul suo profilo Instagram da milioni di follower, racconta la sua depressione. Negli ultimi anni parlare apertamente di salute mentale è diventato sempre più diffuso, tanto che, se guardiamo ai media mainstream (soprattutto nel mondo anglosassone), sono sempre più le celebrities che raccontano i loro disturbi d’ansia o depressivi, i loro problemi di dipendenza o i disturbi del comportamento alimentare, solo per fare alcuni esempi. Questa normalizzazione sta favorendo un graduale abbattimento dei tabù, eppure sembra che, nonostante la maggiore visibilità, si continui a dare alla salute mentale connotazioni morali, come se ci fosse in qualche misura una “colpa” sottintesa nei disagi di natura psichica di cui non riusciamo a liberarci.
In questo senso sono particolarmente emblematici due episodi recenti nel mondo dello sport: sia la campionessa di tennis Naomi Osaka, sia la ginnasta pluripremiata Simone Biles si sono temporaneamente ritirate dalle competizioni per ragioni di salute mentale. In entrambi i casi, i media (specie quelli italiani) le hanno descritte come “deboli”, fragili, tormentate, in preda all’emotività, sottolineando il contrasto con l’immagine di donne forti, combattive e determinate che le loro vittorie sportive hanno contribuito a creare. Sembra ancora presente l’idea che soffrire di disturbi mentali sia in qualche modo un fallimento, un segno di “non avercela fatta”.
Lo stigma e gli stereotipi che ancora circondano la salute mentale hanno radici che affondano nella storia occidentale (non in tutte le culture i disturbi mentali sono valutati allo stesso modo), nella medicina, nella filosofia e nell’evoluzione delle neuroscienze e della psicanalisi. “C’è stato nei secoli un costante interrogarsi sul perché di certi disturbi del comportamento”, spiega lo storico Keith Wailoo nel documentario Mysteries of Mental Illness, “E anche se le autorità religiose e politiche sono cambiate nei secoli, è sempre rimasta la necessità di trovare una ragione”. Questa ricerca di significato (“Perché proprio questa persona? Perché proprio io?”) unita agli interrogativi su cosa sia da considerarsi “normale” a livello comportamentale, ha caratterizzato la nostra società fin dai tempi antichi. Prima della scoperta dei neuroni e dell’affermarsi della concezione moderna della mente che risale a poche centinaia di anni fa, per spiegare i disturbi mentali venivano addotte tanto motivazioni biologiche quanto teorie su forze soprannaturali.
La causa veniva ricercata nel corpo (tramite i primi studi di biologia e anatomia), nella ragione (intesa soprattutto come sede della volontà e del controllo delle passioni), ma anche nell’anima, e questi tre elementi non erano mai chiaramente distinti l’uno dall’altro. Tutto questo, poi, subiva l’influenza della cultura del tempo che catalogava alcuni comportamenti come “devianti” finendo per patologizzarli in base a norme di genere sessiste e pregiudizi razzisti. Un esempio piuttosto emblematico di questo mix di teorie, preconcetti e superstizioni è il caso dell’isteria, ovvero quella che fin dall’antica Grecia era considerata una patologia tipicamente femminile causata dallo “spostamento dell’utero”. Per secoli a questa “malattia” sono stati legati i sintomi più svariati: convulsioni, paralisi, collassi, emicranie, ma anche depressione, ansia ed eccessiva emotività, che in concreto poteva essere facilmente “diagnosticata” in ogni donna che non rispettasse il ruolo per lei previsto dalla società del tempo. L’isteria è stata trattata medicalmente fino circa al 1950 e, a seconda del periodo storico, le sue cause sono state ricercate nella mente, nel corpo o nell’anima delle pazienti con conseguenti cure e rimedi che spaziavano dall’oppio a un buon matrimonio, dalla clitoridectomia alla masturbazione, dagli esorcismi (nel Medioevo era spesso associata alla stregoneria) alla psicoterapia in base agli studi di Freud.
Il primo a utilizzare in questo senso il termine “isteria” (dal greco ὑστέρα, utero) è stato Ippocrate (460 a.C.- 377 a.C.), considerato il padre della medicina occidentale. Ippocrate nei suoi studi si è occupato, tra le altre cose, dell’emicrania e dell’epilessia e sosteneva che il cervello fosse sede non solo di pensieri, ma anche di sensazioni e comportamenti. “Dal cervello, e dal cervello solo”, scriveva, “sorgono i piaceri, le gioie, le risate e le facezie così come il dolore, il dispiacere, la sofferenza e le lacrime. Il cervello è anche la dimora della follia e del delirio, delle paure e dei terrori che ci assalgono di notte o di giorno. Su queste basi Ippocrate ha sviluppato la sua teoria degli umori, per cui il corpo umano sarebbe composto da quattro sostanze che prendono il nome di “umori”, appunto. Se gli umori non sono in equilibrio insorge la malattia, sia del corpo che dello spirito: per esempio un eccesso di bile nera poteva portare a tristezza e depressione (da qui il modo di dire “cattivo umore”).
Per risolvere i problemi che noi definiremmo “della mente”, quindi, bisognava ristabilire l’equilibrio degli umori nel corpo e, proprio sulla base di questa teoria (ampliata ulteriormente dal medico greco Galeno nel II secolo d.C.), fino alla metà del XIX secolo i medici hanno tentato di curare i disturbi mentali tramite ripetuti salassi che spesso portavano alla morte dei pazienti. Nel mondo classico, però, non c’era un’opinione univoca sui disturbi mentali. Per Aristotele i disturbi mentali erano principalmente legati a un difetto di razionalità. Come spiega lo storico, psichiatra e psicanalista George Makari nel suo libro Soul Machine: The Invention of the Modern Mind, secondo il filosofo l’uomo era in grado di controllare le passioni con la razionalità ma, quando le passioni avevano il sopravvento sull’anima razionale, ne seguiva la malattia. Si tratta di una concezione che è facile ritrovare alla base di molti preconcetti contemporanei e che è stata ripresa anche da Cartesio nel suo libro Le passioni dell’anima.
A fronte di questi tentativi di studiare i disturbi mentali con un approccio filosofico o di stampo scientifico, per secoli è stata parallelamente sostenuta anche la teoria che derivassero, invece, da cause soprannaturali: forze oscure che si impossessavano dell’anima. Queste teorie erano di stampo religioso e, per questo, molto diffuse nei secoli in cui la Chiesa aveva più potere. Nel IV-V secolo d.C., per esempio, i disturbi mentali erano spesso percepiti o come ispirati dal divino o, di contro, come segni del demonio e quindi legati al comportamento e ai valori morali di chi ne soffriva. Secondo Makari, nel Medioevo, quando si trattava di curare i disturbi mentali c’erano due possibilità: se si stabiliva che il problema fosse di natura “biologica” venivano utilizzati i salassi in base alla teoria degli umori, se invece la “diagnosi” vedeva la presenza di un demone si ricorreva all’esorcismo che cercava di salvare l’anima del paziente/fedele.
Ci è voluto molto tempo perché l’idea che i disturbi mentali fossero un problema “dell’anima” venisse definitivamente confutata e, anche allora, le sofferenze dei pazienti psichiatrici – spesso rinchiusi nei cosiddetti “manicomi”, costretti a vivere incatenati e curati con macchinari simili a strumenti di tortura – non sono finite. La scoperta dei neuroni alla fine del 1800 e il progressivo sviluppo delle neuroscienze e della psichiatria hanno portato a maggiore chiarezza sulle diverse cause dei disturbi mentali, che hanno iniziato a essere classificati e curati tramite la psicanalisi e, quando necessario, le cure farmacologiche. Come spiega lo psichiatra Jeffrey Lieberman, però, rispetto ad altre branche della medicina, la psichiatria rimane indietro nell’eziologia e in molti casi non riesce ancora a risalire in modo univoco alle cause dei disturbi che cerca di curare. “Oggi il nostro grado di conoscenza è maggiore di sempre”, spiega, “ma c’è ancora molto che non sappiamo ed è per questo che lo stigma continua”.
La domanda “Perché a me?”, dunque, in parte rimane, e le teorie e le superstizioni continuano a riaffiorare nel presente. Così i disturbi mentali vengono ancora in certa misura associati alla forza di volontà. Per esempio nei disturbi del comportamento alimentare parte dello stigma è legato all’idea che si tratti di una scelta deliberata, legata a questioni estetiche o a pressioni sociali, che potrebbe essere modificata tramite la forza di volontà. Anche la depressione viene spesso associata alla forza di volontà tanto che, in uno studio del National Opinion Research Center degli Stati Uniti, il 37% degli intervistati ha sostenuto che una persona con depressione grave possa migliorare senza aiuti. Nel caso delle dipendenze, poi, emerge con forza il giudizio morale, mentre quando l’elemento della volontà sembra mancare ecco che la componente soprannaturale continua ad avere un ruolo, tanto che quando Simone Biles ha raccontato le sue difficoltà, la stampa ha calcato molto sull’idea dei “demoni nella testa”. In una società che premia la produttività, ammettere di soffrire di un disturbo mentale viene ancora percepito come una “perdita di controllo” sulla mente e un fallimento a livello di “self-care”, ormai visto come pratica virtuosa per garantirsi un certo grado di serenità. Il problema è che questi stereotipi rendono problematico per le persone in difficoltà chiedere aiuto agli specialisti e alimentano lo stigma e il loro senso di inadeguatezza. È arrivato il momento di lasciarsi alle spalle questa visione obsoleta.