Tasse. Tanto odiate quanto necessarie. Non solo perché permettono l’esistenza di tutti quei beni comuni che vediamo ogni giorno e che diamo per scontati (scuole, strade, ospedali) ma anche per ragioni storiche e politiche. Basta pensare che proprio l’organizzazione della riscossione delle imposte fu uno dei motori che spinse le comunità politiche del medioevo a evolversi, centralizzarsi e farsi sempre più efficienti, fino a diventare veri e propri Stati. La tassazione non è stata solo un infelice strumento dell’autorità statale per imporsi sugli altri, ma anche il simbolo concreto di appartenenza e di partecipazione politica. L’esempio storico più famoso è quello delle colonie americane, che si ribellarono alla madre patria Inghilterra proprio perché il nesso tra rappresentanza e tassazione era stato negato, il celebre “No taxation without representation”. Eppure, questo compromesso non sembra valere per tutti. Lo diceva già George Orwell: “Nessuno è patriottico quando si tratta di dover pagare le tasse”. E noi italiani lo sappiamo molto bene.
I numeri parlano chiaro: 107 miliardi e 500 milioni di euro. Questa è la spaventosa cifra a cui ammonta l’evasione fiscale nel nostro Paese. È difficile per tutti capire di quanto denaro stiamo parlando. Per farci un’idea dobbiamo pensare che l’intera spesa pubblica per la sanità, in un anno, ammonta circa a 118 miliardi di euro. O che i 107 miliardi dell’evasione sono una cifra 33 volte più grande dei fondi destinati alla ricostruzione dopo i terremoti. O ancora, che con la quantità di denaro che ogni anno viene evasa si potrebbe pagare per ben due volte tutte le spese del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca.
I dati sono contenuti in un rapporto del 2018 redatto dallo stesso Ministero dell’Economia e delle finanze (Mef). Tra l’altro, questi numeri sono quasi edulcorati. Sia perché alcuni economisti come Carlo Cottarelli parlano di ben 130 miliardi, sia perché 107,500 miliardi corrisponderebbe esclusivamente all’evasione in senso stretto, ovvero al tax gap. Il tax gap è la differenza tra quello che è dovuto allo stato dai contribuenti e ciò che da essi non viene versato. Il rapporto non considera quindi l’economia sommersa (che secondo l’Istat vale 210 miliardi di euro l’anno), i soldi della criminalità organizzata o quelli non dichiarati da chi ha un secondo o terzo lavoro: considerando queste cifre, alcuni studi affermano che la quantità di denaro evasa aumenterebbe a uno spaventoso 300 miliardi di euro, più di un terzo dell’intera spesa pubblica italiana.
Il rapporto del Mef ci fornisce anche altri dati, utili per comprendere come e da dove partire per una lotta all’evasione fiscale. Ben 34 miliardi dei 107,5 totali deriverebbero dall’IRPEF (ovvero la tassa sul reddito delle persone fisiche) per imprese e lavoratori autonomi. Secondo lo studio, nel 2016 ben il 67,9% di questa imposta sarebbe stata evasa. La voce più consistente è però quella dell’IVA: sempre nel 2016, sarebbero quasi 34,9 miliardi gli euro non versati per l’imposta sul valore aggiunto, la quale riuscirebbe a raccogliere solo il 63,8% di quanto dovuto.
Se proviamo a fare una comparazione con gli altri Paesi europei, i risultati non sono rassicuranti. Secondo una relazione del Parlamento europeo, ogni anno in Europa viene evasa una cifra mastodontica: 823,5 miliardi di euro. Leggendo il documento scopriamo di essere il Paese con l’evasione fiscale pro-capite più alta in tutta l’UE, ben 3156 euro a testa. Subito dietro troviamo Danimarca, Belgio e Lussemburgo, paesi dove l’alto livello di evasione pro-capite dipende anche dal un contemporaneo e più alto livello di PIL pro-capite (ovvero di ricchezza prodotta da ogni individuo).
Questi numeri spiegano con forza e chiarezza come l’evasione fiscale sia un vero e proprio cancro per l’Italia. I numeri non sono nascosti, ma a disposizione di tutte le forze politiche e di tutte le istituzioni. Eppure, negli ultimi anni è stato fatto poco per combatterla. Poco e male. Vi è infatti un problema alla base delle politiche per la lotta all’evasione fiscale: la schizofrenia. Come riporta un articolo del Sole 24 ore, negli ultimi anni è mancata una strategia condivisa anche solo sulle linee essenziali per combattere gli evasori. In questo modo si è visto, con il cambiare dei governi, rapidi cambi di politiche, spesso sottomesse all’esigenza di accontentare il proprio elettorato, come dimostrato dal condono camuffato da pace fiscale dell’anno scorso firmato Salvini e Conte. Un altro esempio è quello del limite sul contante: 1000 euro nel 2007 con il governo Prodi, 5000 nel 2010 sotto Berlusconi, 1000 con Monti e poi 3000 con Renzi.
L’evasione fiscale è stata affrontata negli ultimi anni con politiche confuse, saltuarie e pressapochiste, presentate però come la panacea di tutti i mali. Ne è un esempio il voluntary disclosure proposto dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, che definiva il suo governo il “Real Madrid della lotta all’evasione”. Se è vero che sotto i governi del leader di Italia Viva e del suo successore Paolo Gentiloni si è arrivati a un recupero di 20 miliardi dell’evasione, bisogna anche dire che questi soldi venivano da misure una tantum e da sconti per gli evasori: politiche miopi e di breve periodo, che invece di affrontare il problema alla radice cercavano di mettere una pezza, non facendo altro che rimandare e quindi peggiorare il problema.
Perché il problema dell’evasione fiscale in Italia c’è. Ed è molto più profondo e radicato di quello che le nostre classi dirigenti vogliono credere. È una questione che affonda le sue radici nell’ethos nazionale italiano e nel senso dello stato, che in Italia è da sempre sentito come illegittimo. È quello che alcuni sociologi hanno chiamato familismo amorale: esso consiste in un forte individualismo allargato al proprio nucleo fatto di familiari e stretti conoscenti, il quale va inevitabilmente a danno dell’interesse collettivo. Questo individualismo, infatti, ci spinge a occuparci esclusivamente del bene del nostro nucleo, presupponendo che anche tutti gli altri facciano lo stesso e che pensino esclusivamente ai propri interessi: in questo modo non viene attivato quel meccanismo di reciproca fiducia nell’altro che permette lo sviluppo di un’idea di bene comune a cui la comunità deve tendere e per il quale deve agire. Così in una società dove è forte il familismo amorale difficilmente si riuscirà a sviluppare il concetto di collettività e di Stato. Di conseguenza anche basilari leggi per la pacifica convivenza come il mettersi in fila davanti uno sportello o pagare le imposte non saranno rispettate, proprio perché manca alla base l’idea di un bene comune.
È indubbio che ci siano anche altre ragioni più pratiche e concrete per spiegare un’evasione fiscale così alta, come un livello di tassazione estremamente elevato, che nel 2017 è arrivato al 42,4%, facendoci risultare il sesto Paese per imposizione fiscale tra i grandi stati industrializzati. Ma finché non si capisce che l’evasione è anche un problema culturale e profondamente radicato nella mentalità degli italiani, la politica non farà grandi passi avanti.
Per queste ragioni è necessario smettere di affrontare la questione pensando alla prossima tornata elettorale, ma adottando un grande piano che guardi tanto lontano quanto in profondità. Da una parte sono tante le politiche concrete che possono essere promosse per combattere l’evasione: un primo passo potrebbe essere la creazione di un coordinamento tra procure, Guardia di finanza e Agenzia delle entrate e l’assunzione del personale mancante, particolarmente importante soprattutto nella lotta ai grandi evasori. Come suggerito dall’ex ministro Visco, le nuove tecnologie permettono una tracciabilità del denaro mai vista finora, e un possibile collegamento tra le casse e i server dell’agenzia dell’entrate che potrebbe mettere in ginocchio con pochi click gran parte dell’evasione. O ancora, un forte messaggio simbolico e concreto potrebbe arrivare da una legge che sancisca il carcere per i grandi evasori, oltre che dall’abbassamento della tassazione soprattutto per le fasce che più hanno sentito la crisi negli ultimi anni.
Ma tutte queste misure saranno inutili se, dall’altra parte, non si combatterà anche una battaglia culturale contro il familismo amorale e l’individualismo egoistico, per far trionfare un’idea di bene comune. Questa battaglia non può che essere combattuta sui banchi di scuola, e da istituzioni che finalmente incomincino a occuparsi dello sviluppo di un pensiero critico e democratico nelle nuove generazioni. Se ciò non avverrà, il rischio sarà che il cancro dell’evasione fiscale e dell’egoismo si allarghi sempre di più, riducendo il Paese a un malato terminale. Forse, allora, capiremo che di quei 107,500 miliardi di euro di evasione almeno un po’ avremmo potuto spenderli in ricerca per prevenire i tumori.