Nel giro di pochi giorni, dal 29 ottobre al 3 novembre, l’Europa ha subìto due attentati terroristici, prima a Nizza poi a Vienna, entrambi rivendicati dallo Stato Islamico (ISIS). Sia il presidente francese Macron che il cancelliere austriaco Kurz hanno condannato con fermezza e senza alcun cenno di tolleranza le barbarie del terrorismo islamico, rievocando e ribadendo quei comuni valori liberal-democratici che rappresentano le fondamenta della comunità europea. In Italia, anche il presidente del consiglio Conte si è allineato sulla stessa posizione dura di Francia e Austria contro il fanatismo islamico. Tuttavia, altri politici italiani, come Salvini e Meloni, oltre a dimostrare apprensione e vicinanza verso i due Paesi colpiti, hanno voluto ribadire la correlazione, seppur minima, fra immigrazione clandestina e attentati.
I due leader di destra, oltre ad amplificare l’attuale emergenza terroristica in tutta Europa, sono dell’opinione che il fenomeno dell’immigrazione sia “fuori controllo ormai da anni” e che possa rappresentare un veicolo per l’avanzamento dei terroristi nel suolo italiano. La confusione informativa creata dalla retorica politica e da notizie spesso gonfiate dei media può indurre molti a pensare che l’Europa sia effettivamente un continente ormai martoriato da numerosi attacchi terroristici e che gli sbarchi nel Mediterraneo non possano far altro che implementare l’arrivo di potenziali terroristi, nascosti tra profughi e migranti. Eppure, i dati raccolti nel rapporto del Global Terrorism Index 2019 dimostrano che il continente europeo è uno degli ultimi al mondo per numero di attentati e per relativo numero di morti. Mentre lo studio di Claudio Bertolotti Correlazione tra flussi migratori e minaccia riconducibile al terrorismo di matrice confessionale, per il Centro alti studi per la difesa, testimonia il fatto che l’immigrazione influisca su questo fenomeno in minima parte.
A fronte del diffuso allarmismo che può suscitare un evento violento e traumatico come un attentato, è utile considerare il fenomeno in una prospettiva più ampia. Se si guardano i dati del rapporto del parlamento europeo Terrorismo nell’UE: numero di attentati, vittime e arresti nel 2019 ci si accorge che, tra il 2015 e il 2019, in Europa le vittime di questi eventi drammatici sono drasticamente diminuite (da 150 nel 2015 si è passati a 10 nel 2019). I dati dimostrano anche che, sempre in Europa, il periodo più tragico per quanto riguarda le vittime di attentati è stato quello che va dagli anni Settanta ai Novanta e che include gli anni di piombo in Italia, i Troubles irlandesi o gli attacchi dell’E.T.A nei Paesi Baschi, e quindi il terrorismo interno.
Inoltre, stando a quanto riportato in Dialogo sull’immigrazione, di Stefano Proverbio e Roberto Lancellotti, si evince che dal 2013 al 2016, anni in cui si è verificata un’impennata di attacchi terroristici, la stragrande maggioranza di tali eventi si è verificata in Asia e in Africa. I Paesi più afflitti da questa piaga, in cui si concentra il 65% delle vittime, sono stati infatti Afghanistan, Iraq, Nigeria e Siria, i quali presentano una situazione politica, economica e sociale molto più instabile di quella europea e dove da anni proseguono guerre civili e religiose, come abbiamo visto terreno fertile per gli attentati. Per dare un’idea della diseguaglianza del fenomeno vissuto in Europa rispetto a questi quattro Stati basta pensare al numero di morti durante il periodo citato sopra: nel continente europeo sono stati circa 2.900 (400 in Europa dell’Ovest e 2.500 in Europa dell’Est), mentre in Iraq, Afghanistan, Nigeria e Siria, cumulati, se ne contano 91.400. Nel mondo, in questi quattro anni, il totale delle vittime di attentati è di 138.900. Si comprende quindi come l’Europa contribuisca fortunatamente solo in minima parte alla percentuale dei morti per attacchi terroristici.
Secondo l’analisi già citata condotta dal Centro alti studi per la difesa, pubblicata quest’anno, “degli 895 attacchi terroristici, di successo, falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea dal 2014 al 2017, il 67% sono riconducibili a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 12% a movimenti della sinistra radicale, il 3% a gruppi appartenenti alla destra militante: solamente il 16% sono azioni di matrice jihadista”. Tuttavia, secondo lo studio, gli atti riconducibili allo jihadismo sono causa del 96% delle morti complessive. Questa percentuale così elevata si spiega con il fatto che gli attacchi dei terroristi jihadisti, rispetto ad altre organizzazioni, sono decisamente più violenti, ben orchestrati e spesso attuati da uomini più addestrati e preparati.
La minaccia jihadista nel nostro continente ci spinge indubbiamente ad analizzare la correlazione migrazioni-terrorismo, sostenuta da molti esponenti delle destre europee. I dati smentiscono però l’ipotesi che tra migranti e richiedenti asilo, in viaggio verso l’Europa, si nasconda la maggior parte degli attentatori. Ciò viene confermato da un rapporto del 2017 dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Inspi) dal nome Jihadista della porta accanto – titolo, peraltro, non propriamente consono a una ricerca scientifica, che rischia di aumentare i pregiudizi contro la comunità islamica presente in Italia. La ricerca evidenzia che dal 2014 al 2017 in Europa e in Nord-America hanno avuto luogo complessivamente 51 attentati (32 in Europa e 19 negli Stati Uniti), commessi da 65 attentatori jihadisti – su un totale di 1.091 in entrambi i continenti (stando allo studio di Claudio Bertolotti e ai dati del Global Terrorism Database). In merito alla questione immigrazione, viene spiegato che “il numero di attentatori residenti illegalmente in un Paese o provenienti dall’estero è limitato rispetto a quello degli individui che erano cittadini del Paese in questione, che vi risiedevano legalmente o che provenivano da Paesi limitrofi”. Il 73% dei 65 attentatori, infatti, è rappresentato da cittadini del Paese in cui hanno portato a termine l’operazione terroristica, i cosiddetti “homegrown terrorist”. Un altro 14% è composto da residenti legali oppure “visitatori” provenienti da Paesi confinanti, mentre solo il 5% (equivalente a 3 persone) era rifugiato o richiedente asilo. Il restante 6% (altre sole 4 persone) risiedeva illegalmente nel Paese dove ha colpito o aspettava un mandato di espulsione. Quindi, in totale, negli anni in questione, solo 7 attentatori hanno sfruttato le rotte migratorie.
Lo studio condotto dall’Ispi rileva anche alcune caratteristiche comuni dei diversi attentatori che hanno poco a che vedere con l’immigrazione. In primis, circa il 18% degli attentatori sono “foreign fighter”, ovvero cittadini residenti in Europa che sono andati combattere e a farsi addestrare principalmente in Medio Oriente “per poi ritornare nei Paesi di provenienza (o recarsi in Paesi terzi) per compiere o supportare attentati terroristici, avvalendosi dei legami, dell’esperienza e dello status acquisiti nel teatro di guerra”. Foreign fighter hanno partecipato ad attentati come quelli di Charlie Hebdo a Parigi, quelli di Bruxelles e quello del treno Thalys a Oignies.
Un’altra considerevole percentuale di attentatori – ovvero quella di coloro che si radicalizzano nel Paese europeo in cui sono residenti – abbraccia l’ideologia jihadista nei cosiddetti “hub”, veri e propri centri di estremismo islamico. La formazione di questi cluster spesso avviene intorno a strutture organizzate (formazioni militanti salafite, moschee radicali), personalità carismatiche o, in alcuni casi, stretti gruppi di amici privi di una leadership formale, che fomentano la radicalizzazione dei soggetti coinvolti, mantenendo una struttura interna orizzontale.
Vanno inoltre precisate le modalità che incidono sull’estremismo politico-religioso degli attentatori che hanno raggiunto l’Europa seguendo le rotte migratorie. Difatti, diversi tra gli attentatori sbarcati sulle coste europee non erano terroristi al momento del loro arrivo, lo sono diventati successivamente. È il caso, ad esempio, di Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni alla fine del 2016. Amri, come riporta un articolo de Il Sole 24 Ore, non era un terrorista al momento del suo sbarco in Italia – 5 anni prima dell’attentato – e la sua radicalizzazione è avvenuta successivamente nella prigione di Agrigento.
Nonostante il fatto che i dati permettano di trarre conclusioni chiare e di mettere in luce la scarsa correlazione tra i fenomeni di immigrazione e il terrorismo, la percezione di gran parte dell’opinione pubblica europea è decisamente falsata. Secondo un sondaggio di Gallup, del 2017, condotto in 17 Paesi europei, gli intervistati, associano alla paura di un fenomeno migratorio in aumento quella di attacchi terroristici. Non a caso, nella classifica dei Paesi più preoccupati per possibili attentati, i dati rivelano che l’Islanda risulti essere l’ultima, mentre Francia e Malta occupano le prime posizioni. Anche in Italia, secondo dati più recentementi, il livello di preoccupazione sembra in linea con il resto d’Europa, se non addirittura più elevato. Lo dimostra un sondaggio Ipsos Ciak MigrAction: indagine sulla percezione del fenomeno migratorio in Italia, condotto nel 2019, in cui si segnala che per il 40% degli intervistati “è troppo pericoloso accogliere migranti perché rappresentano una grave minaccia terroristica”. Inoltre per il 50% “l’Italia deve proteggersi di più dal resto del mondo rispetto al passato”.
Questa percezione errata del fenomeno immigrazione, in rapporto a quello del terrorismo, è purtroppo stimolata da diversi fattori. In primis da una narrazione politica volutamente distorta, alla continua ricerca di cerca un capro espiatorio contro cui catalizzare l’odio represso di una parte della popolazione. Un esempio, oltre a Salvini e Meloni, sono le dichiarazioni di altri populisti-sovranisti come Viktor Orbán e Marine Le Pen. In secondo luogo, la percezione falsata del fenomeno viene alimentata da un’esposizione elevata delle persone a fake news di ogni tipo, come dimostra nel caso degli italiani il già citato sondaggio Ipsos. Infine e più in generale: un costante allarmismo mediatico, incentrato sul singolo avvenimento e sulla notizia, amplifica inevitabilmente le paure e le ansie delle persone, fomentando quindi la loro rabbia.
Se per molti europei la minaccia del terrorismo viene vissuta erroneamente come un rischio costante, per alcuni Paesi quella minaccia lo è davvero e da tempo, ed è diventata una vera e propria guerra quotidiana. Inoltre, come se questo tormento non bastasse, proprio coloro che fuggono da quei territori in cerca di salvezza e migliori condizioni di vita devono subire il nostro pregiudizio e sospetto come se fossero colpevoli di qualcosa, mentre è proprio a causa del terrorismo che costretti a lasciare le loro case.