Non v’è dubbio: il raggiungimento di un accordo sul Next Generation EU rappresenta un momento di primaria importanza per l’Unione europea, una prova di unità proprio quando unità le si chiedeva. Ma tutti i brindisi celebrativi rischiano di restare occasioni buone solo per le foto di rito se adesso l’accordo non viene sostenuto da un adeguato, efficace e lungimirante programma di spesa. Se vi sarà l’intesa definitiva con il Parlamento europeo sul bilancio pluriennale – su questo passaggio fondamentale torneremo dopo – all’Italia arriveranno altri fondi che si sommeranno ai 208,8 miliardi di euro del Recovery Fund – 81,4 come trasferimenti diretti di bilancio e 127 come prestiti – costituendo così una cifra con cui poter far molte cose, anche se il difficile sarà fare quelle giuste. Per esempio, si potrebbero anche varare tutte quelle misure assistenziali capaci di far ottenere consenso elettorale senza però garantire un aumento del prodotto interno lordo: delle misure inutili insomma. Questa volta però l’Italia non può sbagliare, perché i 124 miliardi di euro di prestiti che arriveranno dalla metà del 2021 fino al 2023 (il 70% entro il 2022) andranno restituiti a partire dal 2026. Per farlo dovrà crescere il Pil, aumentare i consumi interni, alzarsi le entrate dello Stato. L’alternativa è quella di veder salire alle stelle il debito pubblico, già arrivato al 160% del Pil dopo la fine della pandemia.
Questa volta, quindi, il nostro Paese deve essere in grado di mettere in atto un programma di riforme all’altezza, e ciò non può prescindere da un’attenta identificazione di quelle che sono le sue priorità. In teoria, un Programma Nazionale di Riforma esiste: è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 6 luglio e fa parte del Documento di Economia e Finanza pubblicato sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze. Né il DEF né il PNR sono però stati approvati dal Parlamento, dove ancora si attende di discuterlo. Anche per questo motivo il piano inviato poi alla Commissione, ad oggi, è fatto soprattutto di indicazioni generiche: “rafforzare la crescita grazie all’innovazione e alla modernizzazione del Paese, migliorare l’equità e l’inclusione sociale, promuovere e incentivare la sostenibilità ambientale”. Detto che, appunto, questo non è il piano definitivo, è certamente utile per comprendere le linee guida che l’esecutivo si è dato.
Per il perseguimento di queste finalità, si legge sul sito del Mef, il Governo intende fare leva su una serie di strumenti, tra i quali cita anche l’istruzione: “è intenzione del Governo puntare ad incrementare la spesa pubblica per la ricerca e per l’istruzione, con l’obiettivo di chiudere il gap di spesa nei confronti della media Ue e collocarci al di sopra di quel livello nell’arco temporale del programma”.
Se da un lato non può che confortare l’essere a conoscenza delle buone intenzioni del governo, dall’altro in mancanza di un piano che spieghi “come” darvi seguito resta la paura che anche questa volta si sprechi un’occasione. Adesso bisogna rinnovare radicalmente il nostro modo di guardare alle nuove generazioni, di organizzare l’economia, la scuola, il lavoro. Tutte cose che fino a oggi, diciamolo chiaramente, non sono state neanche lontanamente le priorità dei governi che si sono succeduti nel tempo. E l’Unione europea, che dovremmo imparare a considerare madre giustamente apprensiva piuttosto che ingrata matrigna, ci ha più volte richiamati sul tema. Lo ha fatto proprio attraverso il parere del Consiglio sul programma di stabilità 2020 dell’Italia. Nel documento presentato il 20 maggio si legge: “Investire nell’istruzione e nelle competenze è fondamentale per promuovere una ripresa intelligente e inclusiva e per mantenere la rotta verso la transizione verde e digitale. A tale riguardo i risultati in termini di istruzione e formazione continuano a rappresentare una sfida importante per l’Italia”. Una sfida che richiede attenzione e competenza, e che da tempo proprio l’Europa indica come traguardo prioritario dei Paesi membri. Nel corso degli anni, infatti, la Commissione europea ha indicato gli obiettivi per lo sviluppo di un’istruzione e di una formazione di eccellenza, consigliando di preferire forme di apprendimento che uniscano la parte teorica con l’acquisizione di competenze pratiche sul posto di lavoro.
Europa2020, la strategia elaborata dalla Commissione oltre 10 anni fa, aveva per esempio tra gli obiettivi l’innalzamento della quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario, ma come dimostrano gli ultimi dati Istat il nostro Paese non sta perseguendo tale obiettivo, o lo sta facendo con scarsi risultati. Stando al report Livelli di istruzione e ritorni occupazionali pubblicato dall’Istituto di statistica il 22 luglio, il quadro del nostro Paese è desolante: nel 2019 in Italia la quota di giovani laureati tra i 30 e i 34 anni è al 27,6%, 0,2 punti in meno rispetto al 2018. Mentre Paesi come la Francia, la Spagna e il Regno Unito, pur avendo già superato l’obiettivo strategico del 40%, continuano ad aumentare la loro quota di giovani laureati, il nostro Paese è ancora al penultimo posto nell’Ue, in posizione davvero isolata e seconda solo alla Romania. Il divario con la media europea è ancora più marcato se si considerano i giovani stranieri: nel 2019, in Italia, solo il 12,8% dei 30-34enni stranieri ha un titolo terziario, a fronte del 38,7% nell’Ue. Per quanto riguarda la percentuale di diplomati siamo quartultimi, 15 punti al di sotto della media europea. Abbiamo il primato in Europa per numero di giovani che non lavorano e non studiano (Neet), arrivati a 2 milioni, e il record di abbandoni precoci della scuola (Early leavers from education and training): 561mila ragazzi, il 13% del totale. Anche le prospettive occupazionali sono più deboli rispetto ai valori medi europei: la quota degli occupati tra i 30-34enni laureati italiani si ferma al 78,9%, contro un valore medio europeo dell’87,7%. Il mercato del lavoro italiano assorbe con difficoltà e lentezza il giovane capitale umano più formato del Paese.
Risulta evidente come l’Italia da decenni abbia smesso di investire sulle giovani generazioni, preferendo troppo spesso concentrare sforzi e investimenti in misure e azioni miopi e di breve corso, buone per diventare slogan da piazze, virtuali e non, ma incapaci di valorizzare il patrimonio su cui si fonda il futuro di ogni comunità: i giovani. E se, come chi scrive, rientri per età in questa categoria fa rabbia sapere che tale constatazione non è la solita litania adottata da tutte le generazioni che nel tempo hanno dovuto “sgomitare” per affermarsi nella società. Dire che la politica italiana ha deciso di non occuparsi del futuro del Paese è un dato di fatto: nell’ultima Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione la Commissione europea ha evidenziato che “gli investimenti dell’Italia nell’istruzione sono ridotti e distribuiti in modo disomogeneo tra i vari gradi di istruzione. La spesa pubblica per l’istruzione, sia in percentuale del Pil (3,8 %) che in percentuale della spesa pubblica totale (7,9 %), è stata tra le più basse dell’Ue nel 2018”. Soprattutto se ci si concentra sulla spesa per l’istruzione terziaria, ci si accorge che è la più bassa dell’Ue, appena lo 0,3 % del Pil nel 2017, ben al di sotto della media Ue dello 0,7%”.
Se l’Italia vuole sperare di riprendersi da quella che verrà ricordata come una delle più gravi crisi economiche e sociali, oltre che sanitarie, della storia deve necessariamente porre al centro dei suoi programmi il futuro delle nuove generazioni. L’importanza e la centralità del tema sono state riconosciute soprattutto dal Parlamento Ue, che diventa adesso il vero ago della bilancia. Per arrivare a un compromesso tra gli Stati membri in modo che accettassero il Recovery Fund da 750 miliardi (390 miliardi di trasferimenti e 360 miliardi di prestiti) il Consiglio ha aumentato gli sconti sul bilancio a favore di Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, ma ha tagliato i fondi ai programmi comunitari legati alla ricerca e all’educazione. Adesso, però, affinché diventi definitivo il bilancio 2021-2027 dell’Unione – cui è legato il Recovery Fund – va finalizzato un altro accordo tra la presidenza tedesca e il Parlamento Ue, autorità competente in materia di bilancio. Il presidente dell’Eurocamera David Sassoli è stato molto chiaro: sul bilancio europeo 2021-2027 “vogliamo migliorare la proposta, vogliamo dare una risposta a tagli ingiustificabili”. D’altronde sarebbe davvero assurdo voler scommettere sulle future generazioni e al contempo tagliare le risorse del bilancio per la ricerca, i giovani e l’educazione.
Nonostante le grandi pacche sulle spalle che hanno contraddistinto gli ultimi giorni della vita del governo Conte, la strada è ancora lunga. Adesso è il momento di puntare concretamente sul futuro dell’Italia, consapevoli di dover adottare un orizzonte che non si fermi alle sempre prossime elezioni. Più di ogni altra cosa, oggi non è più rinviabile un piano di miglioramento del sistema di istruzione e del collegamento scuola-lavoro, capace di coinvolgere anche tutti i possibili protagonisti, dai sindacati fino agli imprenditori. Più di ogni altra cosa, oggi le giovani generazioni si meritano che i tanti soldi messi in campo dall’Ue non vengano sprecati, ma gestiti con attenzione, competenza e lungimiranza. Altrimenti avremo sprecato per l’ennesima volta tutto lo spumante con cui abbiamo brindato agli sforzi fatti in Europa.