Formalmente Atene è uscita dal programma di assistenza finanziaria dell’Unione europea il 20 agosto dello scorso anno, ma i 4,8 miliardi che la Grecia dovrebbe ricevere da qui al 2022 sono ancora fermi a Bruxelles. Per averli, Atene deve concludere il programma di riforme deciso dall’Ue.
Poco importa che, delle 16 misure pattuite con la Grecia, ben 13 siano già state approvate. Il 12 marzo scorso, l’Eurogruppo – composto dai ministri delle Finanze dei 19 Stati membri dell’Eurozona – ha rinviato al 5 aprile la decisione sull’erogazione della prima tranche dei profitti della Bce e delle banche centrali sui bond greci, che avevano promesso di ripagare in tranches semestrali. Un miliardo di euro sarebbe stato sbloccato per revisione della legge Katseli, che, impedendo i pignoramenti delle prime case, fu giudicata nel 2015 troppo generosa verso i cittadini inadempienti che non riuscivano più a pagare i mutui. Secondo le ultime stime, la legge Katseli ha salvato dal pignoramento dell’abitazione principale circa 135mila famiglie, sulle quali graverebbero 17 miliardi di debiti con le banche, che hanno chiesto l’abolizione della misura straordinaria anche con l’appoggio del Fmi. Lo stesso Fmi che ha da poco avvertito la Grecia dei rischi che corre il suo sistema creditizio.
Il 29 marzo, con un voto a larga maggioranza, il Parlamento greco ha approvato l’esclusione dai pignoramenti delle prime case con un valore fino a 250mila euro, a condizione che il debitore abbia un reddito pari o inferiore a 12.500 euro se single, e a 20mila euro se coniugato. La riforma, proposta dal governo Tsipras, si spinge a stabilire che, nel caso in cui il debitore voglia evitare il pignoramento sulla sua abitazione, si dovrà impegnare a pagarne il 120% del valore commerciale in rate mensili con un tasso d’interesse pari all’Euribor a tre mesi, più il 2%. Condizioni stringenti, ma giudicate comunque insufficienti da Bruxelles, tanto che Atene ha dovuto stabilire che per la garanzia dei prestiti aziendali il valore dell’abitazione scenderà a 175mila euro, mentre per i prestiti commerciali, la protezione degli immobili scenderà da 130mila a 100mila euro.
L’Ue non ha concesso tempo e ha preteso che i soggetti più deboli fossero immediatamente sfrattabili. La decisione del governo greco è dovuta anche alle pressioni della Bce, che ha costretto le banche europee a svalutare i propri Npl – non performing loans, crediti deteriorati o inesigibili. L’Eurogruppo ha subito richiesto al Parlamento di Bruxelles di obbligare le banche a vendere gli Npl – facilitando così la vendita all’incanto degli immobili dati in garanzia – e di istituire mercati secondari per gli Npl, a vantaggio delle grandi banche d’investimento e dei fondi sovrani che possono così incassare il valore dei beni ipotecati più facilmente, garantendo grandi guadagni ai loro titoli. Distante anni luce dal Trattato di Roma, Bruxelles è così diventata lo scudo mascherato della grande finanza internazionale, sulla pelle delle economie reali dei territori.
Eppure, il portavoce del governo di Atene, Dimitris Tzanakopoulos, ha dichiarato che le nuove norme approvate dal Parlamento greco rappresentano “la soluzione finale al problema”. Secondo Tzanakopoulos, la misura offrirà protezione ai possessori di immobili della “classe operaia” e, al tempo stesso, una rapida riduzione dei prestiti in sofferenza nei portafogli bancari. Le parole del portavoce confermano le dichiarazioni del Commissario Ue, Pierre Moscovici, che il 4 luglio scorso annunciava: “Alla fine dei tre programmi di salvataggio la Grecia è di nuovo un Paese normale dell’Eurozona”.
In effetti La Grecia non è (e non sarà più) la stessa dopo gli anni di austerità imposti dalla troika. Mentre Atene era impegnata a pagare il suo tributo ai creditori internazionali, lo Stato iniziava una delle più grandi svendite di beni pubblici della storia europea. Le grandi aziende straniere, con la complicità dei governi interessati, hanno depredato la Grecia colpendo gli asset strategici del Paese. Nel 2011 la Commissione europea e il Fmi parlavano di circa 50 miliardi di euro da incassare dalle vendite dei beni pubblici greci una volta avviata un’intensa campagna di privatizzazione. Alla conclusione del piano di salvataggio, Atene ha incassato molto meno di quanto sperato. Come scrive Bloomberg, la vendita dei beni pubblici ha raggiunto la cifra di 4,7 miliardi di euro fra il 2011 e il 2017, cui si aggiungono circa sette miliardi di offerte vincolanti e circa 2,7 miliardi di entrate nel 2018 per progetti ancora in fase di completamento. Il governo greco, spinto dai creditori a ottenere liquidità a tutti i costi e il prima possibile, ha svenduto gran parte del suo patrimonio a prezzi spesso inferiori al valore reale. Un vero e proprio saccheggio, che ha unito tutti, da Oriente a Occidente.
Il caso più noto è stato sicuramente quello del porto del Pireo. In base all’accordo ratificato dal Parlamento greco nel luglio del 2016, il gigante cinese Cosco ha assunto il controllo del 67% dell’Autorità portuale del Pireo per una cifra pari a 368,5 milioni di euro.
La stessa Europa, quella che avrebbe “salvato” la Grecia, ha dato il via libera alle proprie aziende per investire in Grecia sfruttando la fine del monopolio statale. La Francia, già ai tempi del primo ministro Manuel Valls, ha siglato alcuni importanti accordi con la Grecia per l’ingresso delle aziende pubbliche francesi nel settore energetico e idrico. L’Italia, in particolare con il gruppo Ferrovie dello Stato, è già intervenuta per siglare accordi sulla rete ferroviaria greca. Non poteva mancare la Germania, che molti considerano ormai il vero dominus dell’economia ellenica. La compagnia tedesca Fraport ha firmato nel 2015 un accordo da 1,2 miliardi di euro per la gestione di 14 aeroporti. La Germania si è assunta così il pieno controllo per almeno 40 anni di tutti gli aeroporti turistici più importanti della Grecia. Anche il 66% di Desfa Sa (gestore della rete di gas naturale) è stato venduto a un consorzio europeo composto da Snam, Enagas International e Fluxys Sa per 535 milioni di euro. E mentre Deutsche Telekom ha completato l’acquisto del 5% della Hellenic Telecom per 284,1 milioni di euro, il governo Tsipras ha selezionato Glencore Energy Uk e Vitol Holding B.V. per l’acquisto di una quota del 50,1% della Hellenic Petroleum, tra i maggior raffinatori di petrolio del Paese, per circa mezzo miliardo di euro.
L’effetto della cura europea è che la Grecia si trova sempre più con le spalle al muro. Basta dare uno sguardo ai dati, arrivati a novembre, della Commissione Diritti Umani del Consiglio d’Europa: “È davvero difficile,” cita il rapporto, “affermare che oggi vada tutto bene.” I servizi sanitari sono stati tagliati di quasi il 75% dal 2009 a oggi, l’istruzione non è più garantita a tutti i cittadini, le pensioni sono state ridotte del 50%, il tasso di suicidi è aumentato del 40%, i senzatetto sono quadruplicati e la povertà colpisce più del 30% della popolazione. In forte aumento i casi di Hiv e di tubercolosi, così come i disturbi mentali.
Quanto è stato fatto in Grecia in questi anni non riguarda solamente le tabelle finanziarie, ma coinvolge i basilari principi dei diritti dell’uomo. Il Fmi vede ancora “rischi crescenti” per l’economia greca. Peter Dolman, capo della missione del Fmi per la Grecia, ha ribadito che “Atene deve ora ridurre la base esentasse” facendoci rientrare anche chi guadagna meno di 6mila euro l’anno. Il senso di umanità e solidarietà, propagandato dall’Europa del Trattato di Roma, si è perso nei corridoi di Bruxelles e di Francoforte. I piani di austerità forse sono finiti per la Grecia, ma non c’è un elemento da cui poter ricominciare in questa Europa. Perché l’austerità questa volta ha ucciso per davvero.