Nel 2006, quando Matteo Salvini era consigliere comunale a Milano con la Lega, propose un “Decalogo delle libertà” da allegare alla domanda di cittadinanza per i migranti. Le prime tre domande erano: “Lei impedirebbe a sua moglie o a sua figlia di vestirsi come le altre donne italiane? Cosa pensa dell’affermazione secondo cui la donna deve obbedire al marito, e che questo può picchiarla nel caso lei non ubbidisca? Ritiene ammissibile che un uomo tenga chiusa in casa la moglie o la figlia per evitare che susciti vergogna in pubblico?”. Sempre quell’anno si era consumato, in provincia di Brescia, l’omicidio di Hina Saleem, una giovane donna pakistana uccisa dal padre e dai due cognati per essere andata contro il volere della famiglia, che l’aveva destinata a un matrimonio combinato. In questo periodo, la Lega – e molti altri partiti di destra ed estrema destra in tutta Europa – cominciarono a usare la retorica dell’uguaglianza di genere (e a volte del femminismo) per portare avanti le proprie posizioni xenofobe e razziste, in particolare islamofobe.
Il fenomeno è stato chiamato “femonazionalismo” e indagato dalla sociologa Sara R. Farris nell’omonimo libro recentemente pubblicato da Alegre. “Femonazionalismo” è l’abbreviazione di “nazionalismo femminista e femocratico” e fa riferimento alla strumentalizzazione dei temi femministi da parte di partiti e politici nazionalisti nell’ambito di campagne contro i migranti. Allo stesso tempo, allude anche alla partecipazione delle stesse femministe a questa stigmatizzazione. In Italia, l’esempio più celebre è Oriana Fallaci che, pur non essendosi mai definita femminista, è considerata un’icona di questo movimento. Nelle pubblicazioni più tarde come La rabbia e l’orgoglio (del 2002) e La forza della ragione (del 2006), ha infatti assunto posizioni molto dure nei confronti dell’Islam e dell’immigrazione, dal momento che considerava quella musulmana una cultura barbara, che andava fermata in quanto ostile alle donne e al progresso.
Con il lasciapassare ideologico di intellettuali femministe, il cui pensiero viene strumentalizzato, il femonazionalismo viene portato avanti in primo luogo da partiti reazionari e conservatori, ma anche da alcuni soggetti più vicini alle posizioni neoliberiste, come alcuni enti statali per l’uguaglianza di genere, che spesso in nome della “libertà” – intesa in senso occidentale – avvallano posizioni xenofobe con la giustificazione della tutela delle donne. Secondo Farris, questa strumentalizzazione dell’uguaglianza di genere si è intensificata intorno agli anni Duemila, a causa della convergenza di alcuni fattori storici: l’aumento delle migrazioni femminili dovuto alla diffusione dei ricongiungimenti familiari, l’attentato alle Torri Gemelle, e alcuni casi di cronaca dal forte impatto mediatico. A tutto questo si aggiunge la volontà di modernizzazione dei partiti di destra e ultradestra, desiderosi di mostrarsi all’avanguardia per ottenere consensi pur portando avanti politiche conservatrici.
Per quanto riguarda l’Italia, negli anni Novanta l’immaginario pubblico nei confronti delle straniere si attesta su due archetipi, quello della badante (proveniente dall’Est Europa e dall’Asia) e quello della vittima di tratta (proveniente dall’Africa subsahariana). Negli anni Duemila a queste “categorie” si aggiunge quella della donna musulmana, vittima “per eccellenza” di violenza domestica, mutilazioni genitali e matrimoni combinati. L’insistenza mediatica su casi come quello di Hina Saleem (su cui, ad esempio, Daniela Santanché, allora deputata di Alleanza Nazionale, costruì la propria campagna elettorale), Sanaa Dafani e più recentemente Sana Cheema, residente a Brescia e uccisa in Pakistan, hanno alimentato questo pregiudizio vittimizzante. Di conseguenza, le destre hanno cominciato ad adottare il tema dei diritti delle donne come mai era successo in precedenza, dato che la destra radicale è sempre stata caratterizzata da un forte antifemminismo e da una visione patriarcale del ruolo della donna nella società.
La Lega Nord, ad esempio, sin dai tempi in cui governava con Berlusconi, ha adottato la retorica del “proteggere le nostre donne” dalla minaccia straniera. Il machismo è sempre stato una caratteristica molto importante per questo partito, esemplificato nell’idealtipo del “maschio padano”, forte, lavoratore e onesto. La naturale conseguenza è l’assunzione del ruolo di “salvatore” delle donne – italiane e bianche, ovviamente – dall’esatta nemesi di questo stereotipo, cioè l’immigrato violento, sfaticato e opportunista. Salvini, ad esempio, parla di violenza di genere praticamente solo quando a commettere il reato è una persona straniera o di origine straniera, dicendo di voler proteggere “la nostra cultura e le nostre donne”. L’enfasi sulla tutela delle donne viene quindi usata in modo strumentale da un partito tradizionalmente maschilista, con l’aggravante di escludere le donne non italiane.
In Francia la leadership di Marine Le Pen nel Front National, oggi Rassemblement National, è riuscita a riabilitare un partito dal passato machista presentandosi come una figura emancipata. In quanto donna, Le Pen è riuscita a strumentalizzare il discorso di affermazione della sua identità femminile con grande efficacia. Come spesso accade, “se lo dice una donna” è il modo più rapido per assicurare la validità delle proprie istanze, anche se queste non portano benefici alla causa femminista. La politica, ad esempio, è contraria all’istituzione di un ministero delle Pari opportunità, perché non ritiene che le donne siano una “specie protetta” e in un’intervista ha detto di potersi definire “femminista”, se questo significa proteggere i diritti delle donne dalla minaccia islamica. Il “modello Le Pen” è quello che sta cercando di esportare Giorgia Meloni in Italia, sebbene con qualche differenza: Le Pen, durante la campagna per le presidenziali, si è spesso espressa in favore della laicità, valore molto importante in Francia – anche se l’ha sempre fatto in senso anti-musulmano. Meloni, invece, insiste sempre sul suo essere cattolica, esprime posizioni fortemente antiabortiste (Le Pen su questo è più moderata, dal momento che non potrebbe permettersi di perdere consensi su un tema così sentito in Francia) e ha dimostrato pubblicamente il suo sostegno a organizzazioni di stampo oltranzista come il World Congress of Families, a cui ha partecipato.
Nonostante questo, Meloni non sembra considerare problematica la visione della donna che promuovono tali gruppi, ma anzi, proprio come Le Pen, fa della sua identità di genere una questione di orgoglio, come ha dimostrato il suo discorso: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” – che non ha però avuto l’effetto sperato ed è stato rovesciato in una hit ballata in tutti i locali gay. Da tempo infatti, negli ambienti della destra ultracattolica, ci si è resi conto che la promozione del modello di “famiglia naturale” è in contrasto con l’autonomia conquistata dalle donne. Allora quello che si fa è favorire la visione della donna come madre e angelo del focolare, in salsa “femminista” (con molte virgolette). D’altronde anche il “progressista” papa Bergoglio ha detto, di fronte ai tempi che corrono, che “La donna è colei che dà armonia al mondo, non è per lavare i piatti”.
Portavoce di questa retorica nel nostro Paese è Costanza Miriano, autrice che nei suoi libri depreca la figura della donna moderna – multitasking, che si divide tra lavoro e faccende domestiche, sempre stanca, stressata e indaffarata – paragonandola a una presunta età dell’oro in cui le donne stavano meglio perché dovevano occuparsi unicamente del benessere della propria famiglia. Miriano quindi propone un nuovo modello di femminilità, che coniuga quello tradizionale e quello emancipato, rappresentato dalla donna che per sua scelta preferisce la famiglia sopra ogni altra cosa.
Ovviamente questo modello non mette minimamente in discussione l’ordine costituito e, pertanto, ha ben poco di femminista. Anzi, assume come premessa che le donne siano naturalmente portate a essere madri e mogli, perpetrando l’idea che il ruolo della donna nella società sia solo riproduttivo e non produttivo. La libera scelta a cui si richiama, quindi, è soltanto illusoria: sappiamo che in Italia quasi 4 donne su 10 dipendono economicamente dal marito; e 3 donne su 10 non hanno un conto corrente proprio. Cosa succede in queste situazioni in caso di divorzio o, peggio ancora, in caso di violenza domestica? Chi porta avanti queste idee non se lo pone nemmeno il problema, dato che è contrario alle separazioni. Come abbiamo visto con il Ddl Pillon, figlio dello stesso milieu cattolico, uno degli obiettivi del governo gialloverde era quello di rendere più difficile il divorzio, a svantaggio soprattutto delle donne. Nel farlo, però, il Ddl si nascondeva dietro parole come “uguaglianza, conciliazione, parità, bigenitorialità”.
Il femonazionalismo non riesce a essere abbastanza convincente da attirare le femministe, ma non è certo quello l’elettorato a cui punta chi lo utilizza. Piuttosto, si rivolge a quei cittadini che sono vicini ai valori tradizionali, ma non così estremisti da appoggiare misure apertamente sessiste o retrograde. Non ultimo, Farris fa notare come l’uso del femminismo e dell’uguaglianza di genere nei discorsi nazionalisti vada inteso non solo come una “copertura ideologica”, ma anche come un modo per alimentare l’idea che gli uomini e le donne migranti debbano avere un ruolo subalterno nella società. Questo è particolarmente evidente nella cosiddetta “integrazione” delle migranti, che ancora troppo spesso vengono inquadrate in quegli stereotipi di badanti, vittime di tratta e di violenza domestica. Un’analisi dei programmi di integrazione rivolti alle donne ha infatti mostrato come la maggior parte di essi indirizzasse le donne a ruoli di cura o di lavoro domestico. “Combattere il femonazionalismo richiede allora non solo il suo rifiuto ideologico”, conclude Farris “ma anche una concreta analisi dei suoi fondamenti economico‐politici”.