Il 26 settembre è stata una data storica per la Germania, non soltanto perché ha sancito ufficialmente la fine della lunga esperienza di Angela Merkel ai vertici della Cancelleria federale, ma anche per il clamoroso risultato del referendum berlinese relativo all’esproprio di oltre 240mila immobili a uso residenziale attualmente di proprietà di una decina di colossi del real estate. Il “Sì” ha ottenuto una vittoria netta, incassando il 56,4% delle preferenze degli elettori e fornendo una delle risposte più significative e radicali alla gentrificazione che, ormai da più di un decennio, ha investito un gran numero di città europee.
La raccolta delle firme era iniziata ad aprile e ha superato in pochi giorni la soglia d’ammissibilità delle 171mila sottoscrizioni necessarie per l’indizione della consultazione; tuttavia, l’iniziativa era stata lanciata già nel 2018, quando ebbe inizio la campagna Deutsche Wohnen Enteignen (che significa letteralmente “espropriamo Deutsche Wohnen”, una delle società immobiliari più pervasive di Berlino, titolare di più di 157mila unità residenziali, il 76% delle quali concentrate proprio nella capitale). La proposta di esproprio si fonda sull’articolo 15 della Costituzione tedesca – che stabilisce che “La proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della nazionalizzazione, alla collettività, o essere sottoposti ad altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell’indennizzo” – e prevede il passaggio degli immobili nella disponibilità dell’amministrazione locale e la loro riconversione in unità abitative di edilizia residenziale pubblica da concedere a canoni calmierati, ben al di sotto dei prezzi di mercato.
Anche se alcune testate hanno bollato il successo del referendum come una “svolta sovietica”, la vittoria del “Sì” ha solide e condivisibili ragioni, che possono essere comprese osservando i numeri della crisi abitativa berlinese: secondo una ricerca condotta dall’Istituto Guthmann, negli ultimi 5 anni gli affitti a Berlino hanno infatti subito un aumento del 46%, in un contesto urbano in cui più dell’80% della popolazione non ha una casa di proprietà e le società private possiedono il 37% delle abitazioni in città. Il referendum non è vincolante e spetterà all’amministrazione agire in concreto per stimolare politiche che possano tutelare il diritto all’abitare (un risultato che appare difficile da raggiungere dato che Franziska Giffey, la neoeletta sindaca berlinese, ha espresso la propria contrarietà a dare esecuzione alla volontà popolare). Tuttavia, a prescindere da come andrà a finire, la grande adesione dei cittadini berlinesi e la rilevanza politica indiscutibile dell’esito referendario potrebbe rappresentare un esempio importante per altre capitali e grandi città europee interessate da dinamiche simili, tra cui Milano.
Anche se il contesto italiano è caratterizzato da una cultura dell’abitare che differisce per molti aspetti da quella tedesca – dato che tende a privilegiare l’acquisto di case di proprietà – il capoluogo lombardo condivide con Berlino il nodo indistricabile degli affitti insostenibili. Trovare appartamenti in locazione di buona qualità e a prezzi accessibili, soprattutto per le categorie più giovani o a economicamente fragili, è diventato quasi impossibile, anche a causa di un mismatch evidente tra redditi percepiti e costi connessi all’abitare, in entrambi i casi i più alti del Paese: a fronte di uno stipendio netto medio di circa 1900 euro al mese, che cala Milano nei panni della città più ricca d’Italia, fanno riscontro tariffe di locazione talmente esose da temere pochi confronti in Europa.
Secondo l’HousingAnywhere European Rent Index, prima della pandemia, con un prezzo medio di 825 euro, Milano occupava il secondo posto tra le città europee più care per l’affitto di un monolocale, superando Berlino (812 euro) e venendo preceduta soltanto da Barcellona (830 euro). Milano è sempre più una città a misura di ricco: infatti, anche se negli ultimi 12 mesi i prezzi dei posti letto sono scesi del 9%, i canoni rimangono comunque altissimi (una stanza singola costa in media 470 euro al mese e un posto in doppia circa 285 euro, ovviamente al netto delle utenze). Inoltre, come Berlino, anche Milano soffre di un’eccessiva concentrazione delle proprietà immobiliari: secondo la ricerca I grandi proprietari milanesi di edilizia residenziali: questi sconosciuti, condotta dal Politecnico nel 2017 e curata dal docente di pianificazione urbanistica Luca Gaeta, quaranta grandi player detenevano in quel momento il 10% del mercato, potendo contare su una disponibilità pari a 17.858 alloggi. A patire di più la difficoltà di trovare una situazione abitativa dignitosa in città è soprattutto quella fascia di reddito grigia che si barcamena poco sopra la soglia di povertà ma, al contempo, guadagna troppo poco per pagare i canoni che il mercato libero riserva al ceto medio: la situazione reddituale di queste persone, troppo “ricche” per avere accesso alle graduatorie d’assegnazione delle case popolari ma troppo povere per potersi permettere un affitto standard, preclude loro ogni possibilità di accedere alle 58mila abitazioni che compongono il vastissimo patrimonio di edilizia residenziale pubblica milanese, peraltro il più nutrito d’Italia. Tuttavia, nonostante le proporzioni senza eguali su scala nazionale, l’offerta di alloggi ERP di Milano risulta comunque largamente insufficiente se rapportata al reale fabbisogno. Tanto per rendere conto dello squilibrio, nel 2020, a fronte di quasi 15mila nuclei familiari che hanno presentato domanda per l’assegnazione di alloggi popolari a Milano, sono state rese disponibili appena 560 unità abitative.
A esasperare il quadro abitativo ha contribuito anche la trasformazione di Milano in un rifugio privilegiato di capitali internazionali: da tempo le grandi holding globali hanno esteso le proprie mire sul patrimonio immobiliare della città, portando a compimento una serie di acquisizioni che ha incentivato quel processo noto come “finanziarizzazione del mattone”. Questa tendenza ha subito un’accelerazione nel 2015, all’indomani di Expo, ed è resa ormai evidente dall’offensiva senza quartiere portata avanti dai colossi americani del real estate, tra cui spicca soprattutto la compagnia texana Hines, animata dal desiderio di conquistare il centro di Milano. A dimostrarlo sono le sue recenti acquisizioni: a maggio, la società ha finalizzato l’accordo preliminare per l’acquisizione dell’immobile di via Borgospesso 15, dove ha in cantiere la realizzazione di 70 appartamenti destinati all’affitto breve; un mese dopo la società ha poi concluso l’acquisto di tre complessi immobiliari oggi vuoti, due uffici e un hotel situati tra via Washington e il Naviglio Grande, aree destinate a ospitare circa 200 appartamenti da concedere in affitto a lungo termine. Sempre a giugno, nell’ambito della seconda edizione di Reinventing Cities, Hines si è aggiudicata in via definitiva la gara per l’acquisizione del Nodo Bovisa a Milano con il progetto “MoLeCoLa”, ponendosi alla testa di un intervento di rigenerazione urbana che si estende su un’area di oltre 90mila metri quadrati e prevede investimenti per 200 milioni di euro.
Queste storture non sono il frutto del caso, ma il risultato della consolidazione di un nuovo paradigma in cui la casa ha cessato di essere considerata un diritto primario, trasformandosi in un bene di consumo da posizionare sul mercato per attrarre capitali e iniezioni di liquidità e aprendo la strada a disuguaglianze sociali, allo svuotamento dei centri storici e a crisi demografiche sempre più marcate (anche da questo punto di vista, Milano è un esempio: nel solo 2020, complice la pandemia, ha perso infatti 13mila residenti). Questa degenerazione che non è passata inosservata neppure agli occhi delle Nazioni Unite, che hanno condannato le pratiche commerciali predatorie dei giganteschi fondi di private equity e di investimento che stanno raccogliendo case a basso reddito in tutto il mondo, affermando che la finanziarizzazione degli alloggi è contraria ai diritti umani. Per tutti questi motivi, il referendum sugli espropri di Berlino dovrebbe rappresentare un esempio da prendere in considerazione, invece che fare ironia: la vittoria del “Sì” ha dimostrato che le città non sono poli minerari da cui estrarre valore secondo logiche predatorie, ma luoghi in cui vivere, possibilmente bene. I berlinesi hanno ricordato a tutto il mondo che le città sono – o dovrebbero essere – di chi le abita.