In questi mesi schizofrenici in cui c’è chi fatica a distinguere uno Stato aggredito da quello aggressore, perdura la sospensione dell’incredulità anche di fronte a fenomeni più che bizzarri, come il ruolo autoassegnato, e da molti legittimato, del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nelle vesti di paciere moderato. Attivatosi come mediatore tra Kiev e Mosca, al momento con scarsi risultati, assomiglia più a un cavallo di Troia nella Nato, considerando che acquista missili da Putin e ostacola l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’organizzazione di cui fa parte il suo Paese. Per non farsi mancare nulla, approfittando dei riflettori puntati sul conflitto in Ucraina, ha ripreso ad attaccare i curdi e consolidare il suo potere interno, tra giornalisti arrestati, accentramento totale dei poteri e libertà dell’opposizione di fatto cancellata. Eppure per molti commentatori occidentali è diventato un interlocutore affidabile o addirittura uno statista da applaudire.
Non c’è da stupirsi se il principale endorsement alla Turchia arrivi dal professor Alessandro Orsini, una delle figure più controverse del panorama mediatico italiano, salito alla ribalta in seguito all’invasione russa in Ucraina. Attraverso un articolo e diversi interventi televisivi, Orsini ha affermato che la Turchia è stata la nazione che ha combattuto maggiormente l’Isis, e che in Italia c’è disinformazione sull’argomento. Ha rincarato la dose parlando di cattiva informazione anche sulla Corea del Nord, sulla quale già nel 2017 dichiarava: “Kim Jong Un non è un pazzo, è un uomo intelligente e il suo ragionamento strategico rasenta la perfezione”. Tralasciando la sua evidente passione per le autocrazie, l’affermazione sulla Turchia e l’Isis è falsa.
Nel 2014 il quotidiano turco Cumhuriyet pubblicò uno scoop basato su intercettazioni telefoniche dove emergeva un accordo tra i servizi segreti di Ankara e l’Isis, favorito dal jihadista turco Mustafa Demir, per il passaggio di camion carichi di armi al confine tra Turchia e Siria. Nello stesso anno al Parlamento europeo venne tenuta una discussione sul report dell’Ong Conflict Armament Research (CAR) nel quale veniva documentata la provenienza delle armi e delle munizioni usate dall’Isis in Siria e in Iraq. Il report, confermato dal sistema iTrace finanziato dall’Ue, citava la Turchia tra i Paesi che fornivano le armi all’Isis. Inoltre, un dossier del Rojava Center for Strategic Studies ha spiegato nel dettaglio alcuni accordi economici-militari tra Ankara e l’Isis, dal supporto finanziario al commercio di contrabbando del petrolio, passando per i già citati invii di armi. Come se non bastasse, la Turchia ha attaccato e continua ad attaccare le milizie curde, ovvero quelle che realmente, checché ne dica Orsini, hanno dato il contributo maggiore nella lotta contro l’Isis.
Lo scorso mese Erdogan ha iniziato l’ennesima campagna contro i curdi in Siria e in Iraq, dichiarando: “Gli spaccheremo la testa”. Così sono ripresi i bombardamenti, e secondo l’Hpg (Forze di difesa del popolo curdo) sono state usate dai turchi armi chimiche proibite dalla Convenzione di Ginevra. L’azione di Erdogan sembra quasi un tentativo di riconquistare con la forza i territori dell’ex impero ottomano, come la provincia irachena settentrionale di Mosul, campo di battaglia nel quale i peshmerga curdi hanno bloccato l’avanzata dell’Isis, così come a Raqqa o a Kobane. Erdogan non vuole soltanto portare avanti un’offensiva espansionista, ma cancellare l’identità curda e le sue forme politiche create durante questi anni di guerra, come il confederalismo democratico nato nel Rojava, che spaventa il leader turco perché si basa sulla parità di genere, sulla lotta al capitalismo, sui diritti civili e sull’internazionalismo. I modelli presi come ispirazione dai curdi sono l’ecologia sociale e il municipalismo libertario di Murray Bookchin e l’esperimento della Comune di Parigi del 1871.
Si tratta di due universi agli antipodi. Se Erdogan lo scorso anno ha fatto uscire la Turchia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, il confederalismo democratico dei curdi prevede l’abolizione del patriarcato, con le donne che nel Rojava partecipano in modo attivo alla vita politica e sociale, hanno una propria unità militare (Ypj) che ha combattuto in prima linea contro l’Isis e anche la Mala Jin, la casa della donna, dove viene fornito sostegno alle donne vittime della violenza maschile. La Turchia che si riconosce e vota Erdogan è invece più legata all’ortodossia islamica, e considera una minaccia qualsiasi accenno di progressismo nel Medio Oriente. Avendo il secondo esercito più grande della Nato, Erdogan ha ricevuto diversi aiuti dai suoi alleati. Il principale è arrivato nell’ottobre del 2019, quando Donald Trump ritirò le truppe statunitensi presenti nel Nord-Est della Siria, territorio riconquistato dai curdi dopo aver arginato l’Isis, lasciando via libera a Erdogan per estromettere i curdi con la scusa di creare una safe zone di 400 chilometri a Est del fiume Eufrate dove inviare i profughi siriani entrati in Turchia dal 2011. Gli Stati Uniti prima hanno usato i curdi come scudo contro l’Isis, poi li hanno consegnati all’offensiva della Turchia, che li ha attaccati usando anche armi italiane. La Farnesina nel solo 2018 aveva autorizzato la vendita di armi alla Turchia per un valore di 360 milioni di euro.
La complicità dell’Occidente deriva anche da un ricatto che la Turchia usa verso l’Europa, legato al suo ruolo di argine per i migranti. Il 18 marzo 2016 è infatti stato firmato un accordo tra Turchia e Unione europea nel quale Bruxelles ha pagato sei miliardi di euro per impedire l’immigrazione di massa dei migranti siriani presenti in Turchia verso le frontiere comunitarie. L’arma del ricatto viene usata anche in queste settimane da Erdogan per l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato. Il leader turco accusa le due nazioni di ospitare membri del PKK curdo, considerati da Ankara (e da Unione europea e Stati Uniti) come un’organizzazione terroristica.
Il nodo Turchia non riguarda soltanto la politica internazionale, ma pone al centro della riflessione il tema della presenza nella Nato di un Paese che ha smembrato i pilastri della democrazia per trasformarsi in una democratura sempre più incline al passaggio successivo, ovvero un’autocrazia. Se persino Mario Draghi si è spinto a definire Erdogan “un dittatore”, le risposte vanno cercate nei meccanismi che gli hanno permesso di accumulare così tanto potere interno da riscrivere la Costituzione turca a suo piacimento. Una delle forme di controllo usate da Erdogan è quella della repressione. Il dissenso non è tollerato: negli ultimi anni sono stati arrestati più di 1600 avvocati e magistrati, così come centinaia di studenti e accademici che avevano manifestato contro le nomine di partito all’interno del mondo universitario turco. Il parlamento è di fatto diventato un organo di rappresentanza senza potere decisionale, ed Erdogan ha messo i suoi fedelissimi anche nei ruoli di comando dei servizi segreti. Chiunque provi a ribellarsi al sistema-Erdogan rischia il licenziamento o l’arresto, anche tra i membri dell’esercito, della polizia e tra i dipendenti pubblici.
Persino Internet viene monitorato per scovare gli attivisti critici contro il leader turco, che ha definito Twitter “La peggiore minaccia per la società”. La censura di Stato riguarda anche i giornalisti, perseguitati se contrari al pensiero del governo, con l’International federation of journalists che ha definito la Turchia “la più grande prigione al mondo di giornalisti”. Anche i diritti della comunità LGBTQ+ sono costantemente violati, come dimostra la recente irruzione della polizia all’Università di Istanbul durante il Pride, con oltre 70 arresti e docenti feriti. Il tutto perché il Pride è vietato in Turchia da otto anni.
La politica conservatrice e oscurantista di Erdogan appare distante dai valori affermati o in fase di acquisizione in gran parte dei Paesi occidentali, e le rappresaglie contro le minoranze – interne ed esterne – mettono la Turchia in una posizione di estraneità di fronte a quello che si dovrebbe prefigurare come un serbatoio di valori condivisi dalla comunità della Nato. Ci sono troppe ambiguità nella Turchia di Erdogan, e tollerare, o addirittura lodare, nel 2022 un Paese oppressivo vuole dire ignorare gli avvenimenti degli ultimi anni. Se gli endorsement ad Ankara arrivano da titolati professori esperti di politica internazionale significa che abbiamo un problema sulla concezione di società e diritti.