L’Italia è un paese paradossale: piuttosto che affrontare di petto un problema – cronico e palese – si preferisce aggirarlo, inventandosi fantasiose soluzioni che susciterebbero ilarità se non fossero state proposte come serie. Così accade che il leader delle Sardine Mattia Santori, a colloquio con Giuseppe Provenzano, il ministro per il Sud, lo scorso 11 febbraio abbia proposto una sorta di Erasmus tra atenei del Nord e del Sud per sanare una frattura sociale ed economica antica, ma sempre più profonda del Paese.
Forse, in maniera grottesca e involontaria, Santori ci ha visto giusto. A guardare il sistema scolastico italiano sembra proprio che l’Italia sia attraversata da un confine che la separa in due Stati diversi, tracciato dai disservizi cronici delle scuole del Sud. Il sistema scolastico del Meridione opera in una condizione di difficoltà che si esprime su più fronti, con carenze strutturali che influiscono sull’efficacia dell’intervento educativo e hanno ricadute sull’intero tessuto sociale. Quindi, nonostante la proposta di Santori possa sembrare l’ennesima carica di dabbenismo che pretende di risolvere problemi radicati e decennali con la retorica del “volemose bene”, la proposta dell’Erasmus al Sud potrebbe in effetti essere il modo migliore per far comprendere a tutti il vero motivo per cui la questione meridionale non è mai stata risolta in 159 anni di storia.
Andare a scuola nel Mezzogiorno è una vera e propria impresa, a partire dall’agibilità delle aule. Gli istituti scolastici sono spesso fatiscenti, non adatti per classi numerose. Secondo il rapporto Svimez del 2019, al Nord il 54% degli istituti non ha il certificato di agibilità, ma al Sud questa percentuale sale quasi al 72%. Allo stesso modo il 61% dei complessi scolastici non ha spazi adeguati, come palestre o piscine, per svolgere le attività fisiche previste dai programmi ministeriali, e l’85% non è provvisto nemmeno di mensa (65% al Nord).
Al Meridione, quindi, i ragazzi vanno più spesso a scuola in luoghi non sicuri, spesso a rischio della loro incolumità, come ha dimostrato il caso del crollo del soffitto di una scuola materna a Eboli nel maggio 2018. La carenza di strutture ricettive è anche il motivo per cui l’84% delle scuole del Mezzogiorno non prevede il tempo pieno, con tutte le ricadute che seguono sul tasso di occupazione femminile. La scuola meridionale continua a scaricare sulle famiglie aspetti dell’intervento educativo e di sicuro non accompagna lo studente in un clima che lo stimoli allo studio, o a guardare positivamente all’istituzione scolastica.
È chiaro che le carenze strutturali abbiano ripercussioni gravi sul rendimento degli studenti. Secondo il report INVALSI del 2019, elaborato sugli esiti delle prove somministrate durante l’anno scolastico, le performance degli studenti del Sud sono inferiori a quelle dei colleghi del Nord in quasi tutti gli ambiti e in tutte le fasce anagrafiche. Al Nord circa il 30% degli studenti di terza media non raggiunge un buon livello di comprensione del testo, mentre nel Sud e nelle isole il dato sale al 46%. Una percentuale che si mantiene costante anche tra i maturandi nelle regioni meridionali, mentre in quelle settentrionali scende al 20%. Non sono buone nemmeno le performance in matematica: alla fine delle medie non padroneggia la materia il 32% degli studenti del Nord, contro il 56% dei ragazzi del Sud. Un divario che cresce in quinta liceo: se nel Settentrione il dato scende al 27%, nel Meriodione e nelle isole la matematica resta un mistero per il 60% degli alunni.
Non va meglio con l’inglese. Nella prova di ascolto, la percentuale di alunni che in quinta elementare non raggiunge il livello A1 – il grado di conoscenza stabilito dal ministero per le scuole elementari – è tra il 12% e il 13% nelle regioni dell’Italia settentrionale e centrale, ma oscilla tra il 20% e il 26% nel Sud e nelle isole. Criticità che sono destinate ad aggravarsi lungo il percorso di studi: la quota di studenti che in terza media non arriva al livello A2 è del 30% al Nord, ma raddoppia al Sud. Gli studenti maturandi che conoscono poco l’inglese – e non arrivano al livello B2 – sono un già grave 50% al Nord, ma si impennano con l’85% del Sud.
Se il percorso scolastico dei giovani meridionali è così accidentato non stupisce che molti siano poco invogliati allo studio. Abbandonare gli studi al Sud appare la normalità, tanto che i Neet – i giovani tra il 15 e il 29 anni che non studiano e non lavorano –, in un Paese come l’Italia che ne registra il 23% contro la media europea del 12%, abbondano proprio nelle regioni del Mezzogiorno. Secondo i dati dell’Unicef, un giovane su tre tra i venti e i trent’anni, al Sud non lavora, con una percentuale del 34% che doppia il 15% delle regioni settentrionali. Il quadro più drammatico si registra in Sicilia (38%), Calabria (36%) e Campania (35%).
Se molti giovani sono vittima dell’immobilismo, per gli altri che continuano gli studi spesso la soluzione è emigrare. Da Napoli in giù, molti di coloro che vogliono continuare a studiare dopo il liceo sono già costretti a fare “un Erasmus” al Nord lungo anni. Svimez segnala che negli ultimi dieci anni circa 900mila giovani nella fascia di età 15-34 anni ha abbandonato il Meridione. Un esodo per motivi di studio o di lavoro diretto all’estero o nelle grandi città e atenei del Nord.
Il divario nel campo dell’istruzione non si colma neanche a livello universitario. Secondo il World University Ranking – il più autorevole sistema di valutazione degli atenei su scala globale – le università italiane non svettano nel loro complesso, ma a chiudere la classifica sono sempre quelle del Sud. La prima università a comparire in classifica è la Scuola Sant’Anna di Pisa al 153esimo posto, seguita dalla Normale al 161esimo. Più in basso si trovano l’Alma Mater Studiorum di Bologna in posizione 180, e il San Raffaele di Milano e l’università di Padova oltre il duecentesimo posto. Fa capolino La Sapienza quasi al 300esimo e poco dopo l’università di Napoli, ma il grosso degli atenei del Sud si attesta dopo la 600esima posizione, mentre gran parte delle università settentrionali si trova tra la 300esima e la 400esima posizione. Non può essere altrimenti in atenei spopolati dall’esodo verso destinazioni più appetibili e quindi valutati come di serie B, con una conseguente riduzione delle risorse messe in bilancio da parte del Ministero dell’Istruzione per il loro mantenimento.
La proposta della Sardine sembra dettata anche da una sorta di rassegnazione, come a dire che il divario tra Nord e Sud non si possa più colmare. Allora tanto vale prenderlo come già dato e spingere gli studenti a “fuggire”, piuttosto che investire in politiche di largo respiro per appianare le differenze e permettere ai ragazzi del Sud di studiare nelle loro regioni. Per come si configura il sistema scolastico meridionale quella della fuga verso gli atenei del Nord non è una scelta, ma una via obbligata se si vuole ricevere un’istruzione adeguata.
Non basterà riequilibrare i flussi in uscita suggerendo agli studenti del Nord di farsi un “Erasmus al Sud”, una definizione che sembra sottolineare in modo velatamente razzista l’alone esotico dell’esperienza. Bisogna fare in modo che il capitale umano del Mezzogiorno rimanga in quei luoghi che spesso fanno poco per trattenerlo, e l’unico modo ragionevole per ottenere questo risultato è salvaguardare l’istituzione scolastica, investendo in un settore con tutto il potenziale per creare sapere e stimolare talenti. L’obiettivo non dovrebbe essere rimarcare le differenze tra Nord e Sud, ma ricordarsi che il sistema scolastico italiano è uno, su base nazionale, e dovrebbe essere in grado di garantire a tutti i suoi cittadini le stesse possibilità per costruire il loro futuro, senza obbligare metà dei giovani del Paese a fuggire altrove, inseguendo una flebile speranza negata nelle regioni di origine.