Nei periodi di crisi si tende a dare per scontato ciò che si ha, sminuendo l’importanza delle conquiste del passato recente. I partiti nazionalisti sognano di chiudere le frontiere e di indebolire l’autorità dell’Unione europea, incontrando il favore dei tanti che hanno dimenticato come sia nata e come abbia influenzato le nostre vite negli ultimi decenni. La pace tra i Paesi membri, una relativa stabilità monetaria, la libertà di circolazione e di impiego tra i suoi confini, la protezione di cui si gode in quanto cittadini europei in qualsiasi ambasciata di uno Stato dell’Unione, un mercato ricco basato sul libero scambio, norme condivise per la sicurezza ambientale e alimentare, una moneta unica e il roaming telefonico sono solo alcuni dei traguardi raggiunti negli ultimi decenni. E poi l’Erasmus, il programma universitario nato nel 1987 per permettere ogni anno di viaggiare a migliaia di studenti, che solo in Italia nel 2018 ha fatto registrare 38mila partenze e 26mila arrivi dall’estero. Acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, porta il nome del filosofo e viaggiatore Erasmo da Rotterdam e contribuisce da più di trent’anni – insieme ai viaggi low cost e alla diffusione capillare di internet – a costruire il senso di identità comune a una nuova generazione di cittadini europei.
Sofia Corradi, pedagogista oggi ultraottantenne, è la persona all’origine del programma Erasmus. Negli anni Cinquanta non si vide riconoscere dalla propria università italiana un master alla Columbia University di New York e fu costretta a ripetere una serie di esami. Divenuta a sua volta docente universitaria nell’ambito della formazione continua, costruì su quella delusione vissuta da studentessa il progetto che prese avvio nel 1987, quando la Germania era ancora divisa tra est e ovest e l’Unione Sovietica esisteva ancora. L’Europa unita e pacifica è stato un processo graduale che gli studenti Erasmus hanno testimoniato nel corso degli anni. Ampliato nel 2014 con l’inclusione dei nuovi Paesi membri dell’Unione (oltre ad alcuni Stati extraeuropei) e con l’introduzione di un tirocinio alternativo al periodo di studio, l’Erasmus ha visto una partecipazione in crescita costante – con partenze più numerose dall’Europa meridionale e occidentale, in maggioranza di ragazze (61%). L’aumento degli studenti coinvolti è stato supportato da un miglioramento organizzativo, come dimostra il loro livello medio di soddisfazione, anche relativamente al supporto ricevuto, che emerge dal report Erasmus+ Higher Education Impact Study del 2019, molto più alto rispetto a quello del 2014. Sofia Corradi riceve ancora oggi email di ragazzi che la ringraziano per aver cambiato loro la vita e definisce questa generazione meravigliosa, perché lo studente “Parte un piccolo provinciale e torna un cittadino del mondo”.
Partire vuol dire mettersi alla prova, uscire dalla propria zona di comfort, imparare o mettere in pratica lingue straniere, fare esperienza di altri metodi di insegnamento, di studio, di stili di vita, di alimentazione, di divertimento; in diversi casi anche capire che direzione si vuole dare alla propria vita. Sul piano culturale questa esperienza all’estero è un doppio arricchimento: da un lato permette di entrare in contatto con una cultura diversa, dall’altro di stringere legami con coetanei provenienti da tutta Europa (e oltre). Per Umberto Eco l’Erasmus ha due funzioni fondamentali, una linguistica e una sentimentale, in riferimento alle molte coppie che si formano in Erasmus: un erasmiano su quattro, al suo ritorno, mantiene una relazione con una persona conosciuta all’estero. L’aspetto linguistico non è estraneo al piano affettivo dato che i figli di quei giovani che in Erasmus si sono innamorati e hanno costruito una famiglia insieme saranno bilingue e pienamente europei.
Per alcuni la generazione Erasmus comprende anche quei bambini che un giorno potrebbero partire a loro volta. Eco riteneva che la molteplicità linguistica che differenzia l’Europa dagli Stati Uniti non sia necessariamente un ostacolo: poco per volta si diffonderà il polilinguismo – che già era una caratteristica delle classi intellettuali del passato e lo è parzialmente anche oggi – da intendere non come la capacità di parlare perfettamente molte lingue, ma come la predisposizione mentale nel riuscire a capire e farsi comprendere anche in idiomi diversi dal proprio. La conoscenza di una o più lingue straniere da un lato può avere effetti positivi sulle capacità cognitive a lungo termine, favorendo la memoria e prevenendo addirittura la demenza senile, e dall’altro può migliorare la predisposizione comunicativa e di problem solving.
Il programma di scambio sembrerebbe una pratica da incoraggiare, eppure la “generazione Erasmus” è stata accusata di essere un eterogeneo gruppo di teenager globalizzati, accomunati da immaturità, disimpegno, desiderio di vacanza permanente. Ma se l’immaturità può spesso essere giustificata come il frutto della crisi economica e delle cure di genitori troppo apprensivi, la “vita in vacanza” è la percezione delle vecchie generazioni non in grado di capire che la vita non è fatta di solo lavoro, ma anche di esperienze. Esperienze rese più abbordabili dai voli low cost e dalla scomparsa dei visti sui passaporti per viaggiare all’interno dei confini europei. Se è vero che dal punto di vista della libertà di movimento e di studio questi ragazzi sono privilegiati rispetto a chi è nato qualche decina di anni prima, questa non è una colpa: semplicemente approfittano delle opportunità messe a loro disposizione dalla comunità europea.
Qualcuno è arrivato a sostenere che la “generazione Erasmus” non esista, ma sia soltanto una ristretta élite di studenti universitari con la possibilità di viaggiare, ben lontana dalla realtà dei comuni cittadini. In trent’anni dall’avvio del programma sono stati coinvolti circa nove milioni di persone tra membri dello staff, volontari e studenti, poco meno di 800mila nel solo 2017. Nel conteggiare gli studenti che partono, sostenendo siano troppo pochi per considerarli una generazione, si fa però l’errore di limitare a loro i benefici dell’Erasmus. Come sottolinea il docente e attivista pro Europa Alberto Alemanno, anche grazie al programma Erasmus è in corso un vero cambiamento sociologico che sta portando a una “europeizzazione della nostra società, in particolare della generazione che, per ragioni anagrafiche, sta vivendo quella trasformazione”.
I giovani cresciuti con una Germania già unita, abituati a comunicare a chilometri di distanza con Skype e WhatsApp, a guardare serie tv in lingua originale e a viaggiare all’estero con facilità, hanno sviluppato una mentalità molto distante dai loro genitori, che non hanno avuto le stesse possibilità. Quello che molti over 40 ignorano è che l’Erasmus non è soltanto un’occasione preziosa per la crescita personale, ma un sistema che arricchisce tutta la collettività: i dati dimostrano infatti che l’Erasmus aumenta il senso di appartenenza europea, soprattutto se il Paese di destinazione è lontano da quello di origine dello studente: il 32% dei ragazzi al loro ritorno dall’Erasmus ha dichiarato di sentirsi europeo, mentre prima della partenza lo affermava il 25% del totale. Se prima di andare all’estero il 9% degli studenti non si definiva tale, questa percentuale scende al 6, mentre i due terzi degli intervistati si sono detti convinti della necessità dell’Europa unita. Infine, l’89% ha affermato di condividere gli stessi valori degli altri europei, che per i giovani sono, nell’ordine, la tutela dei diritti umani, la libertà, la pace, la democrazia, il rispetto per le altre culture, la solidarietà e il rispetto delle leggi. Un dato molto interessante è anche la maggiore fiducia degli under 40 nei confronti delle istituzioni europee (52% nella fascia d’età 15-24 anni e 46% tra i 25 e i 39 anni) rispetto a quelle nazionali, secondo i dati forniti da Eurobarometro.
Gli euroscettici aumentano i loro consensi in tutto il continente, come dimostrano anche i risultati italiani alle elezioni del 26 maggio, e questo si può spiegare in parte con il fatto che quasi il 40% dei cittadini europei non ha mai viaggiato oltre i confini del proprio Paese di origine. Ovviamente non basta un weekend a Barcellona per diventare europei, ma servono anche la consapevolezza che viene dallo studio e la cultura data dalla curiosità, da sempre stimolata dalla possibilità di viaggiare. È però incoraggiante sapere che l’Italia, con Francia, Spagna e Germania, è tra gli Stati europei da cui partono e in cui arrivano più giovani Erasmus. Grazie a questi futuri elettori il consenso dei partiti nazionalisti e sovranisti è destinato a diminuire, se è vero che buona parte dei loro elettori – come afferma Repubblica sulla base di un confronto tra intenzione di voto e titolo di studio – ha un un basso livello di istruzione, che una società sana dovrebbe combattere puntando sulla scolarizzazione dei suoi cittadini. Considerando anche che si registrano livelli di astensionismo elettorale più alto presso le fasce meno istruite della popolazione, la centralità degli studenti universitari non può che crescere e l’aumento del numero degli studenti Erasmus (e in generale dei giovani viaggiatori) ha un grande potenziale politico.
Su un piano ideale, un Erasmus obbligatorio o fortemente incoraggiato (come già lo è il periodo da trascorrere all’estero previsto nei dottorati di ricerca) per tutti gli studenti rafforzerebbe in positivo la nostra identità di cittadini europei e cosmopoliti. Un buon punto di partenza sarebbe migliorarlo, ad esempio aumentando le coperture economiche previste (sono il 24% le domande rifiutate ogni anno per fondi insufficienti), oggi scarse e inadeguate rispetto al costo della vita nel Paese di destinazione. Un passo successivo sarebbe la creazione di un programma simile dedicato agli studenti delle superiori e uno per lavoratori. L’Europa ha molti difetti e limiti, ma l’impegno della “generazione Erasmus” è quello di migliorarla e non di smontarla pezzo dopo pezzo come promettono i partiti che in molti casi votano i loro genitori. Per farlo in modo efficace è necessario conoscere non solo il proprio Paese, ma anche gli altri Stati dell’Unione, e viaggiare è una buona base di partenza per abbattere o contestualizzare gli stereotipi sugli altri europei e le infinite declinazioni della nostra cultura comune. Aprirsi a tutto questo non significa diventare meno italiani, ma più europei.