Ben prima che il Covid ci costringesse a fare i conti con l’isolamento forzato, i problemi di depressione e solitudine si sono conquistati lo scettro di “male” del Ventunesimo secolo. Ed esattamente come la pandemia, questi mali trovano riscontro in ogni parte del mondo. In Canada, nel 2016, 14 milioni di persone dichiaravano di vivere da sole; in America Latina, la solitudine appare strettamente correlata all’alto tasso di anzianità e alle condizioni economiche. In Asia, l’invecchiamento rapido della popolazione sta provocando un aumento di questo fenomeno: in Cina, 1 anziano su 4 nel 2014 affermava di vivere solo; in Giappone nel 2017 sono state circa 45.000 le persone decedute in una situazione di totale abbandono e senza esequie.
In Europa la situazione non è diversa. In Francia, un sondaggio del 2014 ha evidenziato che 5 milioni di francesi dichiarano di soffrire di solitudine; lo stesso ente nel 2017 ha mostrato come il 6% della popolazione tra i 15 e i 30 anni viva una condizione di isolamento sociale. Il Regno Unito, per far fronte all’isolamento di circa 9 milioni di persone, e a quella di 1 ultrasettantacinquenne su 3, ha istituito nel 2018 il Ministero della Solitudine, a cui sono stati assegnati 20 milioni di sterline da impiegare in politiche sociali. Anche in Germania nel 2019, secondo l’ente statistico federale tedesco, 1 persona su 7 tra i 45 e i 65 anni soffre di solitudine, 1 su 3 per quanto riguarda le persone oltre i 65 anni. In Spagna, uno studio del 2016 ha evidenziato 4 milioni e mezzo di persone che vivono sole, con un tasso del 41,7% per le persone sopra i 65 anni.
Nonostante l’Italia sia nota per la sua narrazione fatta di buon cibo, bei paesaggi, balli e canti, la realtà si mostra tendenzialmente in linea con il resto del mondo. Secondo una ricerca del 2015 di Eurostat, elaborata da Infodata, il 13,5% degli italiani over 16 dichiarava di non avere una persona alla quale chiedere aiuto, contro la media europea del 6%. Coerentemente, secondo il Rapporto Annuale Istat 2018, circa 3 milioni di persone affermavano di non avere una rete di amici, né di sostegno, e 8,5 milioni di persone vivevano da sole. L’assenza di reti esterne alla famiglia era più alta proprio fra queste persone, con il 7,7%, e massima tra gli anziani, con il 15,6%. Si dipinge un panorama di persone sole e anziane le cui reti sociali non si trasformano automaticamente in reti di sicurezza valide.
Se ci si ferma un minuto a osservare i dati sulla solitudine pre-Covid e le interpretazioni che gli sono state date, si nota che la principale correlazione attribuitagli è relativa al vivere da soli, quindi all’estensione della rete familiare. L’incrocio con dati sulla situazione economica mostra una correlazione tra persone benestanti e ricche e livelli più alti di solitudine, mentre sembra che a un titolo di studio più elevato corrisponda minore solitudine. D’altro canto, secondo l’Istat, la presenza di una rete familiare estesa, di un titolo di studio elevato e di un alto reddito familiare sono fattori protettivi contro la percezione di solitudine e abbandono. Al contrario, condizioni psicologiche negative e disturbi depressivi possono aumentare la percezione di un sostegno sociale debole. Il contrasto tra gli indicatori che correlano livelli di solitudine più alta in persone ricche e quelli che affermano che una situazione economica agiata offre un fattore protettivo, può essere spiegato in virtù dell’appiattimento di questi dati nella relazione tra indicatori e dimensione della rete familiare, tra il viver soli e il vivere in famiglia. Nel primo caso, il dato correlato “aumento della ricchezza = solitudine” non è direttamente incrociato con la dimensione della relazione familiare, ma nemmeno con altri indicatori che possano fornirne una lettura; mentre, nel Rapporto Istat, è l’incrocio favorevole di tre fattori, rete familiare estesa, titolo di studio elevato e alto reddito familiare, a garantire una protezione e dare una lettura differente del dato. La solitudine così descritta, appiattita sulla sua sola dimensione materiale e quantitativa, riesce a spiegare l’andamento del fenomeno, ma solo in relazione alla dimensione di solitudine “effettiva” e misurabile sul numero concreto di affetti. Questi dati non sembrano riuscire a spiegare altre dimensioni della solitudine, come quella della solitudine “percepita”, che prescindono da alcuni degli indicatori chiave della solitudine effettiva.
È stata necessaria una pandemia per poter raccogliere dati che cogliessero la solitudine come fenomeno trasversale, mostrando cambiamenti e discrepanze dovute al cambiamento degli stili di vita. Secondo lo studio “Gli italiani e il senso civico. Focus solitudine”, non sono gli anziani ad aver risentito maggiormente della solitudine in relazione al lockdown, la cui percezione resta simile al pre-lockdown; sono invece gli under 50 a riconoscere sempre più spesso di soffrire di solitudine. La conferma arriva da un recente studio: il 55% degli italiani intervistati afferma di soffrire di solitudine, con la quota più alta, il 32%, nella fascia dai 18 ai 34 anni, contro il 21% nella fascia dai 55 anni in su. Questo cambiamento viene attribuito agli effetti delle restrizioni sulle vite dei giovani: gli ostacoli al percorso di studio, il freno alle relazioni sociali, agli sport, alla possibilità di frequentare amici e parenti, incrementano il senso di incertezza e di solitudine e diventano fucina per una maggiore ostilità nei confronti degli altri, della propria città e del proprio quartiere. Guardando ai dati pre e post lockdown: gli anziani provano solitudine in relazione alla mancanza di tessuti sociali stabili, e la crisi non ne ha modificato le aspettative; i giovani, in una situazione di privazione forzata, nonostante abbiano maggiori mezzi di contatto degli anziani, sentono acuirsi sentimenti di solitudine in relazione all’incertezza verso il futuro, verso il lavoro, lo studio e le relazioni in sé.
Non è semplice dire se i sentimenti dei giovani siano sorti solo in virtù dell’epidemia, o se l’epidemia abbia acuito sentimenti pre-esistenti; ma, quale che sia la risposta, l’emergere di studi sulla solitudine dei giovani permette di cogliere la stessa in una dimensione più ampia. In primo luogo, si può dire che subirla sia sempre fonte di disagio, e questo tanto vale per il periodo del lockdown, tanto al di fuori del periodo pandemico. In secondo luogo, essa sembra colpire in maniera diversa sia chi vive nelle grandi città, sia chi vive nei piccoli centri e ha un tenore di vita basso. I primi subiscono la dispersione delle grandi città, non hanno il tempo materiale per costruire relazioni salde e sono spesso ignari della vita delle persone che li circondano; hanno relazioni spesso insoddisfacenti e difficoltà ad inserirsi nella comunità di riferimento. I secondi, pagano la mancanza di contatti, la classe sociale e il livello di istruzione, facendo fatica a costruire momenti di condivisione a causa della mancanza di strumenti adeguati.
Entrambi pagano il prezzo dell’individualismo contemporaneo, ma se i primi pagano il prezzo di condizioni sociali ben conosciute e affermate, i giovani pagano anche quello di un mondo che richiede performance sempre più alte che possono produrre paura del giudizio altrui, senso di inadeguatezza e conseguente isolamento. La richiesta di performance sempre più alte, però, colpisce anche chi dovrebbe rappresentare un punto di riferimento per le nuove generazioni, provocando uno sfaldarsi della comunicazione familiare e del ruolo di guida necessario allo sviluppo di un’identità autorealizzata, e lasciando i giovani in un limbo tra solitudine affettiva forzata e un mondo iperconnesso ma virtuale.
La solitudine quindi, lungi dall’essere ridotta alla sola rete sociale, ma di cui sicuramente quest’ultima costituisce una componente importante, può esser dovuta all’isolamento emotivo che deriva da una mancanza reale, una perdita, un abbandono o un distacco; può essere causata inoltre dall’isolamento sociale, cioè dall’assenza di amicizie, ma anche dalla presenza di relazioni non soddisfacenti o dall’impossibilità vera, o presunta, di realizzarle. La solitudine può essere quindi effettiva, emotiva, reale, percepita, ma non può essere appiattita alla sola “conta” di relazioni e legami sociali, che porta a una lettura monodimensionale del fenomeno. Riconoscerla come un problema contemporaneo, contingente e trasversale alle varie classi e fasce d’età, può condurre a utili riflessioni sulle politiche sociali che potrebbero far fronte a questa emergenza. La solitudine e l’isolamento infatti, non solo producono ulteriore isolamento, ma provocano alcune conseguenze fisiche e sulla salute mentale.
Il disagio legato alla solitudine può portare a una disregolazione del sistema immunitario e dell’appetito e a un abbassamento della temperatura corporea; laddove questa condizione diventa un vissuto cronico, può portare a stati depressivi, disturbi post-traumatici da stress, ansia, panico e altri aspetti correlati alla salute mentale che possono minare anche le successive possibilità relazionali. Il fenomeno della solitudine quindi, vive un rapporto circolare e complesso in cui le sue conseguenze alimentano le possibilità che questa si reiteri, in particolar modo in fasce e classi sociali che non hanno le risorse psicologiche e materiali per intessere nuovi legami, ma anche laddove il singolo individuo non ha le possibilità o le capacità di riuscire a costruire nuovi e profondi legami alle condizioni dettate da una società in costante cambiamento. Si può dire, quindi, che non sia la pandemia ad aver cambiato i giovani, ma piuttosto che questa ha fatto sì che si acuissero gli aspetti peggiori di una società che sull’individualismo moderno stava già costruendo distanze incolmabili per i singoli individui.