Tra le eredità dell’Amministrazione Trump c’è l’aver affossato fino all’ultimo la riapertura degli Stati Uniti con Cuba, un processo avviato con gli accordi del 2014 tra i rispettivi presidenti di allora Barack Obama e Raul Castro, dopo negoziati segreti tra le parti. Obama chiese, pur inascoltato dal Senato allora a maggioranza repubblicana, di “rimuovere le sanzioni”, ammettendo che “per 50 anni l’embargo non aveva funzionato”. Nel 2015 le reciproche ambasciate furono riaperte, e un anno dopo il presidente democratico volò a Cuba, con l’intenzione di lasciarsi alle spalle più di mezzo secolo di Guerra fredda e avvicinare l’isola castrista all’economia di mercato. Il suo successore Donald Trump ha però cancellato le relazioni commerciali riattivate con L’Avana, inasprendo l’embargo economico e finanziario con diversi provvedimenti presidenziali, dal memorandum su Cuba del 2017 e culminati fino al reinserimento dell’isola nella black list degli sponsor del terrorismo nell’ultima settimana del suo mandato alla Casa Bianca.
Secondo l’attuale amministrazione, Cuba garantirebbe un “porto sicuro ai terroristi”. A gennaio Trump ha anche varato ulteriori sanzioni che limitano ancora di più gli spostamenti e il trasferimento di denaro tra i due Paesi. Questa politica allontana di nuovo l’isola caraibica dalla comunità internazionale, senza un pericolo reale di attentati da parte dell’Avana che giustifichi una misura simile e nel silenzio degli organismi internazionali, come se dalla crisi della Baia dei porci non fossero trascorsi ormai quasi sessant’anni. Nell’ottica di Trump la decisione può essere giustificata con la volontà di compiacere l’elettorato repubblicano della Florida, in particolare la comunità cubana di Miami, ma stupisce il silenzio al riguardo da parte delle Nazioni Unite. Eppure la diplomazia di Palazzo di Vetro sa bene quanto nella pandemia sia cruciale per il mondo l’azione umanitaria dell’Avana: in Italia e in una dozzina di altri Paesi, anche occidentali, Cuba ha inviato attrezzature e migliaia tra medici e personale sanitario qualificato delle sue Brigate mediche internazionali. Questi accordi di cooperazione con i governi stranieri per far fronte al Covid-19 saranno potenziati nel 2021, con il via libera delle autorità del farmaco ai vaccini che i centri di ricerca farmaceutici e di biotecnologie cubani stanno sviluppando per metterli a disposizione, sempre in forma gratuita, della comunità internazionale.
Per due vaccini dell’Avana la fine delle sperimentazioni è attesa entro marzo e non sono solo i governi nazionali a manifestare interesse per queste dosi: se i test ne confermeranno efficacia e sicurezza, i vaccini pubblici cubani, coperte le necessità interne, verranno distribuiti – anche attraverso la rete delle organizzazioni dell’Onu – ai Paesi in via di sviluppo che non possono permettersi le milioni di dosi fornite da multinazionali come Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Cuba darà così un contributo fondamentale alla campagna vaccinale internazionale immunizzando anche le popolazioni in Africa, Asia e America Latina, passaggio fondamentale per arrestare la diffusione globale del virus. Jose Moya, rappresentante a Cuba dell’Organizzazione panamericana della sanità (Ops), prevede che il contributo dell’Avana sarà “molto importante nelle vaccinazioni per determinati gruppi vulnerabili nella nostra regione”, per esempio tra gli anziani delle favelas o nelle comunità indigene duramente colpite dal Covid-19: una volta approvato, il vaccino cubano potrà raggiungere queste popolazioni attraverso la rete dell’Ops e dell’Oms. Un meccanismo consolidato, visto che precedenti vaccini cubani contro la meningite e l’epatite B sono stati distribuiti o venduti a basso costo all’estero, anche grazie alla buona collaborazione dell’Avana con l’Oms.
BioCubaFarma, il cartello cubano che raggruppa 32 imprese farmaceutiche e di biotecnologia, ha esportato milioni tra farmaci e vaccini in oltre quaranta Paesi. Un bacino di mercato che oggi non si limita più all’Europa dell’Est e a Paesi tradizionalmente vicini a Cuba ,come l’Iran e diversi Stati del Sud America: i centri di ricerca e di produzione medica dell’isola hanno intessuto negli anni relazioni anche con i governi occidentali, in un’ottica di collaborazione accademica e di partnership commerciali. A novembre, per esempio, BioCubaFarma ha organizzato un seminario multidisciplinare per l’Australian National University sull’esperienza del Covid-19. Nel 2019, prima che esplodesse la pandemia, in Italia la provincia autonoma di Trento giudicava “molto proficui” la visita dell’head advisory scientifico BioCubaFarma, Agustín Lage Dávila e gli incontri “con i principali centri di ricerca trentini nel campo biotecnologico e con le imprese e start up attive nel campo farmaceutico”. La reputazione che i centri di ricerca medica dell’Avana, voluti e finanziati da Fidel Castro, si sono costruiti negli anni ha fatto sì che persino l’Amministrazione Obama mettesse gli occhi sul Centro di immunologia molecolare (Cim) cubano, all’avanguardia nella ricerca sul cancro. Allentate le sanzioni, nel 2016 anche gli Stati Uniti lanciarono una joint venture sanitaria con Cuba, avviando nello Stato di New York i trial sul vaccino sperimentale Cimavax del Cim, che aumenta la sopravvivenza nei malati di tumore al polmone.
Curarsi a Cuba non costituiva d’altronde già un tabù per i malati statunitensi, che anche prima del 2014 violavano l’embargo statunitense per curarsi all’Avana. L’intesa di Obama con i Castro ha sdoganato il turismo medico (e tradizionale) verso l’isola caraibica, favorito dagli stessi medici e studiosi statunitensi che da decenni, in opposizione al sistema di assicurazioni sanitarie private, aderiscono al programma di interscambio e di pubblicazioni scientifiche Medicc (Medical Education Cooperation with Cuba). La fondatrice del progetto Gail Reed, all’Avana dagli anni Sessanta, può essere considerata la maggiore divulgatrice statunitense della ricerca accademica cubana in campo medico, con l’intento dichiarato di promuovere la diffusione di un modello sanitario etico nei Paesi in via di sviluppo e negli stessi Stati Uniti. Decine di statunitensi a basso reddito beneficiano, tra l’altro, dei programmi di studio nei centri sanitari cubani. La collaborazione è in atto anche a livello dell’istruzione, con scambi universitari alla Medical University of Havana che, benché osteggiati e limitati sotto le presidenze repubblicane, anche nel 2020 hanno permesso a otto statunitensi di laurearsi a Cuba. Altri statunitensi figurano tra i 28mila studenti di medicina del Paese, cubani e stranieri, che a marzo sono stati richiamati come volontari sull’isola, per il tracciamento e il monitoraggio porta a porta dei positivi al Covid-19. Le Nazioni Unite hanno lodato i “risultati impressionanti” raggiunti dalla sanità cubana grazie a metodi che per mesi sono stati ignorati negli Stati Uniti, con il risultato che il Covid causa nel Paese più di 3mila morti al giorno.
Nonostante fosse impegnata a gestire con i limitati mezzi a disposizione – a causa dell’embargo statunitense – una pandemia, per il controterrorismo statunitense il governo di Cuba continuerebbe a trovare il tempo per “supportare atti di terrorismo internazionale” impegnando la sua intelligence a sostegno del regime venezuelano di Nicolás Maduro, oltre a ispirare con la sua azione non meglio specificati movimenti terroristici internazionali. Giustificando la decisione dell’amministrazione Trump, il segretario di Stato Mike Pompeo ha anche fatto riferimento a un comunicato con cui Cuba ha offerto ospitalità ad Assata Shakur, cittadina statunitense ed ex membro delle Black Panthers condannata per aver ucciso un agente di polizia a New York nel 1973. Per questi motivi uno degli ultimi atti del governo Trump è reinserire Cuba nella lista degli Stati sponsor del terrorismo, insieme a Iran, Siria e Corea del Nord.
A Cuba si rinfaccia quindi di esportare terroristi, quando da decenni le uniche brigate dello Stato rivoluzionario socialista sono quelle mediche: L’Avana è l’unico governo al mondo a esportare il diritto universale alle cure sanitarie pubbliche. Dal 1992 le Nazioni Unite si sono schierate contro l’embargo a Cuba, con 28 risoluzioni sempre più sostenute dagli Stati membri, tanto che oggi si dichiarano contrari soltanto Stati Uniti, Brasile e Israele. Un voto che però si scontra contro il potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, in questo caso di quello esercitato dagli Stati Uniti. L‘ultima risoluzione 74/7 dell’Onu in difesa di Cuba è del novembre 2019. Un segnale importante che il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden può raccogliere per portare a termine quanto iniziato come vice di Barack Obama: riportare a tutti gli effetti lo Stato di Cuba all’interno della comunità internazionale e mettere la parola fine a un embargo che ormai è efficace solo per i calcoli politici dell’ala più conservatrice del Partito repubblicano.