Nel 2022 possiamo scegliere di non avere più le mestruazioni. Ma è giusto? - THE VISION

Qualsiasi sia la sua esperienza con le mestruazioni, almeno una volta nella vita ogni donna ha desiderato che scomparissero. Per sempre, o solo per un po’, per il tempo di una gravidanza, per una giornata impegnativa o per una serata romantica. Il sangue mestruale, scriveva Simone de Beauvoir nel suo noto saggio Il secondo sesso, crea ripugnanza perché ricorda all’uomo (e alla donna) la contingenza della sua carne, la sua distanza dalla divinità. Gli inglesi lo chiamavano “curse”, maledizione, e quasi tutte le popolazioni che conosciamo vi attribuivano poteri magici, spesso legati all’appassimento o al deterioramento del cibo. Oggi questi tabù sono in parte scomparsi o sono trattati alla stregua di credenze popolari o superstizioni curiose, ma il desiderio quasi inconscio che il sangue sparisca dalla nostra vista anziché spegnersi si è trasformato in una domanda che sempre più persone si fanno: avere le mestruazioni, ora che abbiamo le conoscenze scientifiche per eliminarle, è poi così necessario?    

Dal punto di vista biologico, la mestruazione è la perdita di sangue che si verifica come conseguenza dello sfaldamento dell’endometrio, la mucosa che ricopre la cavità interna dell’utero. Segna l’inizio del ciclo mestruale, che dura circa 28 giorni e si ripete nel caso in cui non avvenga la fecondazione, con l’abbassamento dei livelli di estrogeni e progesterone. “Oggi, qualsiasi dottore vi direbbe che non c’è alcuna necessità medica di avere le mestruazioni a meno che non stiate provando a concepire”, sentenzia The Atlantic. In effetti, già il 26% delle donne in età fertile in Italia, cioè poco più di 3 milioni e 250mila, non ha le mestruazioni perché assume la pillola anticoncezionale. Il flusso di sangue che si verifica nei giorni di sospensione della pillola, infatti, non è una “vera” mestruazione, dal momento che questi contraccettivi bloccano l’ovulazione, ma si parla di una “pseudomestruazione”.  

L’emorragia da sospensione non è motivata da alcuna ragione se non quella di dare all’assunzione della pillola una parvenza di “normalità”. Enovid, la prima pillola approvata negli Stati Uniti dalla Food and Drugs Administration nel 1957, veniva inizialmente somministrata per “regolare il ciclo mestruale” e la sua azione contraccettiva era considerata solo un effetto collaterale e non lo scopo principale del farmaco. I suoi ideatori, ovviamente, sapevano che si trattava di un sanguinamento diverso dalla mestruazione e non causato dall’ovulazione, ma fu proprio grazie a quel sangue che riuscirono a mettere sul mercato un prodotto così innovativo senza spaventare le potenziali clienti e i loro mariti.

Un altro possibile intralcio per il successo commerciale della pillola era la Chiesa cattolica: nel 1960 papa Giovanni XXIII istituì la Pontificia commissione per il controllo della popolazione e delle nascite che, vista la presenza di questa specie di mestruazione, inizialmente stabilì la legittimità della pillola per le donne che avevano mestruazioni irregolari, per poi cambiare idea con l’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, che ne vietava severamente l’utilizzo per le credenti. Negli anni Settanta, con il boom del femminismo, le potenzialità anticoncezionali della pillola non erano più un mistero e i contraccettivi ormonali diventarono un simbolo dell’autodeterminazione femminile. Anche grazie alla depenalizzazione del loro uso, che in Italia arrivò soltanto nel 1971, le donne che prendevano la pillola nella maggior parte dei casi non ambivano a regolare il ciclo, ma a non rimanere incinte.  

Negli ultimi anni, la domanda di farmaci che sopprimano il ciclo o ne modifichino radicalmente i ritmi è in continuo aumento. Dal 2003 la Fda ha approvato diversi tipi di pillole “stagionali” che si sospendono dopo qualche mese di assunzione riducendo così il numero delle pseudomestruazioni annuali. Anche la pillola di solo progesterone (detta “minipillola”), che non prevede sospensioni e di conseguenza sanguinamenti, è molto popolare. Se nel 1981, secondo una ricerca dell’Oms, la stragrande maggioranza delle donne non voleva assumere contraccettivi che modificassero il proprio ciclo mestruale, oggi la tendenza delle giovani donne sembra quella di volersi liberare dalle mestruazioni, che al netto di tutti i miglioramenti nel campo dell’igiene mestruale, sono percepite come un peso o un fastidio. Non si fa fatica a immaginare un futuro in cui le persone non avranno più le mestruazioni e per certi versi, con la diffusione della pillola, si può dire che sia già arrivato. 

Non si può ragionare sulla legittimità del desiderio di cancellare le mestruazioni senza interrogarsi su cosa sia e che valore abbia il sangue mestruale. Per la nostra società non c’è dubbio che sia di segno negativo: oltre all’atavica ripugnanza, nel nostro tempo la mestruazione è percepita sempre più come un ostacolo alla nostra capacità produttiva. I giorni del flusso mestruale sono per molte giorni di spossatezza, stanchezza, spesso dolore, in cui è difficile concentrarsi, studiare o lavorare. Tra la possibilità di liberarsi definitivamente del ciclo e la battaglia per chiedere il congedo mestruale – specialmente in un Paese che ha accolto la prima proposta di legge per abbassare l’Iva sugli assorbenti con la serietà di una classe di terza media – non ci si stupisce che in molte preferiscano la prima strada. Parlando con diverse donne di cosa significherebbe per loro non avere più il ciclo, la maggioranza ha usato le parole “libertà” e “comodità”.

Come scrive la sociologa Katie Ann Hasson, le mestruazioni non sono solo un fatto naturale, ma anche culturale. Il modo in cui le viviamo è influenzato dal modo in cui ne parliamo, dalle tecnologie che adoperiamo e persino dalle condizioni socioeconomiche. Secondo Hasson, un fattore determinante per le nostre attitudini culturali nei confronti delle mestruazioni è la pubblicità. I primi assorbenti venivano pubblicizzati come prodotti sanitari, enfatizzando l’importanza di essere pulite e di adottare pratiche igieniche. Col tempo, il focus si è spostato sulla produttività: coi nostri assorbenti puoi fare la ruota, lanciarti col paracadute, lavorare quindici ore al giorno. Ovviamente, in questo lasso di tempo anche le attività quotidiane delle donne sono cambiate e oggi molte devono gestire le mestruazioni fuori casa e in particolare sui luoghi di lavoro. Tutti questi fattori hanno senza dubbio influenzato il crescente desiderio di eliminare le mestruazioni dalla propria vita. 

Proprio per questa complessa stratificazione di significati culturali, è difficile considerare la scomparsa delle mestruazioni come un obiettivo auspicabile o comunque positivo. Al di là del rispetto per il diritto di scelta di ciascuna, il punto è chiederci se smettere di avere le mestruazioni ci renderebbe davvero più libere o soltanto più efficienti. Se essere meno produttive, volerci riposare o non essere al meglio delle nostre capacità per qualche giorno al mese sia una pretesa poi così assurda. Si tratterebbe in ogni caso di una libertà non priva di condizioni, visto che deriva da una relazione che non può essere in alcun modo paritaria, cioè quella tra un’azienda che cerca di vendere un prodotto e una consumatrice. Oggi in tutto il mondo esistono in commercio più di novanta marche di pillole diverse e negli Stati Uniti, dove le loro pubblicità sono autorizzate, l’opera di rebranding degli anticoncezionali è ormai riuscita: non più contraccettivi, ma la promessa di poter finalmente fare tutto quello che ci piace (se poi la cosa si estende anche a quello che non ci piace, pazienza).

In passato la pillola ha liberato le donne da quello che Sylvia Plath chiamava il “randello sopra la testa per farmi rigare dritta”, la gravidanza indesiderata che coincideva con la fine della libertà. Ma ora si sta trasformando in qualcos’altro, in uno strumento che serve innanzitutto a conciliare il ciclo mestruale con la frenesia delle nostre vite. Non si tratta tanto di capire se sia moralmente giusto o sbagliato smettere di avere le mestruazioni, quanto più di capire perché.

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