Mi mancano prodotti di intrattenimento come The OA, occasioni in cui ci si riuniva intorno a una profonda fiducia nella lontananza, nell’indimostrabile e nell’invisibile, o meglio, nell’invisto. Prairie – la protagonista, “the Original Angel” – torna a casa dopo una lunga reclusione, in seguito al rapimento di un ricercatore che sottopone lei e i suoi compagni di prigionia a reiterate esperienze pre-morte. Inspiegabilmente, pur essendo sempre stata cieca, quando torna ha acquisito la vista. Tra le cavie, pur separate in diverse stanze da pareti di vetro, si instaura una relazione psichica fortissima, in particolare tra Prairie e Homer, che inventano una ripetizione di movimenti che sembra generare un’energia soprannaturale e che ripetendola si affidano all’altro e a un credo comune in ciò che sembra impossibile.
Mi dico che ora, anche impegnandosi, sarebbe impossibile percorrere questa folle direzione narrativa, perché anche gli irriducibili sono stati delusi. Gli input della nostra fiducia non trovano risposta, eppure è proprio in queste condizioni che l’esercizio di fede – per quanto laico – si fa ancora più fondamentale, anzi, sembra essere proprio questo il punto di crisi della fede stessa, il silenzio, l’invisibile che resta tale, mostrando l’apparente inutilità del gesto – la preghiera, la norma, la formula magica, la coreografia di The OA (tra le prime serie peraltro a usare questo espediente oggi ormai diventato canone per la viralità).
Nell’interrogazione delle dimensioni lontane, infatti, come suggeriva la stessa Brit Marling con le sue storie, più che una risposta o una “prova”, per quanto lenta e dilazionata nel tempo, è necessario istituire una rete di corrispondenze con gli altri, anche se oniriche e illogiche; credere nello stesso sogno, per quanto assurdo possa sembrare. Eppure, negli ultimi anni, questo tessuto sottile si è sfibrato sempre di più, le energie si sono dissolte, le menti e i corpi sono sempre più esausti, sfiniti, così la comunicazione e il nostro modo di fare esperienza del mondo, di esserci, di darci. Non c’è tempo, non c’è più tempo. L’esperienza, e la sua restituzione linguistica, è ridotta al momento. Impossibile maturare, invecchiare, cambiare.
Mi chiedo cosa sia cosa ci abbia esauriti e allontanati, quando in realtà non ci sono mai state così tante occasioni di parlarsi; cos’abbia occupato questo spazio riducendo le nostre possibilità esistenziali. E la risposta – prima ancora della permacrisis, del capitalismo, della guerra, dell’inflazione, della competitività e dell’ambizione – è: noi stessi. La nostra identità ha riempito lo spazio che una volta era dedicato all’Altro, a ciò che ci era sconosciuto, e quindi a ciò che potevamo scoprire. “C’est ce que je porte d’inconnu à moi-même qui me fait moi”, scriveva Paul Valéry in Monsieur Teste: è ciò che non conosco del mondo a cui mi avvicino e che porto verso di me, che mi fa diventare me stesso. E Martin Heidegger dopo Essere e tempo, suggerendo di abitare il mondo poeticamente, e quindi di abitare il nulla esistenziale attraverso il linguaggio, scriveva che fare esperienza di qualcosa significa “che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge, e trasforma”. Ma se tutto è manifesto e apparentemente noto io resto sempre uguale a me stesso, e l’unico movimento esistenziale che mi resta da fare è espandermi, non potendo cambiare, fagocito tutto.
Gli strumenti digitali che abbiamo iniziato a usare e che oggi danno forma alla nostra vita hanno cambiato il nostro modo di agire, di immaginarci e di percepirci, espandendo il nostro ego e sottraendoci tempo – non “prezioso” in assoluto, ma prezioso per coltivare la differenza, e dar vita allo spazio della relazione. Abbiamo ceduto, giorno dopo giorno, mese dopo mese, alla convinzione di esistere. Ovvero di essere qualcuno a prescindere, di essere corpi che contengono un’anima che gli è stata iniettata dentro a priori, ovvero prima di incontrare l’Altro e di farne esperienza. Idea assurda, che però l’umano sembrerebbe non riuscirsi a scrollare di dosso, proprio perché estremamente conservativa e rassicurante: la credenza di essere qualcuno, di essere proprio così come si è, nonostante tutto, nonostante il mondo. Nonostante secoli di riflessione, d’altronde, siamo ancora convinti che esista effettivamente un nostro presunto “vero sé”, ed è proprio da questa idea che origina la patologia che ora la società – insieme a tutti gli individui che la compongono – sembra vivere in fase acuta.
I meccanismi basilari dei social – mi piace, non mi piace, la reazione istantanea, l’opinionismo, la ri-condivisione – hanno uniformato il nostro modo di agire, di pensare e di essere, molto più di quanto siamo disposti a riconoscere. Sottraendo al pensiero la sua qualità di evento. Ammettiamo l’esistenza soltanto di ciò che è come noi, che ci è simile, altrimenti lo escludiamo, perché portatore di dissonanza, alterità e quindi – nel mondo di oggi soprattutto – di conflitto e di dolore. L’altro può essere accettato se e solo se uguale a noi, perde quindi la forza attrattiva del mistero, capace di farci perdere l’equilibrio, sbilanciarci, mutarci, spostarci dal nostro asse. L’altro, infatti, ci porta gli spazi cognitivi che non siamo in grado di scorgere, di vivere e di abitare.
Oggi più che mai desideriamo l’uguale, per confermare la nostra visione e la nostra identità. Ma così, la pulsione erotica che ci fa vivere, si riduce al narcisismo, amiamo negli altri ciò che vediamo – o crediamo di vedere – riflesso in loro di noi stessi. Come scrive Byung Chul Han nel suo libro divulgativo L’espulsione dell’altro, in cui raccoglie i contribuiti di numerosi pensatori, tra cui lo stesso Heidegger: “A causa della sua positività, la violenza dell’Uguale è invisibile. La proliferazione dell’Uguale si presenta come crescita. Ma, da un certo punto in poi, la produzione non è piú produttiva bensí distruttiva, l’informazione non è piú informativa bensí deformativa, la comunicazione non è piú comunicativa bensí cumulativa. […] All’Uguale invece manca sempre la controparte dialettica, che lo delimiterebbe dandogli forma. […] L’Uguale invece è informe. Poiché gli manca la tensione dialettica, ne deriva una vicinanza indifferente, una massa informe e indifferenziata. […] Si prende atto di tutto senza mai giungere a una conoscenza. Si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali”.
In questa pulsione autoreferenziale rendiamo impossibile qualsiasi tipo di conoscenza e di sapere, perché non siamo realmente disposti a farci cambiare da nulla, innescando un nuovo stato di coscienza. La conoscenza, intesa come scoperta, viene spogliata del suo senso enfatico trasformativo, e così ci si gioca anche il suo essere uno strumento di redenzione laica, giocando tra Lösung ed Erlösung (soluzione e redenzione), di un problema, ovvero la malattia di credere di essere qualcuno. Per redimerci dobbiamo concentrarci fino a dissolverci, sparire come identità. E invece nutriamo istante dopo istante il nostro senso dell’Io, che non è fatto d’altro che di idiosincrasie, capricci sensibili, che crediamo essere la nostra vera essenza e invece sono il riflesso incontrollato del mondo su di noi.
Questo è uno dei nodi che attanaglia gli esseri umani da millenni, e che ha dato vita a uno dei più grandi filoni di pensiero umano, il buddhismo – che in teoria no, non sarebbe affatto una religione per come la intendiamo noi, ma un insieme di tecniche e prassi per una conoscenza non inquinata dal senso atavico di protezione del sé. Non a caso “yoga” – molto più vicino a questa filosofia di quanto pensiamo – dalla radice yuj, vorrebbe proprio dire concentrare ciò che è sparso, disseminato – in questo caso la nostra mente, che si identifica nei sensi e crede di essere quei sensi. Questa illusione ci aggioga, sempre da yuj, e ci fa essere infelici, perché la felicità, o meglio la serenità, l’equilibrio, non è la semplice assenza di dolore. La felicità è l’assenza di identificazione.
Se l’immagine che ci arriva di Buddha è quella di uno stare, in pace, fermi dove si è, corpo e mente, oggi siamo arrivati a uno stare, fermi dove si è, ma agendo senza sosta tra un polo e un’altro, come macchine, on/off, acceso/spento, 0/1, mi piace/non piace. È questo a cui ci siamo ridotti: esprimere reiteratamente un’identità che difendiamo, ma di cui non riusciamo ad avere coscienza, perché se ce l’avessimo capiremmo che non esiste. D’altronde siamo riusciti a trasformare uno dei pochi strumenti che erano stati messi a punto per liberarci da questa impasse in un pretesto per vendere leggins colorati e libri di self help in cui ci viene insegnato che a ripetere molte volte una frase motivazionale positiva la nostra vita cambierà in meglio. Forse ce la meritiamo questa sofferenza, chissà che non risvegli qualcuno. O forse, come ci avevano messi in guardia i Monty Python, il nostro Io si espanderà fino a scoppiare, e allora scopriremo “il senso della vita”.