Erano gli anni Sessanta quando un ricercatore americano di nome Robert Rosenthal avviò un esperimento sociale su un gruppo di alunni di una scuola elementare californiana. Alla Oak’s School, come in molte scuole degli Stati Uniti, i bambini venivano divisi in classi a seconda delle loro capacità. A inizio anno venivano fatti dei test di intelligenza: in base ai risultati venivano formate tre classi, una composta dai bambini coi risultati più alti, una da quelli con risultati intermedi e una da quelli coi risultati più bassi. L’intuizione – per l’epoca geniale – di Rosenthal fu quella di sottoporre ai bambini il test di inizio anno, per poi però mischiare i risultati consegnandoli (per una certa percentuale) casualmente agli insegnanti. Un anno dopo, Rosenthal e la sua equipe verificarono gli esiti emersi, osservando che i bambini da cui gli insegnanti si aspettavano di più avevano, in effetti, reso di più (solo che tra essi c’erano anche quelli con un punteggio di QI inferiore). I loro risultati, dunque, non sembravano essere affatto collegati alle capacità intellettive misurate dai test. Le prove effettuate in seguito confermarono le percezioni iniziali: gli alunni selezionati casualmente nella classe “d’élite” erano effettivamente migliorati.
Con quell’esperimento Rosenthal dimostrò che l’atteggiamento di un insegnante nei confronti di un alunno potesse radicalmente influenzarne l’evoluzione. Se io, alunno, percepisco una certa aspettativa e soprattutto una grande fiducia nei miei confronti, sarò infatti più propenso a credere in me stesso e cercherò di raggiungere le attese che vengono riposte su di me, e probabilmente anche aiutato a concretizzarle. Diversamente, se l’insegnante non crederà in me, interiorizzerò facilmente il suo giudizio e il mio percorso sarà più complicato. L’effetto documentato da Rosenthal fu definito “Effetto Pigmalione”. Re di Creta (secondo alcune versioni) e scultore, all’interno di un mito delle Metamorfosi di Ovidio, Pigmalione era stato in grado di scolpire una statua della dea Afrodite talmente perfetta da innamorarsene, ottenendo dalla dea che questa fosse trasformata in una creatura vivente. Le caratteristiche del personaggio classico ispirarono il drammaturgo George Bernard Shaw a ideare un’omonima commedia nel 1913, con al centro la figura di una fioraia, Eliza, trasformata per scommessa in una donna appartenente all’alta società. “La differenza tra una dama e una fioraia non sta in come si comportano, ma in come vengono trattate,” sentenziava proprio Eliza al termine della commedia. Con questo riferimento, quindi, si vuole sottolineare proprio il potere di “modellare” gli esiti della vita di una persona a seconda del modo in cui viene considerata, a prescindere dalle sue predisposizioni genetiche.
In psicologia si definisce effetto Golem quando delle basse aspettative su qualcuno portano a un peggioramento delle sue performance. Un po’ come se si trattasse di una profezia negativa: se l’insegnante si aspetta che l’alunno non sia in grado di svolgere un compito è molto probabile che lui percepirà questa sfiducia e non riuscirà a raggiungere i risultati sperati. In ambito scolastico in particolar modo questo è un processo di cui ogni insegnante deve tenere conto, perché proprio nell’atteggiamento con cui ci si rapporta con gli alunni sta un enorme pezzo della responsabilità rispetto al loro futuro, e di conseguenza di quello della popolazione nel suo insieme. Tuttavia, è bene evidenziare che questo processo non avviene soltanto all’interno delle aule scolastiche, ma rispecchia esattamente ciò che ciascuno di noi si trova ad affrontare all’interno della società in svariate occasioni. Lo scontro continuo con un senso di sfiducia collettivo che si riversa con forza particolare sulle nuove generazioni offre una lettura della realtà parziale e non è altro che una fonte di demotivazione per i ragazzi.
Restando in ambito scolastico: ogni volta che vengono resi noti dei dati raccolti sullo stato degli studenti italiani, si scatenano catastrofismi che si fermano ai titoli dei giornali senza poi tradursi in interventi mirati. Prendiamo ciò che è accaduto appena tre anni fa. Nel 2019, nel mese di dicembre, esce il rapporto OCSE-Pisa, e subito i giornali escono con titoli perentori: “Solo uno studente su 20 sa distinguere tra fatti e opinioni”, come per esempio si leggeva su La Repubblica. In realtà, qualche giorno dopo Il Sole 24 ore faceva notare che non era un problema solo italiano, ma che i dati rilevati nel nostro Paese erano generalmente in linea con la media rilevata in molti altri Paesi stranieri. Inoltre, era stata individuata una sostanziale linearità con i dati raccolti negli ultimi vent’anni. La percezione di una decadenza giovanile e di una visione catastrofica delle nuove generazioni veniva smontata attraverso la consultazione di alcuni dati Istat molto eloquenti: la percentuale di lettori giovani risultava per esempio molto più alta di quella dei lettori anziani. Spesso i titoli dei giornali non considerano mai la parzialità dei dati raccolti attraverso un tipo di prove che, per quanto valide, non possono essere ritenute indicatori univoci, specie se legati ad ambiti complessi e diversificati. Spesso tutto tace, invece, quando si parla dei miglioramenti rilevati all’interno del rapporto: sempre nel 2019 erano messi in luce dall’Huffington Post, che faceva notare come una lettura approfondita dei dati permetteva di differenziare situazioni critiche impossibili da generalizzare.
Insomma: se ogni occasione è buona per demolire l’immagine degli adolescenti, è sufficiente approfondire i dati per rendersi conto che, forse, in questo modo si offre una lettura parziale della realtà, non sempre utile, anzi, spesso controproducente, proprio perché il pericolo è quello di generare un collettivo effetto Golem: più si dipingono i giovani come inetti, sfaticati e incapaci, più rischiano di sentirsi tali anche quando non lo sono. È la stessa cosa che succede quando si parla di lavoro. La narrazione secondo cui i giovani italiani sono mammoni o choosy si ripresenta ogni volta che si affronta il tema della difficoltà del loro ingresso nel mercato del lavoro. Questa retorica falsata però non tiene conto della complessità della situazione attuale e delle svariate realtà di sfruttamento o di tirocini e stage che si protraggono per lunghi periodi senza garantire sicurezza e cifre adeguate ai giovani lavoratori.
Pensiamo alle polemiche emerse negli ultimi mesi sul settore della ristorazione, a partire dall’infelice uscita dello chef Alessandro Borghese che ha dichiarato: “Non ho alcun problema a dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati”. L’affermazione ha suscitato un intenso dibattito, in cui molti hanno fatto notare allo chef che non tutti possono permettersi di fare esperienza gratuitamente, specie chi non proviene da famiglie benestanti. Un tema, quello dell’eterno dibattito generazionale, che è tornato alla ribalta a inizio estate quando, con la carenza di personale nel settore della ristorazione, si è tornati come ogni volta a parlare di giovani a cui manca “la voglia di impegnarsi [e] la disponibilità ad affrontare sacrifici”. Ma queste credenze sono del tutto parziali, specie se non si tiene conto del fatto che in Italia gli stipendi giovanili sono tra i più bassi in Europa e che proprio nel settore della ristorazione esistono svariati esempi di sfruttamento e condizioni di lavoro ben poco appaganti.
Il punto è che nel nostro Paese esiste una fastidiosa tendenza a puntare il dito verso i giovani quando le cose non funzionano. Ciò, oltre che inesatto e ingiusto, non fa altro che creare sfiducia e fomentare luoghi comuni nei loro confronti, dando vita a un circolo vizioso. È necessario ribaltare questo atteggiamento nutrendo un forte senso di fiducia sociale verso le nuove generazioni. Farlo è responsabilità di tutti, in particolar modo anche dei media. Tornando a Rosenthal, per garantire ai ragazzi maggiori stimoli serve infondere in loro un solido senso di fiducia. Al contrario, una sfiducia diffusa rischia di alimentare un collettivo effetto Golem che non servirà di certo a costruire prospettive migliori, né per loro né per la nostra società, ma sfocerà, come abbiamo visto nell’effetto Goblin. Le nuove generazioni rappresentano il futuro del nostro Paese e del Pianeta intero non si può prescindere dal credere in loro.