Un Paese di ipocriti, dove tutti salgono sul carro del vincitore, per rinnegarlo poi appena fallisce - THE VISION

Per i tempi che stiamo vivendo sembra che l’andazzo sia quello di voler sempre salire a tutti i costi sul carro del vincitore e al tempo stesso lapidare chi perde. Per spirito di emulazione si segue la massa osannando una figura di spicco quando è in ascesa, per poi godere allo stesso modo – e tutti insieme – di un suo eventuale fallimento. Può essere una forma di invidia sociale, una via traversa per un riscatto basato unicamente sulla caduta altrui, ma anche una semplice adesione passiva quando il personaggio è al suo apice. Non servono sofisticati studi sociologici per prendere coscienza della nostra natura da banderuole, per riconoscere questo fenomeno basta analizzare ciò che ha subito nell’ultimo anno Matteo Berrettini.

Dopo aver raggiunto, nel 2021, la finale di Wimbledon, il torneo di tennis più prestigioso del mondo, Berrettini diventa una vera e propria icona del nostro Paese. Bello, bravo, gentile, elegante: non gli manca nulla per renderci fieri del “Made in Italy”. Poi iniziano ad arrivare alcuni problemi fisici, ma c’è un avvenimento che dirotta bruscamente l’opinione pubblica verso un chiacchiericcio da piazza che poi sfocia sui social in un’ondata d’odio: l’inizio della sua relazione con la showgirl Melissa Satta, accusata addirittura di essere la causa dei suoi continui infortuni. Da quel momento, Berrettini smette di essere il campione, sui social iniziano a emergere sempre più commenti pieni di aggressività e violenza. Ormai, qualsiasi suo post catalizza sfoghi di ogni genere. Satta viene più volte apostrofata con epiteti sessisti, definita come un’arrampicatrice sociale, e lo stesso Berrettini viene insultato perché non riesce a superare gli infortuni. Lo paragonano a un tennista da circolo, a un pensionato a fine carriera, a niente più che un giocatore fortunato. Tutto ciò nonostante sia il tennista italiano – statistiche alla mano – ad aver raggiunto i migliori risultati di sempre sulle superfici veloci. L’eroe accolto da Mattarella e amato da tutti non sembra più essere il cavallo vincente su cui scommettere.

Matteo Berrettini

È qui che entra in gioco il godimento per la caduta altrui, un tratto sempre più caratteristico della nostra società. La caduta degli dèi provoca un moto di gioia cinica, in quanto l’uomo qualunque è intrappolato nel suo status e brama il successo, i soldi o le qualità che non possiede. Se la vittima è all’apice del successo, la massa segue l’effetto carrozzone e si allinea a un apprezzamento collettivo. Quando il soggetto inciampa, però, si è subito pronti a scendere dal carro per denigrarlo e rinfacciargli i suoi limiti. Scagliarsi contro qualcuno, specialmente se ricco e famoso, è una valvola di sfogo che con l’avvento di Internet si è amplificata a dismisura, creando un luogo dove chiunque può dire la sua, credendo di godere dell’immunità grazie alla protezione dello schermo. Così, piovono insulti e rabbia, almeno fino al ritorno alla vittoria dei nobili decaduti.

Melissa Satta

È quello che è appena successo. Dopo la sconfitta schiacciante dell’11 giugno, Berrettini non demorde e decide di presentarsi lo stesso a Wimbledon, dove mostra un tennis brillante, quello dei tempi d’oro. Qui entra allora in gioco un altro fenomeno: l’effetto bandwagon, ovvero l’atto di salire sul carro del vincitore. Si manifesta in tutti gli ambiti, anche nella politica. I sondaggisti notano per esempio che la settimana dopo le elezioni, il partito vincitore aumenta ulteriormente il consenso: anche chi non l’ha votato si avvicina al politico scelto dalla maggioranza della popolazione. Un caso emblematico riguarda le elezioni del 2018, caratterizzate dalla vittoria del Movimento Cinque Stelle. Al tempo, l’analisi dei flussi elettorali indicò un fenomeno spiazzante: una grande percentuale degli elettori grillini nelle elezioni precedenti aveva votato Forza Italia. Dopo essere stati per anni dei berlusconiani doc, molti ex forzisti spinti dal grido “Onestà”, si ritrovarono a festeggiare per la condanna di Berlusconi e a seguire il partito sulla cresta dell’onda, seppur con idee diametralmente opposte a quelle che un tempo venivano impugnate. Non si trattò soltanto di un cambio di casacca politica, perché fu accompagnato da una sorta di soddisfazione nel vedere Berlusconi ai servizi sociali. Quasi un fenomeno di rivincita sociale. In realtà, per il Cavaliere si è trattato di una piccola caduta ridimensionata negli anni successivi, come testimonia ciò che è accaduto dopo la sua dipartita, con la pretesa di più parti di riconoscergli un ruolo di statista illuminato e imprenditore senza macchie. La morte fa interrompere questo processo di saliscendi dal carro, come una sorta di assoluzione del defunto, ed è la stazione finale dell’effetto bandwagon.  C’è inoltre un impulso irrazionale a seguire gli altri per non essere esclusi, per non restare nella minoranza. Così, dal nulla, anche i commenti sui social di Berrettini cambiano. Nel giro di pochi giorni si passa da “Non sai giocare a tennis” a “Io ho sempre creduto in te”.

Silvio Berlusconi

È una dinamica che avveniva anche prima di Internet, anche se con una cassa di risonanza minore e senza l’opzione del feedback immediato. La reazione della folla viene indirizzata dai media, dalle pulsioni del momento, ed è soggetta a cambiamenti repentini. Un caso eclatante di questo fenomeno riguarda la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, passato nell’arco di pochissimo tempo a essere un volto amato della televisione italiana a un mostro da sbattere in prima pagina e, infine, accertata con colpevole ritardo la sua innocenza, un martire. In quel caso c’è stato un errore giudiziario di mezzo, ma anche senza condizionamenti esterni l’essere umano ha in sé l’indole del voltagabbana.

Enzo Tortora

Uno studio condotto dall’Università di Tor Vergata, dal dipartimento di Web Marketing, si è concentrato per esempio su TripAdvisor e sull’implicazione delle recensioni nel condizionamento dell’utenza, analizzando anche eventuali varianti come i commenti fake. Di fronte a un numero sostanzioso di recensioni positive, un turista, ma anche un qualsiasi cittadino che non conosce bene la zona o la realtà di cui si parla tendono a fidarsi del parere altrui, conferendo alla piattaforma e quindi ai giudizi degli utenti una credibilità intaccabile. Applicando recensioni false a un locale X, facendo abbassare l’indice di gradimento sul sito, avviene poi il calo di successo del locale in questione anche per chi l’ha già frequentato, magari trovandosi anche bene. Lo stesso locale, un tempo apprezzato per un mix tra commenti positivi ed esperienze personali, subisce quindi l’onda d’urto dello spostamento della massa, perdendo quella credibilità data dai numeri del rating. Se a tanti qualcosa piace, in qualche modo deve esserci un motivo, così me la faccio piacere anche io. Al contrario, quando i tanti abbandonano l’entusiasmo, c’è l’istinto non soltanto ad allontanarsi. E in alcuni casi, si direbbe osservando quello che ci accade intorno, a provare soddisfazione per la rovina di un’attività, di una persona o di un qualsiasi movimento sociale.

Un altro esempio è stata l’esplosione dei Maneskin degli ultimi anni. Se i gusti musicali restano insindacabili, è comunque incomprensibile la spaccatura tra amore e odio che ha accompagnato la band italiana nella sua scalata al mercato discografico mondiale. Chi non li apprezza per la loro musica, però non si limita a esprimere la propria preferenza ma vede complotti dietro il loro successo, li denigra perché “Ehi, non sono mica i Led Zeppelin” e trova ogni pretesto per allacciarsi all’hating generalizzato. Il loro ultimo disco non è stato accolto in maniera particolarmente positiva dalla critica internazionale (anche se i loro ascolti rimangono vastissimi) e questo è stato un assist per chi non vedeva l’ora di puntare il dito, attaccare e denigrare. Anche qui, si è passati dall’orgoglio per la vittoria all’Eurovision a “Io l’avevo detto che facevano schifo”, titillando il proprio ego davanti alle prime fisiologiche difficoltà di una carriera musicale. 

Lev Tolstoj scriveva che “La legge degli uomini è come la banderuola di un vecchio campanile che varia e si muove secondo come spirano i venti”. Può essere rinnegato un ideale, il proprio credo, una convenzione un tempo ritenuta ferrea, purché ci sia una convenienza che possa portare un vantaggio personale anche solo percepito e non reale (nel caso di Berrettini sentirsi parte di un pubblico “unito”). Perché appassionarsi al crollo di un personaggio in vista non migliorerà di certo la tua vita, ma ti darà la sensazione di non essere sullo stesso piano dell’Icaro precipitato. Come a dire: “La mia vita non è soddisfacente, ma almeno anche il vip di turno sta andando in rovina e mi sento meno solo nel fallimento”.

Maneskin

Agli ottavi di finale contro Carlos Alcaraz, numero uno del mondo, Berrettini ha perso a testa alta, secondo pronostico, e la gente ha riabbandonato il carro. Su Instagram, il primo commento che ho letto è stato “Berrettini merda”. Un utente lo ha anche accusato di doping, un altro ha scritto che resta un perdente, sono tornate le speculazioni su Melissa Satta. Le reazioni a caldo più significative sulla sua pagina Instagram: “Dai, adesso fai la borsa e torna a casa a farti consolare dalla cagna”, “Sei un pagliaccio”, “Torna a casa, merda”, “Fai vomitare”, “Tutta la tua famiglia morirà in un incidente stradale”, “Che fottuto inetto, sei un figlio di puttana, sei pieno di merda bastardo”, “Quella zoccola ti ha rovinato la carriera”. Di fronte a un livore simile, le opzioni sono due: siamo un popolo fondato sulla doppiezza, che da un giorno all’altro cambia idea, oppure la nostra società è malata. Anzi, probabilmente il primo caso è solo una conseguenza del secondo.

Una società avvelenata, infatti, intossica chi ne fa parte, e in tal modo la cattiveria e l’odio diventano marchi di identificazione per adeguarsi alla realtà circostante. È come se una moltitudine di insulti legittimasse l’insulto stesso per mezzo della consuetudine al gesto, addirittura incentivandolo: “Lo fanno gli altri, devo farlo anche io”. Se la società agisce come uno specchio, tutti i comportamenti messi in atto dai singoli individui si riproducono in base al sentimento comune, che è infinitamente variabile, anche se prevedibile. Sappiamo benissimo che alla prossima vittoria di Berrettini – o di qualsiasi altro personaggio di successo – le reazioni cambieranno: per spirito di omologazione o semplice tendenza a infierire sul ferito e a innalzare l’eroe. Siamo stati plagiati dal giudizio occasionale, dalla capacità di premere un tasto e poter eliminare una persona come nel televoto di un reality show. Forse, non ci rendiamo nemmeno conto del potere di distruggere il prossimo, di contribuire con un commento scritto distrattamente sui social a inasprire il bullismo di massa e di nutrire la violenza psicologica. Se il dispiacere per i nostri fallimenti viene attutito dalla gioia per quelli degli altri, è evidente che l’intera società abbia una frattura interna, che – almeno a breve termine – sembra insanabile.

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