All’inizio di ogni anno scolastico, in Italia, si ripropone la solita lotta: quella tra gli insegnanti che vorrebbero trattare il tema dell’educazione affettiva e sessuale nelle proprie classi e quelli contrari. Sono passati più di quarant’anni dalle prime proposte di legge che hanno tentato di inserire questa materia all’interno del curricolo scolastico, ma a oggi il dibattito si è concluso con un nulla di fatto. In questo modo, l’Italia non solo si posiziona ad anni luce di distanza da altre nazioni, come Svezia e Olanda, in cui questo insegnamento è garantito attraverso normative specifiche, ma appare sorda ai moniti dell’Oms che caldeggia da tempo l’introduzione formale di questa disciplina riconoscendole un valore importante nel ridurre l’incidenza di aborti precoci, infezioni sessualmente trasmissibili e forme discriminazione legate all’orientamento sessuale. I principali detrattori risultano essere gli esponenti del mondo cattolico e i politici conservatori che, mentre assicurano l’intoccabilità dell’insegnamento della religione cattolica, fomentano dubbi e paure circa l’introduzione dell’educazione affettiva e sessuale nelle scuole.
Attualmente la religione cattolica è prevista in tutte le scuole di ogni ordine e grado, con la possibilità di sostituire questo insegnamento con attività alternative per gli studenti che ne fanno richiesta. L’Italia è un Paese così connotato dalla presenza del cattolicesimo da dare l’impressione che quest’ultimo non abbia un peso nel sistema scolastico, tanto è storicizzata la sua presenza; infatti, è solo con la breccia di Porta Pia, nel 1870, che si avviò un processo tale da ridimensionare e successivamente annullare l’ora di religione. Questo percorso di laicizzazione, però, fu arrestato prima dal Fascismo e successivamente dalla Democrazia Cristiana. L’ordinamento odierno in materia è figlio del concordato del 1984, grazie al quale, tra le altre cose, venne limitato – ma non rimosso – l’insegnamento della religione. Questo insegnamento, in un contesto sempre più multiculturale, è però indubbiamente destinato a essere costantemente divisivo. A questo si aggiunge che sembra essere tra le cause che ostacolano l’insegnamento dell’educazione affettiva e sessuale, in quanto per molti versi, sembra non essere compatibile con la dottrina cristiana.
Negli ultimi trent’anni, numerose forze politiche e religiose hanno impedito la realizzazione di iniziative volte a promuovere l’insegnamento obbligatorio dell’educazione sessuale. Un caso celebre, negli anni Novanta, è stato quello che ha coinvolto il fumettista Guido Silvestri, meglio conosciuto come Silver, a cui il ministero della Sanità aveva affidato il compito di realizzare un opuscolo da distribuire in tutte le scuole superiori per sensibilizzare i ragazzi circa l’esistenza dell’HIV. Il suo personaggio più celebre, Lupo Alberto, avrebbe dovuto spiegare ai giovani come difendersi da questa e da altre infezioni sessualmente trasmissibili anche attraverso l’uso del preservativo. Peccato che, nel giro di poche settimane, il volume sia stato ritirato su richiesta del ministero dell’Istruzione che, a dire dell’allora ministro Misasi, non era stato informato dell’operazione. Molti, però, avevano visto nel gesto del ministro ben altro rispetto a un banale problema di firme e di autorizzazioni: il ministro della Sanità De Lorenzo aveva apertamente parlato di “tabù inviolabili” come unico motivo che avrebbe potuto giustificare tale operazione.
Più recentemente, anche Benedetto XVI si è espresso contro l’educazione affettiva e sessuale. Secondo Papa Ratzinger, queste istanze venivano inglobate nella temuta “educazione di genere” che costituiva una grave minaccia alla libertà religiosa delle famiglie. Benedetto XVI si è fatto portavoce delle posizioni espresse da numerose associazioni ultra cattoliche e conservatrici in riferimento all’avanzare del famigerato “pericolo gender”, un’espressione che ha cominciato a circolare in Italia a partire dal 2011. Come ha ben argomentato la filosofa Michela Marzano nel suo volume Papà, mamma e gender, si tratta di un termine volutamente impiegato in lingua inglese per veicolare la paura di qualcosa di sconosciuto, di straniero appunto, che attacca le nostre tradizioni culturali concepite come “naturali”.
Il mondo cattolico ha così cominciato a porre sotto la lente d’ingrandimento tutte quelle iniziative che, in quegli anni, cominciavano a prendere piede nelle scuole per contrastare gli stereotipi, la violenza di genere e le discriminazioni omotransfobiche. Negli interventi, realizzati in modo discontinuo e disomogeneo mediante il coinvolgimento del personale delle Asl, dei Consultori e dei Centri Antiviolenza, l’educazione sessuale – intesa come la mera espressione delle funzioni biologiche e riproduttive – lasciava il posto a quella affettiva, considerata il punto di partenza per alfabetizzare i bambini e ragazzi al riconoscimento delle proprie e delle altrui emozioni. Le attività avevano pertanto lo scopo di abbattere pregiudizi e stereotipi sul maschile e femminile, insegnando agli alunni l’importanza del rispetto all’interno di ogni relazione, amicale o romantica.
Il fantomatico “pericolo gender” ha messo in allerta tutti, famiglie e scuole comprese. Numerose iniziative sono state pubblicamente screditate attraverso false accuse che incolpavano il personale coinvolto nelle attività di compiere atti osceni in classe, coi bambini obbligati a masturbarsi e a travestirsi. A Trieste, “il gioco del rispetto” nato nel 2013 su richiesta dell’amministrazione comunale e destinato alle scuole cittadine è stato messo al bando solo tre anni dopo, in seguito all’elezione della nuova giunta. Nel 2015, a Venezia, il sindaco Luigi Brugnaro aveva addirittura creato una lista di libri da abolire perché pericolosi.
Politici, amministratori locali, esponenti delle associazioni cattoliche hanno fatto fronte comune impedendo, di fatto, che l’educazione affettiva potesse essere introdotta nelle aule scolastiche, seppur in modo frammentario. Per tutti, l’educazione sessuale doveva necessariamente rimanere dentro le mura di casa, ignorando il fatto che spesso i genitori non hanno né le competenze né il tempo per affrontare questo argomento coi propri figli. Nel nostro Paese, gli adolescenti (ma non solo) non trovano risposte alle loro domande e per questo sono confusi e poco consapevoli rispetto ai rischi connessi all’attività sessuale.
Un report del 2019 relativo a un’indagine promossa dal ministero della Salute lo dimostra chiaramente: più del 10% del campione ritiene che la pillola del giorno dopo sia un valido strumento contro le infezioni sessuali, il 29% delle ragazze, al primo rapporto sessuale, si è affidata al coito interrotto per prevenire gravidanze e rischi connessi alle infezioni sessuali. Secondo uno studio condotto da Unesco si tratta di un problema comune a tutti i Paesi in cui l’educazione sessuale non viene insegnata a scuola: il 60% del campione, composto da giovani tra i 15 e i 24 anni, non sa esplicitare in maniera chiara in che modo avviene la trasmissione del virus dell’HIV.
Se questi dati non bastano, può essere utile osservare gli studi compiuti in altre parti d’Europa al fine di valutare se l’introduzione dell’ora obbligatoria di educazione sessuale abbia dato o no gli esiti sperati. In Germania, dagli anni Ottanta a oggi, il numero di ragazzi che usa un metodo contraccettivo fin dal primo rapporto sessuale è considerevolmente aumentato, soprattutto tra la popolazione maschile. Si potrebbe obiettare che questi dati positivi non siano imputabili alle politiche scolastiche, ma ad altri fattori come ad esempio la presenza di famiglie più consapevoli, in grado di educare meglio i figli. In questo senso, il caso della Finlandia dissolve ogni dubbio: in concomitanza con l’ingresso di questo insegnamento nelle aule scolastiche si sono ridotti i casi di aborto tra le ragazze tra i 15 e i 19 anni. Il fenomeno è però aumentato tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, quando per questioni di budget, i programmi di educazione sessuale a scuola erano stati drasticamente ridotti. La relazione che intercorre tra l’insegnamento obbligatorio dell’educazione sessuale e la riduzione di comportamenti sessuali pericolosi è palese. Sembrerebbero pertanto esserci validi motivi per introdurre in una modalità seria, istituzionale e condivisa questa disciplina a scuola, eppure l’Italia resta indietro.
Nel 2014 il nostro Paese ha ratificato la Convenzione di Istanbul che, tra le altre cose, impone agli stati membri di mettere a punto programmi specifici, anche nelle scuole, volti a contrastare la violenza e ad abbattere ogni forma di discriminazione. Come è facile intuire, l’educazione affettiva e sessuale rappresenta il contesto privilegiato per portare avanti questo genere di iniziativa. Aiutare i ragazzi a conoscere il funzionamento del proprio corpo, promuovere una sana sessualità, formarli al rispetto delle proprie e altrui emozioni costituisce il terreno di base su cui si può, successivamente, lavorare per educarli al contrasto delle discriminazioni di genere, della violenza e del maltrattamento. Una forma di educazione sessuale così intesa risponde anche alle linee guida proposte dall’Oms, in cui più volte si sottolinea come tale insegnamento dovrebbe mantenere un approccio olistico, indispensabile per aiutare i giovani a sviluppare “quelle competenze che li renderanno capaci di determinare autonomamente la propria sessualità”.
Nel 2015, la riforma del sistema dell’Istruzione voluta dal Governo Renzi ha introdotto linee guida nazionali per educare alla parità di genere e alla prevenzione di ogni forma e atteggiamento discriminatorio. Tuttavia, il testo presenta notevoli criticità. Come prima cosa è infatti necessario notare che la legge non cita mai direttamente l’educazione sessuale, finendo di fatto per relegarla sullo sfondo. In secondo luogo, tali indicazioni restano a discrezione dei singoli istituti, che possono decidere se inserire o meno l’insegnamento nei piani dedicati all’offerta formativa. A differenza della religione cattolica – il cui concordato rimane inviolabile – e dell’educazione civica, reintrodotta ufficialmente nel 2019, l’educazione sessuale continua a essere osteggiata sia dal mondo cattolico che da quello politico. Si accusano le associazioni che erogano questi percorsi di essere di parte e fuorvianti, ma di fatto le nostre istituzioni preferiscono non pronunciarsi, salvo poi criticare quelle scuole che, con le proprie forze, tentano di tamponare una situazione critica e delicata.
È difficile non individuare nel disinteresse dimostrato dalla politica verso questo insegnamento un tentativo di proteggere istanze ormai anacronistiche e dannose proprie del mondo cattolico e conservatore, da sempre contrario a parlare liberamente di sessualità. Noi ne abbiamo già fatto le spese, e ora a subire tutto questo sono i nostri alunni, che non solo restano indietro rispetto ai coetanei europei, ma risultano anche più esposti a vivere una sessualità meno sana e più problematica.