Il capitalismo non funziona più. Ce lo dice l’ambiente, ce lo dicono le disuguaglianze sociali e – cosa che dovrebbe farci preoccupare seriamente – ce lo dicono persino i capitalisti: Martin Wolf, uno dei più autorevoli columnist del Financial Times, a settembre 2019 ha pubblicato un articolo in cui ammette e spiega che non possiamo più andare avanti così. Wolf ha sostenuto la tesi espressa in uno statement dello US Business Roundtable in cui 180 Ceo e amministratori delegati di importanti aziende, da Amazon a Goldman Sachs, si impegnano a modificare i loro princìpi e linee guida, dichiarando che non perseguiranno più solo gli interessi dei loro azionisti, ma anche quelli dei loro dipendenti e della società. Non è molto rassicurante che le principali 180 aziende del mondo abbiano ammesso di aver posto fino adesso in secondo piano i diritti dei lavoratori e il progresso della società, e sapere che saremo noi a dover fare i conti con le loro scelte predatorie dettate unicamente dal profitto. Ora che abbiamo tutti appurato che se non cambieremo le cose si metterà molto male, resta da risolvere il problema principale: capire come lo aggiustiamo, questo capitalismo.
La ragione per cui siamo arrivati a questa situazione è abbastanza semplice: il capitalismo contemporaneo premia i cacciatori di rendite anziché i creatori di ricchezza. Cioè, i manager preferiscono impiegare i profitti per comprare azioni anziché investire a lungo termine nelle proprie aziende. Un esempio emblematico è la storia di WeWork, la start up che acquista immobili in tutto il mondo e li trasforma in spazi di co-working. La storia del fallimento di questa ex gemma della Silicon Valley è così assurda che è stato creato da Wondery persino un instant podcast, WeCrashed, per raccontarla. WeWork è stata fondata da un Ceo “guru” dalla personalità parecchio strana, Adam Neumann. Neumann ha fatto registrare come trademark la parola “We” e poi ha rivenduto il marchio alla sua stessa azienda per 5,9 milioni di dollari. Nei giorni di questa assurda transazione, il valore dell’azienda è crollato da 47 a 15 miliardi di dollari. Gli investitori hanno costretto Neumann a restituire i 5,9 milioni e ad allontanarsi dall’azienda. Le scelte discutibili del Ceo hanno distrutto WeWork, che perde circa 219mila dollari l’ora e licenzierà il 50% dei suoi dipendenti, circa 6000 persone, mentre Neumann ha ricevuto una buona uscita di 1,7 miliardi.
“Nel nome dell’innovazione sono state fatte un sacco di cazzate”, ha detto Mariana Mazzucato in un’intervista a Wired UK. Mazzucato è un’economista con doppia cittadinanza italiana e statunitense, che attualmente insegna Innovation and Public Value allo University College di Londra. Nei suoi libri, Lo stato innovatore e Il valore di tutto, editi in Italia da Laterza, espone con chiarezza la sua teoria: il capitalismo con il suo attuale funzionamento ci porterà al collasso, aumentando le disuguaglianze sociali e l’emergenza climatica. L’unica strada percorribile in tempi brevi passa per la sua riforma: serve un’economia che sia in grado di creare valore, non solo ridistribuendo la ricchezza, ma anche generandola.
Per farlo, nel suo libro Il valore di tutto, Mazzucato spiega come sia fondamentale innanzitutto recuperare il concetto di “valore”, termine che oggi ha perso il suo significato economico classico e ha assunto una connotazione astratta: tutti dicono di voler portare “valore” nella società, ma nessuno specifica in cosa consista. Anzi, spesso questa parola viene usata come sinonimo di “rendita”, anche se, come da definizione, si tratta della produzione di nuovi beni e servizi, un processo che coinvolge la produzione e la distribuzione delle merci e il reinvestimento del profitto che viene creato. L’obiettivo dell’economia cosiddetta “produttiva” è sempre stato quello di creare questo valore, ma negli ultimi anni sembra che la sua estrazione sia diventata sempre più preponderante, e che l’obiettivo delle aziende sia ormai quello di trasferire le risorse in modo da guadagnare in maniera sproporzionata dalla loro commercializzazione. Estrarre valore è quello che fa Neumann registrando una parola di uso comune e rivendendola alla propria azienda, per capirci.
Il problema è che la politica tiene la finanza su un piedistallo, misurando la ricchezza delle nazioni secondo i suoi parametri. Nemmeno la crisi finanziaria del 2008 è riuscita a far crollare la fiducia cieca della classe politica nel valore della finanza, che anzi ha beneficiato della deregolamentazione dei mercati. Di contro, la finanziarizzazione dell’economia ha aumentato le disuguaglianze, mettendo in secondo piano i lavoratori rispetto agli azionisti. Per fare un esempio, se, nel 1968, le priorità dell’azienda informatica IBM indicate dal presidente Tom Watson Jr. erano “la considerazione per i singoli impiegati, l’impegno al servizio della clientela e raggiungere l’eccellenza”, nel 2011 quelle dell’amministratore delegato Samuel Palmisano sono diventate “raddoppiare gli utili nei successivi cinque anni”.
Secondo l’economista, per contrastare lo strapotere del capitalismo finanziario si possono prendere alcuni provvedimenti immediati, come rendere il settore finanziario più concentrato su investimenti a lungo termine o tassare le operazioni speculative, ma prima è necessario ribaltare le priorità dell’economia: il valore non va estratto, ma creato. I politici sono troppo interessati a una generica “crescita”, ma non sanno quale direzione questa crescita debba prendere. Secondo Mazzucato, l’unica direzione possibile è quella del valore pubblico. Quello che la finanza si rifiuta di riconoscere è infatti che la creazione di ricchezza è un processo collettivo, che non coinvolge solo gli azionisti, ma anche i lavoratori, i distributori, le comunità in cui hanno sede le aziende e, ovviamente, le amministrazioni locali. La finanza non ha alcun interesse a dialogare con il settore pubblico – se non quando è travolta dalla crisi. Anzi, Mazzucato spigea, tra le altre cose, come sia impegnata in una vera e propria propaganda di svalutazione del pubblico (evidente soprattutto negli Stati Uniti), considerato un impedimento al libero mercato.
Mazzucato è stata consulente di Alexandria Ocasio-Cortez nella stesura del Green New Deal, esempio perfetto di ciò che l’economista intende quando parla di “valore pubblico”. L’idea che vi sta alla base è quella di creare un circolo virtuoso per cui i lavoratori che verranno impiegati nella transizione ecologica godranno a lungo termine dei benefici che essi stessi contribuiranno a produrre: non solo ricchezza economica, ma anche miglioramento della qualità della vita conseguente alla maggiore sostenibilità ambientale. Solo così si creerà un vero valore che potrà essere condiviso da tutti. Per spiegare cosa significa per lei fare innovazione con un valore pubblico, Mazzucato cita il Programma Apollo iniziato nel 1961 e terminato nel 1972 (paragone usato anche da Ursula von der Leyen davanti alla Commissione Ue nel presentare il Green New Deal europeo): impiegando fondi statali, il Programma Apollo aveva un obiettivo preciso, portare l’uomo sulla Luna, e coinvolgeva molti settori dell’economia, dall’industria siderurgica a quella tessile, fino alla medicina. Creò posti di lavoro e fece avanzare la tecnologia, con ricadute in tutti i settori che hanno modificato profondamente la nostra società. Questa è la stessa logica che guida Horizon Europe, il programma europeo di ricerca da 100 miliardi di euro che farà seguito a Horizon 2020, curato proprio da Mazzucato. I fondi verranno elargiti a quei centri di ricerca che propongono progetti in grado di ridistribuire il loro valore a tutta la società.
Questi esempi positivi dimostrano la validità della teoria di Mazzucato. Per l’economista è necessario porsi un obiettivo specifico o, nelle sue parole, “dare una missione all’economia”. Nel report Mission-Oriented Research & Innovation in the European Union, Mazzucato fa alcuni esempi di ciò che intende per missione: liberare gli oceani dalla plastica, rendere 100 città carbon-neutral entro il 2030 o ridurre del 50% i tassi di demenza senile nella popolazione. Queste missioni devono rispondere a cinque requisiti: essere coraggiose e d’ispirazione per la cittadinanza, essere ambiziose e rischiose, avere un obiettivo e una scadenza precisi, coinvolgere settori diversi e permettere di sperimentare. Non si tratta, però, di una lista della spesa di obiettivi generici come si leggono in tanti programmi elettorali, ma di un cambiamento radicale che coinvolge ogni aspetto della nostra vita, come era accaduto per il Programma Apollo.
“Sono necessarie missioni concrete che implicano diversi tipi di collaborazione per combattere i cambiamenti climatici o per vincere il cancro – con obiettivi chiari, una molteplicità di settori e di attori che investono ed esaminano nuovi scenari, ma anche con la pazienza di raggiungere obiettivi a lungo termine”, scrive. Ma Mazzucato ci mette in guardia anche dall’ottimismo: è vero che è necessaria un’economia della speranza, come la chiama lei, ma è anche vero che se questi obiettivi ci sembrano belli e facili significa che non li abbiamo capiti. Cambiare il capitalismo non sarà un’operazione indolore, perché per prima cosa bisogna riconoscere che ha smesso di funzionare. E ciò significa rinunciare o rivoluzionare tutti quegli aspetti della nostra vita che ormai diamo per scontati.