Chiedi a una drag queen cosa significhi essere una drag queen e la risposta sarà quasi sempre: “Poter essere chiunque”. E per chiunque si intende proprio chiunque: da Gloria Gaynor alla casalinga di Voghera. Una donna, un uomo, di nuovo una donna. Oppure qualcosa di completamente diverso. Prima sei la rossa Milva e al cambio di trucco successivo sei un personaggio frutto della fantasia. Esagerate ed eccessive, irriverenti con la loro esasperazione della fisionomia e della psicologia umana. Sicuramente sul filo dell’identità di genere: qualcuno, anche all’interno della comunità gay, le considera troppo effeminate, qualcun altro, nella loro parodia dei ruoli di genere, le vede come un oltraggio alla femminilità. Per molti sono ancora un pericolo pubblico, tanto che negli Stati Uniti l’iniziativa di letture per l’infanzia “Drag Queen Story Hour” è stata considerata dannosa per l’educazione e per lo sviluppo dei bambini.
Nell’arco di cinquant’anni, dalla notte dello Stonewall Inn di New York il 28 giugno 1969 – quando una parte della comunità LGBTQ+ si ribellò ai continui soprusi della polizia gridando “Noi esistiamo” – al World Pride – che quest’anno ha celebrato nella stessa città la nascita del movimento – le drag sono passate dall’essere protagoniste in club malfamati a diventare star e conduttrici di uno dei più seguiti e più premiati reality della storia della televisione, Ru Paul’s Drag Race.
Fino al 1683, quando Carlo II (soprannominato “the merry monarch”, l’allegro monarca) concesse alle donne di recitare a teatro, prima di Ru Paul e di tutte le altre, le drag sono state Lisistrate, Ofelie, Medee e Giuliette, protagoniste delle tragedie, della commedia dell’arte e delle pantomime: se alle donne veniva negata la possibilità di recitare o di partecipare alle funzioni religiose – per salvaguardarne la morale e la virtù e non scatenare gli istinti degli uomini – erano i maschi a doversi calare nei loro panni. Abiti, lunghe sottane e sottogonne che si trascinavano sulle assi del palco: qualcuno fa infatti risalire l’origine del termine al verbo “to drag”, trascinare, e la formula “to put on their drags”, indossare i propri strascichi, inizia a diffondersi nel gergo teatrale tra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo. Un’altra teoria è che “drag” sia l’acronimo di “Dressed resembling a girl”, vestirsi per somigliare a una donna, un ruolo che è stato ricoperto per diversi secoli, ma sempre e solo sul palcoscenico. Fino agli anni Dieci del Novecento, l’omosessualità e il travestitismo erano infatti fuori legge. La diversità veniva criminalizzata e l’embrione della comunità LGBTQ+, soprattutto in Inghilterra, si inventò un linguaggio segreto intriso proprio della terminologia teatrale per potersi sentire al sicuro: il Polari.
Nel frattempo, oltreoceano, il drag iniziava a cambiare. Sono gli anni dei Minstrel Show delle black faces, delle facce pitturate di nero e delle imbottiture a fianchi e seni per deridere le mamas delle quali si esasperano i tratti forti dell’immaginario dell’America rurale e razzista. Gli Stati Uniti erano pronti al passaggio successivo e, tra Broadway e i locali newyorkesi, nacque il vaudeville: le drag non erano più comprimarie, ma prime donne. Julian Eltinge – che può forse essere considerata la prima drag queen del Novecento, o almeno la prima a ottenere la fama – arrivò ad avere compensi degni di Hollywood. Fu il Proibizionismo, per quanto paradossale, a segnare l’inizio dell’ascesa della cultura drag. Vendere alcolici era illegale, così come ballare con una persona dello stesso sesso. Gli speakeasy, i locali dove di nascosto si servivano alcolici, diventarono una sorta di porto sicuro: erano luoghi per pochi, con clientela selezionata, ed essendo il travestitismo un reato, cross-dresser e drag queen si sentivano protetti. I Pansy Craze, le feste in drag all’interno dei club, si espansero dalla costa est a quella ovest. La polizia irrompeva spesso nei locali, arrestava qualcuno, ma la miccia della cultura drag moderna era ormai accesa.
Dopo la seconda guerra mondiale le leggi contro l’omosessualità e il cross-dressing si inasprirono. Negli anni Cinquanta vigeva la three pieces rule, regola dei tre capi: per non essere arrestati per travestitismo occorreva indossare almeno tre capi di abbigliamento conformi al genere di appartenenza. A San Francisco la notte di Halloween diventava l’occasione per infrangere la legge e cross-dresser e drag ne approfittavano per popolare i luoghi di cruising: in mezzo a centinaia di persone in maschera per la festa era più facile farla franca, sfuggire ai controlli e trovare un partner, soprattutto occasionale e spesso a pagamento. La città californiana non era ancora il paradiso della comunità LGBTQ+ che conosciamo oggi. I quotidiani locali invitavano a prendere provvedimenti per cacciare gli omosessuali e la polizia rispondeva con la repressione, chiudendo locali e inventando nuovi reati: gli omosessuali venivano accusati di essere pericolosi per l’ordine pubblico e anti-americani e quindi dovevano essere arrestati. I loro nomi pubblicati sui giornali locali costituivano un outing a mezzo stampa che in molti hanno pagato a caro prezzo.
È quello che accadde a José Sarria, che vide infrangersi contro una denuncia per adescamento il suo sogno di diventare un insegnante. Decise allora di dire basta: “United we stand, divided they’ll catch us one by one”, uniti resistiamo, divisi ci prenderanno uno a uno. Era il 1961 e José era la prima persona omosessuale dichiarata a candidarsi a una carica pubblica, quello stesso consiglio cittadino nel quale qualche anno dopo sarà eletto Harvey Milk, il primo politico gay dichiarato della storia. Dal palco del Black Cat Cafè, club citato anche da Jack Kerouac in Sulla strada, guidò una rivoluzione politica e sociale. Sarria che si era sempre sentito una regina, decise di assumere il titolo di Imperatrice e si comportava come una sovrana illuminata. Sarria unì arte e politica come poche prima e dopo di lui: la sua versione della Carmen, con la protagonista che deve scappare alle retate della polizia, è poi diventata un classico del suo repertorio. La polizia reprimeva, l’Imperatrice trovava nuovi modi per tutelare i suoi sudditi. Con il rafforzamento della legge contro il cross-dessing, Sarria e il suo avvocato, Melvin Belli, escogitarono uno stratagemma: alle drag diedero una spilla con la scritta I am a boy, sono un ragazzo. Esplicitando che sotto trucco e parrucco ci fosse un uomo, le drag non potevano più essere accusate di ingannare nessuno. Per un po’ la polizia allentò la presa sui raid di Halloween. Sarria non venne eletto, ma recapitò a Democratici e Repubblicani un messaggio chiaro: in futuro la politica avrebbe dovuto bussare alle porte della comunità per avere voti.
Mentre l’Imperatrice lottava contro tutto e tutti, nel resto degli Stati Uniti ci si preparava a dare l’impulso definitivo alla nascita del movimento di liberazione. Se cinquant’anni dopo siamo ancora qua a discutere chi tra Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson abbia tirato il primo mattone contro la polizia, creando quell’effetto domino che sono stati i moti di Stonewall, una cosa è certa: le drag, latine, nere, figlie delle minoranze, quella notte e nelle successive erano in prima fila. Tra queste Flawless Sabrina, che, dopo aver prodotto il documentario The Queen nel 1968, creò i primi concorsi di bellezza per drag queen, su tutti il Miss all American beauty pageant. Erano tentativi di normalizzare un’arte che lo Stato ancora criminalizzava. La regola dei tre accessori di vestiario conformi al genere vigeva ancora e Flawless Sabrina, che in drag si era presentata anche a un talk show televisivo ed era stata più volte arrestata, riusciva a incorporare qualche capo da uomo nei suoi costumi, per non incorrere in sanzioni. Erano gli anni Settanta e, soprattutto a New York, si diffondeva la cultura dei drag ball, vere e proprie feste a tema all’interno delle quali nascevano relazioni, famiglie e dinastie, dove i nomi si tramandavano di madre in figlia artistica come veri e proprio titoli nobiliari, come ben raccontato nella serie tv Pose e nel documentario di culto Paris is Burning.
Dopo gli anni Sessanta, le drag hanno intrecciato indissolubilmente la loro storia con quella del movimento LGBTQ+, anche se a oggi una parte del movimento fatica a riconoscerne il ruolo e l’importanza. Icone, sì, ma spesso considerate scomode e destinate a dividere. Anche all’interno del movimento per qualcuno le drag sono “troppo”. E allora al Pride di Glasgow si propone di precludere loro la parata: potrebbero offendere le persone trans. Una dimostrazione della confusione sul significato dell’essere drag e dell’essere trans, come se le due cose potessero essere sovrapponibili. Come se un vestito e una performance definissero l’orientamento sessuale o il genere di un essere umano. Che il drag sia un’arte è fuori discussione, un’arte che tra l’altro non è più appannaggio dei soli uomini e non solo di uomini omosessuali: negli spettacoli, soprattutto a livello locale, faux e bio queen (donne vestite da donne) e drag kings (donne in abiti maschili) spopolano.
Prima del Novecento le drag erano una necessità per interpretare quei ruoli che, per la moralità del tempo, le donne non avrebbero potuto interpretare. Oggi sono le maschere dei pregi e dei difetti degli esseri umani. Sono lo specchio di una società che cambia e si trasforma con la stessa velocità di un cambio d’abito. La cultura drag è sempre più apprezzata: anche grazie alla popolarità ormai decennale del reality Ru Paul’s Drag Race, le drag partecipano a serie tv, programmi televisivi, videoclip musicali. Le concorrenti della Race calcano passerelle di moda e sono ormai personalità di rilievo nel settore, portando in giro i loro spettacoli per tutto il mondo. Ogni anno, a Los Angeles, New York e Londra si tengono le DragCon, le fiere drag che attirano milioni di partecipanti. Raccogliendo l’eredità di regine del palcoscenico, le drag moderne si stanno conquistando un nuovo spazio. Giocando con gli stereotipi e con i pregiudizi fino a renderli ironicamente inoffensivi. Le drag sono la dimostrazione che ognuno di noi può trovare la libertà di essere veramente chiunque. E una libertà del genere si sa, fa paura.
“God saves us Nelly Queens”, Dio salvi le regine effeminate, cantava nei suoi spettacoli l’Imperatrice. Oggi, grazie anche persone come Sarria, le regine sanno difendersi da sole. Nonostante in molti non conoscano la loro storia.