Dormire poco per non sprecare tempo non porta al successo ma alla devastazione - THE VISION

“Dormirò quando sarò morto”, cantava il rocker statunitense Warren Zevon nel 1976. La frase, come spesso succede nella società capitalistica, nel corso del tempo è stata ripresa nei più svariati campi, dal cinema al marketing, distorta e piegata alle esigenze del mercato, finendo per diventare uno slogan tossico del superlavoro. Il nostro tempo su questo pianeta è limitato, per questo per avere successo e fare bene il proprio lavoro è necessario dormire poco e sprecare meno tempo possibile. O almeno, è questo uno dei modelli di riferimento che continua a proporci la società della performance, dove la privazione del sonno per produrre sempre di più si trasforma in un vanto sociale. Se è vero, però, che per quanto riguarda alcuni lavori può capitare di dormire poco, rendere questa una routine è deleterio sotto tutti i punti di vista, oltre a rivelarsi controproducente anche per le attività stesse che si stanno svolgendo. Uno degli esempi più lampanti riguarda il caso di Arianna Huffington, fondatrice del celebre blog omonimo, che ha raccontato di aver condotto una vita molto frenetica, arrivando a lavorare addirittura 18 ore al giorno e dormendo pochissime ore a notte. Un trend bruscamente interrotto in un pomeriggio del 2007, quando svenne per la stanchezza mentre rispondeva ad alcune e-mail. Una volta tornata in sé, l’imprenditrice si è ritrovata in una pozza di sangue con uno zigomo rotto e un taglio sotto l’occhio. Il motivo dello svenimento era banale quanto fondamentale: la mancanza di sonno. Da quel momento Huffington ha cambiato completamente la sua vita, diventando una vera e propria attivista per diffondere l’importanza del sonno, come racconta anche nel suo libro The Sleep Revolution. Un’evoluzione sorprendente e decisamente controcorrente, tenendo conto che la giornalista greco-statunitense oggi vive a New York, “la città che non dorme mai”.

La questione di quanto sia importante il sonno è tornata centrale negli ultimi giorni con il dibattito sulla studentessa prodigio, Carlotta Rossignoli, già premiata nel 2017 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il riconoscimento di “Alfiere del Lavoro” per meriti scolastici, che è convinta dell’inutilità di un corretto riposo. “Il sonno è tempo perso”, ha dichiarato Rossignoli, per questo studiare “dalle sei del mattino fino anche alle due di notte” in sessione d’esami è assolutamente normale. Affermazioni che hanno fatto discutere, specialmente perché pronunciate da una neolaureata in Medicina, che sogna di diventare cardiologa. La scienza, infatti, è molto chiara sull’argomento: l’insonnia cronica può comportare effetti anche gravi sulla salute, come ipertensione, obesità, ictus, infarto, oltre alla propensione a sviluppare patologie psichiatriche, dallo stress, passando per la depressione, fino alla paranoia. Uno studio recente pubblicato su Plos One, ha dimostrato inoltre che chi ha più di cinquant’anni e dorme solo cinque ore o meno per notte corre un rischio fino al 45% maggiore di ammalarsi di più patologie croniche rispetto ai coetanei che hanno una media di sette ore di riposo quotidiane. Una ricerca condotta dalla National Sleep Foundation e pubblicata su Sleep Health, ha inoltre individuato le ore di sonno appropriate in base alle diverse fasce d’età. Ad esempio, gli adolescenti (dai 14 ai 17 anni) dovrebbero dormire tra le otto e le dieci ore a notte. Ai giovani tra i 18 e i 25 anni è un consigliato invece un intervallo di sonno che va dalle sette alle nove ore, ma potrebbe andare bene anche un riposo da sei fino a dieci-undici ore, e la stessa cosa vale per l’ampia fascia 26-64 anni. Dormire meno di sei ore a notte è sempre altamente sconsigliato.

A dispetto di quello che sostengono presunti stacanovisti come Rossignoli, spesso, peraltro, dormire poco non è frutto di una scelta volontaria, ma la conseguenza diretta di problemi di insonnia, con cui devono fare i conti milioni di persone, oppure esigenze di guadagno. L’insonnia è la forma più diffusa dei disturbi del sonno e nella sua forma cronica ne soffre tra il 10% il 13% della popolazione italiana, e fino al 60% nelle forme acute e transitorie (della durata di qualche settimana) – che si possono sviluppare a seguito di un evento traumatico, come un lutto, un grave litigio o la fine di una relazione. Secondo l’Associazione italiana per la ricerca e l’educazione in medicina del sonno (Aims), tra le persone che soffrono di insonnia ci sono soprattutto donne e anziani, che rappresentano il 60% del totale. “Negli anni Quaranta le persone dormivano in media poco più di otto ore a notte. Ora, nell’era moderna siamo scesi a circa sei, sette ore a notte”, ha affermato Matt Walker, professore di Neuroscienze e Psicologia all’Università di Berkeley. ”Negli ultimi 70 anni abbiamo perso, in media, il 20% delle ore che destiniamo al sonno”.

Le conseguenze della carenza di sonno, poi, non riguardano solo il benessere psicofisico della persona che soffre di insonnia, ma hanno ricadute importanti anche sulla qualità del suo lavoro e quindi delle altre persone. Secondo i dati della World Association of Sleep Medicine (Wasm), basta una sola notte di sonno intermittente a far calare l’attenzione, la capacità di apprendimento e la memoria il giorno seguente. Non a caso, quasi la metà (46%) di chi ha un sonno disturbato commette errori sul lavoro. A volte, però, le conseguenze possono essere molto più gravi, addirittura fatali. Nel settore dei servizi finanziari, per esempio, i casi di suicidi e morti collegate al troppo lavoro, sono numerosi. Arianna Huffington nel suo bestseller riporta la storia di uno di questi giovani banchieri, Sarvshreshth Gupta, analista finanziario al suo primo anno di lavoro nell’ufficio di Goldman Sachs a San Francisco, che nell’aprile del 2015, a soli ventidue anni, si tolse la vita. Come ha raccontato il padre, in un saggio dal titolo Un figlio non muore mai, Gupta era sopraffatto dalla mole di lavoro e dalle responsabilità, lavorava circa venti ore al giorno e spesso anche durante i fine settimana. Aveva condiviso con i genitori la sua disperazione e alla fine, a marzo 2015, si era licenziato. Poco dopo, però, su pressioni della banca per cui lavorava, era tornato a lavorare. Soltanto una settimana dopo, il giovane analista si lanciava nel vuoto dal grattacielo in cui si trovava il suo ufficio. La notte prima, alle 2:40, Gupta aveva chiamato i suoi genitori dicendo loro: “È troppo. Non dormo da due giorni, domattina ho un incontro con un cliente, devo completare una presentazione, il mio vicepresidente è infastidito e sto lavorando da solo nel mio ufficio”.

Eppure, la filosofia del “chi dorme non piglia pesci” continua a spopolare, soprattutto in certi ambienti imprenditoriali e startup. Le frasi motivazionali e le dichiarazioni altisonanti di CEO ed ex CEO – come Richard Branson, fondatore di Virgin Group, che si sveglia ogni giorno alle 5:45 per fare le flessioni o Elizabeth Holmes, ex fondatrice e AD di Theranos, da poco condannata per truffa, che dorme solo quattro ore a notte, e ancora Tim Cook, CEO di Apple, che punta la sveglia ogni mattina alle 3:45 per rispondere alle e-mail – hanno fatto il giro del mondo e, nonostante i cambi di rotta e i pentimenti negli anni successivi, il messaggio ormai è passato e si è radicato nella testa di milioni di giovani lavoratori, convinti che il sonno sia solo un intralcio al successo nel lavoro. Un esempio recente di questa convinzione arriva niente meno che da Twitter, al centro dell’occhio mediatico per via della sua acquisizione miliardaria da parte di Elon Musk.

Elon Musk

L’uomo più ricco del mondo sta stravolgendo alcune regole del noto social media e, fra diverse polemiche, ha licenziato circa 3700 dipendenti in un giorno solo. Non solo: ha chiesto a quelli rimasti di lavorare 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. C’è chi ha preso alla lettera le parole di Musk e ha deciso addirittura di dormire in ufficio, per portare a termine i propri compiti: la foto della dipendente Esther Crawford, immortalata da un suo collega mentre dorme su un materassino da campeggio, avvolta in un sacco a pelo e con una mascherina per il sonno, è diventata subito virale. Crawford ha risposto pubblicamente alle critiche scrivendo sul suo profilo che “Quando la tua squadra lavora h24 per rispettare le scadenze, a volte è necessario #DormireSulPostoDiLavoro”. Crawford, d’altronde, non è di certo l’unica: in Giappone esiste addirittura una parola, inemuri, per giustificare chi dorme o si appisola momentaneamente in pubblico o in ufficio. Il termine indica infatti l’abitudine di addormentarsi come prova del proprio impegno e della dedizione assoluta al proprio lavoro. Il gesto non viene quindi giudicato, come accadrebbe in Europa, come una mancanza di attenzione o di impegno o la conseguenza di una notte brava, ma come segno di stacanovismo. Dormendo direttamente in ufficio, il lavoratore, infatti, può tornare subito disponibile a terminare i propri compiti, senza perdere tempo prezioso.

Mentre la società della performance, in nome della produttività, continua a proporci come modelli di successo personaggi che fanno dello stacanovismo e della privazione del sonno un vanto, c’è anche chi, fortunatamente, si ribella a questo paradigma e mette in pratica una forma silenziosa di protesta. Ultimamente, infatti, si parla sempre più spesso, di quiet quitting, espressione inglese che in italiano si può tradurre con “abbandono silenzioso”, che si riferisce alla volontà di lavorare il minimo indispensabile, senza fermarsi oltre l’orario di lavoro in ufficio. Le nuove generazioni, in particolare, sono sempre meno disposte a mettere la carriera davanti alla salute, agli affetti e al proprio tempo libero: al contrario di ciò che credono e sostengono alcuni, dormire non è affatto una perdita di tempo, ma un’attività fondamentale per condurre una vita sana ed equilibrata, e per lavorare meglio ed essere più produttivi. Non a caso, in molti dei Paesi più avanzati del mondo da anni si è cominciata a sperimentare la settimana lavorativa corta, con ottimi risultati sia dal punto di vista della soddisfazione dei dipendenti e dei datori di lavoro sia nei tassi di produttività. I dati lo confermano: lavorare più di otto ore al giorno e dormire poche ore per notte non garantisce buoni risultati. Dovremmo mettercelo in testa.

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