Siamo sempre più dipendenti dalle cattive notizie e questo aumenta la nostra angoscia e infelicità - THE VISION

Alcuni anni fa, la madre di una cara amica mi parlò di una sua strana abitudine quando leggeva il quotidiano. Mi disse che la prima pagina che leggeva tutti i giorni era quella dei necrologi perché, diceva, “se devo avere una brutta notizia voglio averla subito, senza sorprese”. La spiegazione mi lasciò perplessa: l’idea che anticipare, anche solo di pochi minuti, la scoperta di una brutta notizia potesse attenuare la spiacevole sensazione di sorpresa non mi aveva convinto. Ma, ripensando oggi a quella rivelazione, sembra naturale fare un parallelismo con un comportamento che tutti abbiamo sviluppato a seguito del proliferare di eventi drammatici che ci riguardano sempre più da vicino, cioè la ricerca – più o meno compulsiva – di cattive notizie. La motivazione sembra la stessa che adduceva la madre della mia amica: se appena svegli, spesso ancora a letto, scopriamo cosa è accaduto di spiacevole nel mondo, ci illudiamo di tenere sotto controllo quell’evento e, insieme, la nostra paura e vulnerabilità. Questa tendenza oggi ha un nome: doomscrolling.

L’etimologia del termine, sinonimo del meno comune doomsurfing, è una crasi tra le parole inglesi to scroll (scrollare) e dooms (sventure), e sta a indicare la tendenza sempre più diffusa a “scrollare” di continuo le pagine dei social media e del web alla ricerca di brutte notizie. Lo facciamo in qualunque momento della giornata: la mattina a colazione, a lavoro durante la pausa, la sera a fine giornata sul divano, quando siamo stanchi ma non abbastanza da mettere un freno al nostro impulso. Se la prima attestazione della parola risale al 2018, quando apparve in un post su Twitter, è nel 2020, con l’esplosione della pandemia, che doomscrolling è stata scelta dall’Oxford Dictionary come parola dell’anno, assurgendo a vera e propria dipendenza.

Paul L. Hokemeyer, psicoterapeuta esperto di dipendenze e autore del saggio Fragile Power: Why Have Everything Is Never Enough, sostiene che il doomscrolling abbia molte caratteristiche comuni ad altre forme di dipendenza digitale. “Sembra illogico”, dice Hokemeyer, “che le persone consumino enormi quantità di notizie e che ciò li aiuti a tenere sotto controllo la negatività che c’è nel mondo e che rischia di sovraccaricarli emotivamente, ma questa è la natura di un disturbo”. Poi continua: “Il doomscrolling avviene non per ragionamenti logici ma come effetto di  pulsioni primordiali, che hanno origine nella parte più primitiva del nostro cervello conosciuta come il nostro sistema limbico”. Hokemeyer spiega che la ricerca di informazioni sul web riguardo eventi tragici regala un’immediata sensazione di conforto. “Il doomscrolling dà a chi ne è affetto la sensazione di controllo sulle propria vita”. Ma è solo un’illusione momentanea perché “quello che ottengono è rendere più acuta la propria reattività emotiva. In breve tempo, il doomscrolling li ha sopraffatti e si sono persi in un’angoscia più profonda e più intensa, consci di trovarsi in un mondo insicuro e pericoloso”.

La pandemia ci ha fatto precipitare in uno stato di paura collettiva, alimentato dalla solitudine, dall’assenza di libertà e dal costante senso di precarietà. La paura di essere contagiati, sommata alle restrizioni e a uno stile di vita cui non eravamo abituati, ha acuito la diffusione di ansia sociale e stati di depressione e infelicità. Lo scoppio della guerra – in un momento in cui sembrava che l’emergenza Covid stesse finalmente rientrando – ha poi esacerbato la sensazione di essere in un tunnel di paura e angoscia senza via d’uscita, con il web che, pur consentendoci di restare aggiornati su ciò che accade, a volte ci fa sprofondare nel baratro del doomscrolling. Tutti abbiamo paura, così cerchiamo di tenerci costantemente informati, ma questo ci impedisce di mantenere un distacco dagli eventi traumatici e di distrarci, con un impatto devastante sul nostro benessere psicologico.

Il doomscrolling scaturisce dal primordiale bisogno di rilevare le situazioni di rischio potenziale o effettivo. Se in condizioni normali è effettivamente utile per proteggerci dal pericolo, come scrive la docente di psicologia clinica Mary McNaughton-Cassill sul Wall Street Journal, “questo può capitare anche quando non è affatto utile”. La psichiatra Anna Lembke ha spiegato il meccanismo della dipendenza da doomscrolling: “Il cervello, di fronte a un dolore intenso, reagisce rilasciando una grande quantità di dopamina: ciò suggerisce che si possa sviluppare una dipendenza per il dolore. Questo lo vediamo anche clinicamente: esistono delle persone che sviluppano una dipendenza per le forme di esercizio fisico più estreme, così come esistono i cosiddetti ‘drogati di adrenalina’, che non riescono a rinunciare ad attività pericolose e sport estremi. A Stanford ho pazienti che ammettono di essere dipendenti dalle cattive notizie. Consumano news in un modo compulsivo, mi dicono di rendersi conto di non poter esercitare controllo su questa abitudine”. Lembke continua affermando che quando chi è affetto da doomscrolling prova a disintossicarsi, compaiono i sintomi universali dell’astinenza: irritabilità, insonnia, disforia.

Il web giocherebbe un ruolo fondamentale nell’acuire questi sintomi, perché le notizie tendono a presentarsi in una forma che favoriscono la dipendenza. Il meccanismo del clickbait porta alcune testate e siti a confezionare titoli sensazionalistici, che attraggono nella rete milioni di utenti; inoltre, gli algoritmi  ci pongono quotidianamente di fronte a notizie e informazioni in linea non solo con i nostri interessi e idee, ma spesso anche con le nostre ossessioni. Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta del centro Psico Medical Care di Humanitas, ha spiegato che il doomscrolling si manifesta in particolar modo “in coloro che hanno una predisposizione genetica per disturbi psicologici”. Sono gli individui che soffrono, o sono predisposti a soffrire, di disturbi di ansia e che quindi hanno più probabilità di sviluppare la mania del controllo come strumento per gestire l’ansia. Le persone ossessionate dal doomscrolling, secondo gli studi, avrebbero, inoltre, “un’attivazione maggiore rispetto alla norma della circonvoluzione frontale inferiore, deputata all’elaborazione delle nuove informazioni”.

New York, 11 settembre 2001

Il circolo vizioso del doomscrolling è alimentato anche dai bias di conferma, che ci portano a ricercare arbitrariamente – senza l’ausilio degli algoritmi – tutte quelle notizie che confermano il nostro punto di vista sulle cose; chi ha una visione pessimistica del mondo, quindi, finirà per trovare sul web materiale che acuisca il suo malessere e la percezione negativa della realtà che lo circonda. Ma tutto ciò ha un effetto devastante sulla salute psichica e il benessere emotivo di ciascuno, perché la spirale del doomscrolling aumenta esponenzialmente la nostra angoscia, impedendoci di far fronte allo stress. Già nel 2016, in occasione delle presidenziali negli USA e della sensazione di malessere che suscitavano nei cittadini americani, il terapeuta Steven Stosny coniò il termine “disturbo da stress da titoli”, che pur non rientrando nella nosografia psichiatrica ufficiale ha molte affinità con il doomscrolling.

Hillary Clinton con i suoi supporter dopo le elezioni del 2016

Per porre rimedio a questa nuova forma di dipendenza, gli esperti concordano nell’individuare tre fasi di disintossicazione. Innanzitutto bisogna prendere coscienza del problema evitando di sottovalutare i sintomi, e a tal proposito la psicologa Elisa Morrone suggerisce di controllare spesso la cronologia delle nostre ricerche come esercizio di consapevolezza. Dopo aver preso coscienza del problema, poi, è necessario porsi dei limiti nell’accesso al web e alle fonti di notizie negative. Adam Gazzaley, neuroscienziato e coautore del libro The Distracted Mind: Ancient Brains in a High-Tech World, sostiene che, per resistere all’overdose da informazioni, bisogna creare una sorta di dieta, un piano per controllare l’introito di news drammatiche che assumiamo ogni giorno. Infine, altra buona abitudine è prendersi del tempo per distrarsi da ciò che accade, senza farsi trascinare nel vortice dell’informazione costante. In questo modo possiamo provare a difenderci dalla trappola del doomscrolling, che ci illude di tenere sotto controllo la nostra ansia e che, al contrario, la acuisce, rendendoci dipendenti dalla nostra cattiva abitudine e impedendoci di venirne fuori senza soffrirne fisicamente e psicologicamente.

Segui Giulia su The Vision