Penso sia successo quasi a tutte le donne almeno una volta nella vita di dover interpretare il ruolo della salvatrice in una coppia. C’è questa strana convinzione, ereditata da secoli di sottomissione ed esclusione dalle dinamiche “serie” della vita, per cui le ragazze sono di norma quelle giudiziose, attente, premurose, accoglienti, responsabili, i famosi angeli del focolare che mentre i cacciatori vivono il mondo fuori preparano un pasto caldo. E non c’è bisogno di andare troppo lontano per cercare degli esempi concreti di questa mentalità. In una classe di liceo, ci sono molte probabilità che le allieve più assennate siano femmine, quelle che non dimenticano mai di fare le versioni e quelle da cui copiare i compiti per casa – mentre di solito lo studente brillante ma tormentato, il classico “bravo che non si impegna” sarà probabilmente un maschio. Anche nelle relazioni spesso si instaura questa dinamica per cui la parte femminile gioca il ruolo positivo e costruttivo: quante volte abbiamo sentito dire frasi come “Ma le ragazze maturano prima! I ragazzi sono tutti dei bambinoni, si sa”.
Da un lato si tende a giustificare l’immaturità di un sesso con la riduzione a un tratto di genere che legittima la personale tendenza al rifuggire da impegni e responsabilità, dall’altro si glorifica la femminilità in quanto portatrice di sani principi e valori “materni”. Entrambe le valutazioni, mi sembra quasi scontato dirlo, sono frutto di stereotipi e luoghi comuni, ed entrambe sono pregne di sessismo: da donna non c’è niente che mi infastidisca di più che questa rappresentazione in stile Beata Vergine Maria che inquadra il genere femminile all’interno di un pregiudizio per cui noi siamo quelle buone e giuste. Un modo di pensare peraltro tipicamente maschile, figlio di quel genere di argomentazione “Ma le donne sono superiori, le donne hanno una marcia in più, le donne, loro sì che sono avanti”. Come se l’essere una femmina mi garantisse un biglietto prioritario verso il paradiso, perché la mia personalità è già determinata dall’apparato riproduttivo che la natura mi ha concesso, sminuendo così non solo le mie conquiste e i meriti che ho ottenuto a prescindere dal mio sesso – attribuendo al solo fatto di essere donna tutte le mie qualità – ma sottintendendo che in quanto appartenente al genere femminile io debba necessariamente essere dotata di una saggezza e di una superiorità d’animo maggiore. Anche perché questa idea della bontà di spirito e della suddetta superiorità non è altro che un modo ipocrita e disonesto di sottolineare ulteriormente la subalternità della donna rispetto all’uomo, e non c’è niente di più irritante di uno sbruffone che esalta l’amico scemo riempiendolo di complimenti, ben conscio di essere lui quello che comanda.
Non è così: le donne sono cattive, false, approfittatrici, disoneste, ladre, assassine; come possono essere buone, altruiste, coraggiose, premurose. Dipingerle come portatrici sane di dolcezza e comprensione equivale a confermare ancora una volta la gabbia nella quale si sono dovute muovere per secoli, quella del “gentil sesso”, per usare un’espressione gratificante, o del “sesso debole”, per usare invece la traduzione che tutti hanno in mente. Una donna non è donna in quanto madre, né in quanto badante sentimentale di uomini scapestrati. La maternità e il cosiddetto spirito da crocerossina – inteso nella sua accezione più negativa, quella che spinge alcune donne a ricercare relazioni tossiche con l’altro sesso pur di appagare questa esigenza di cura verso qualcuno – sono due elementi che possono fare parte della persona, così come possono anche non determinarla a priori. Le differenze del genere femminile rispetto a quello maschile esistono, ma così come non sono da considerarsi né una debolezza né un difetto, non possono essere viste nemmeno come un pregio che si eredita inevitabilmente dal momento che si viene al mondo donne.
Nelle relazioni eterosessuali capita spesso di constatare che questa idea prenda la forma di una missione salvifica, poiché la donna in quanto essere superiore ha il dovere di far ritrovare la retta via alla pecorella smarrita – è in qualche modo anche l’effetto collaterale di quello che in inglese viene definito il Florence Nightingale effect. La mia esperienza di donna in questo ambito è piuttosto esemplificativa: ricordo che una volta a un battesimo io e il mio ragazzo eravamo in vena di fare cose simpatiche e siamo andati a farci la comunione davanti a tutti gli invitati alla cerimonia. Né io né lui avevamo il diritto di compiere questo gesto blasfemo, considerato che io non sono neppure battezzata, ma i commenti fuori dalla chiesa sono stati tutti molto simili: i suoi parenti avevano immaginato che io lo avessi persuaso a ritrovare Dio e la fede. L’equazione “donna uguale angelo” si era attivata automaticamente nella testa di quasi tutti, gli unici a scamparne erano stati i più furbi i quali avevano bene in mente che quel gesto poteva semmai qualificarmi come una cretina irrispettosa più che come una Madre Teresa di Calcutta.
La stessa dinamica investe specialmente le relazioni pubbliche, quelle che nascono già sotto l’occhio inquisitorio degli spettatori, sempre pronti a mettere bocca – specialmente da quando esistono i social – sugli affari delle star, con la solita argomentazione che se si è scelto di rendere la propria vita visibile a tutti allora è lecito anche che tutti la commentino come meglio preferiscono. Di recente un caso è stato particolarmente emblematico, ovvero quello di Ariana Grande e Mac Miller. I due artisti americani sono stati insieme dal 2016 fino alla primavera del 2018, collaborando in più occasioni anche come cantanti. Nel settembre del 2018, Mac Miller è stato trovato morto a causa di un mix letale di droghe, ma la sua fine tragica, sebbene sconvolgente per il mondo della musica, non è arrivata alla cronaca in modo del tutto inaspettato, dato che la sua dipendenza e il suo disagio erano stati già più volte manifestati dal rapper. La reazione di molti fan alla morte Mac Miller, tuttavia, è stata tra le peggiori che ci si potesse aspettare: tantissimi infatti hanno accusato Ariana Grande di essere la causa di questo epilogo drammatico, in quanto fidanzata egoista che aveva lasciato il suo uomo per stare con un altro.
Prima ancora che il rapper morisse infatti, schiere di fan accecati dall’idea che qualsiasi cosa avvenga nel mondo dello spettacolo sia possibile oggetto di fanfiction avevano rimproverato alla cantante di aver lasciato solo un uomo sofferente. La risposta di Ariana Grande è sempre stata molto chiara, specialmente dopo la morte dell’ex compagno: “Non sono una baby sitter, né sua madre”. La relazione che vivevano i due era a sua detta inquinata da uno stato tossico, pericoloso, e la sua scelta di lasciarlo è semmai stato un atto di forza. Decidere di aiutare una persona di cui si è innamorati e che si trova in difficoltà deve essere una missione che prescinde dal ruolo che la società ti ha dato – in questo caso, la crocerossina pronta a salvare il mondo con il sorriso e “un poco di zucchero” – ma soprattutto, non può avere come conseguenza la distruzione di due vite. Ariana Grande avrà avuto i suoi motivi per lasciare Mac Miller, e come stessero le cose lo sapranno sempre e solo i due diretti interessati. Ma le reazioni di massa danno voce al sentire comune, e al pubblico di due star americane di enorme successo spetta l’arduo compito di non lanciarsi in valutazioni fuori luogo. Perché di quei centomila tweet sull’argomento, la maggior parte contiene in sé il germe di un pensiero inattuale, radicato e sbagliato.
Non è un episodio molto diverso dalla famosa vicenda di Kurt Cobain e Courtney Love, a lungo accusata di essere responsabile del suicidio del marito. In quel caso era Courtney Love stessa che si trovava in una condizione di dramma esistenziale e dipendenza dalle droghe tanto quanto Cobain: perché quindi ci si sarebbe dovuti aspettare una sua mossa salvifica sull’anima perduta del cantante grunge? Allo stesso modo, ma con ruoli invertiti, Yoko Ono per decenni è stata individuata come la rovina scesa in terra di John Lennon. In pratica se sei una donna e se ti trovi a contatto con un uomo problematico, il riflesso automatico dell’opinione comune è che tu sia nient’altro che l’elemento che determina il successo o la disfatta di quella persona – per non parlare delle accuse rivolte ad Asia Argento dopo la morte del compagno Anthony Bourdain. O sei quella famosa grande donna che sta dietro al grande uomo, o sei la strega che irretisce i suoi sensi e lo trascina a picco nell’inferno della perdizione. Questo perché ancora, nonostante le cose stiano cambiano e i rapporti tra i due sessi siano sempre più spinti verso una direzione di parità, il femminile è interpretato come subalterno, coprotagonista della narrazione principale, ovvero quella maschile. Così, come ci mostra Donald Glover nel video di Feels like summer, Kanye West avrebbe bisogno della guida spirituale di mamma Michelle Obama per ritrovare la strada della ragione e levarsi quel cappellino da idiota trumpiano dalla testa. Avrebbe bisogno di una bella “big mama” che lo rassicuri stringendolo al suo petto accogliente e gli sussurri che è stato solo un brutto sogno, adesso le cose si rimetteranno a posto.
Che si tratti delle vicende di personaggi famosi o delle nostre vite da esseri umani senza milioni di follower, il punto rimane invariato. Gli stereotipi di genere fanno male, perché come tutti gli stereotipi incasellano le persone e le trasformano in macchiette. Che siano donne, uomini, o trans aspettarci che un individuo reagisca e agisca secondo uno schema precostituito annulla la libertà d’espressione di ognuno di noi e ci relega a un ruolo preconfezionato. Le donne non sono tutte creature perfette, buone, premurose e pronte a salvare qualsiasi essere umano dalla perdizione e dai tormenti dell’anima. Così come gli uomini non sono solo dei discoli che non fanno i compiti a casa o che rischiano di corrompere la purezza delle vostre figlie. Sarebbe bello se riuscissimo a mettercelo tutti in testa, così magari – sia maschi che femmine, anche se nel secondo caso è palesemente più frequente che avvenga – si potrebbe evitare di incappare in quel genere di cortocircuito emotivo per cui “ma lui ha bisogno di me, io lo sto salvando”, e poi finisce tutti al pronto soccorso, con gli infermieri e le infermiere vere, non quelle che giocano alla parte.