Siamo abituati a pensare alle donne come assenti dalle guerre. Sebbene poche nazioni prevedano per loro la leva obbligatoria, e siano generalmente lontane dalle linee di combattimento, nella gran parte dei casi subiscono comunque tutto il peso dei conflitti, diventando in molti casi vittime di stupri, violenze e torture, deportazioni e massacri, oltre che della povertà che porta con sé ogni conflitto. Le donne e i bambini, così come gli anziani, sono i primi testimoni della distruzione di case e intere città. Ma sono state proprio le donne ad aver mandato avanti i Paesi mentre gli uomini erano al fronte e a risollevarli una volta che il conflitto era terminato.
Le palestinesi, da questo punto di vista, possono essere considerate come parte di una genealogia di donne in lotta. Dato che si sente spesso parlare della condizione di subalternità in cui vivono le donne nei Paesi islamici, molti ignorano che in Palestina hanno cominciato a rivendicare libertà e diritti molto tempo fa, spinte in larga misura dallo stato di assedio dell’occupazione israeliana. Da quando, con la complicità della comunità internazionale, la Palestina è stata occupata dai sionisti, è infatti diventata una sorta di prigione a cielo aperto i cui confini sono controllati militarmente da Israele. Lo stato di oppressione costante in cui la popolazione è costretta a vivere da decenni impedisce l’evolversi dei più basilari diritti civili e ciò si ripercuote sul cammino verso l’emancipazione delle donne, che è profondamente ostacolato.
Dalla guerra alle “intifade” però, le donne palestinesi hanno sempre avuto un ruolo chiave nella rivendicazione della loro terra. La primissima sollevazione delle donne palestinesi contro la costruzione di una colonia ebraica risale al 1893 nel villaggio di Afula; da allora hanno continuato a battersi in prima linea contro le confische dei terreni, anche quando, con la “Woods and Forest Ordinance” del 1920, Israele espropriò per legge ai palestinesi tutti i terreni da pascolo. Malgrado poi, dal 1948 al 1967, questo non concesse loro alcuna forma organizzativa e di associazionismo, le donne entrarono ugualmente a far parte di Al-Ard (“la terra”), l’organizzazione clandestina panarabista, orientata ai dettami del socialismo arabo, che si batteva per il raggiungimento dell’uguaglianza di tutti gli abitanti di Israele. Infine, quando nacque, nel 1965, la priorità dell’Unione generale delle Donne Palestinesi, fu la lotta nazionale.
La situazione delle donne palestinesi è drammatica perché sono vittime doppie: da un lato, di una società fortemente patriarcale che le considera proprietà dell’uomo e che perpetra su di loro discriminazioni sessuali e violenze, dall’altro della militarizzazione e dell’occupazione. Una condizione a cui neanche l’accesso ai trattati e alle convenzioni internazionali, come la Cedaw, (la Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione) è riuscita a porre rimedio. In molti casi, le donne si ritrovano intrappolate in un sistema burocratico che rende impossibile condannare i responsabili dei crimini commessi nei loro confronti. L’ultimo caso è stato quello di Israa Ghareb, ventunenne palestinese uccisa dalle percosse dei suoi familiari perché si era rifiutata di sposare suo cugino, e la cui morte ha portato in piazza migliaia di donne, sancendo la nascita di una nuova ondata di protesta. Tal’at, è il movimento che è nato a settembre, nome che tradotto letteralmente significa “uscire”, “venir fuori”, e che ha convocato una manifestazione a Betlemme per chiedere a gran voce al presidente palestinese Abu Mazen di approvare la legge per la protezione della famiglia e delle donne. I femminicidi in Palestina sono un dato preoccupante (28 nel 2019 e 35 nel 2018) se si considera una popolazione di appena 5 milioni di abitanti, circa il triplo rispetto all’Italia. Attualmente vige la legge 99, ripresa dall’ordinamento giordano, che prevede delle attenuanti per chi compie delitti d’onore con sconti di pena agli accusati che consentono loro di tornare liberi in pochissimo tempo. Già da qualche tempo le donne, e parte della società civile, si stanno battendo per l’annullamento di tale legge. È stata anche indetta una raccolta firme, che però non ha prodotto risultati, perché, come testimoniato anche da alcune analisi dell’Ispi, da quando i rapporti tra Hamas e Fatha (il partito di Abu Mazen) si sono incrinati dopo le elezioni del 2006, l’autorità palestinese si trova a sperimentare una duplicazione di istituzioni, che blocca l’intero processo legislativo.
La protesta di Tal’at ha cominciato ad allargarsi e a chiamare in causa la cultura maschilista e il regime di segregazione israeliano. In qualche modo, infatti, anche se in questo caso è improprio parlare di femminismo, (in quanto termine in cui non tutte si riconoscono a causa dello storico portato coloniale che assume), la coscienza nazionale, la lotta per l’indipendenza e l’emancipazione individuale e femminile sono andate sempre di pari passo in Palestina, come se, all’interno di un contesto simile il parallelismo tra lotta di liberazione nazionale e femminile fosse diventata un’azione necessaria. Al grido di “Free Homeland, Free Women” – “Non c’è nazione libera senza donne libere” – le donne hanno riempito le piazze di varie città – a Gerusalemme, in Cisgiordania, in Libano, e hanno aderito anche da Londra e Berlino. Il movimento è slegato dalle piattaforme politiche tradizionali, non si identifica in nessun partito, non ha capi e ha inglobato, oltre alla difesa delle donne, anche quella di tutti i gruppi perseguitati e oppressi. In un’intervista resa al Manifesto, una rappresentante delle donne di Tal’at, Soheir Asaad, ha dichiarato: “Non basta essere liberi dal dominio israeliano se la nostra società non è libera e giusta per tutti”. Il fatto che la repressione delle donne palestinesi avvenga a più livelli ha fatto sì che maturasse la consapevolezza che tutte le forme di oppressione sono strettamente interconnesse. Stanno lottando come femministe e come attiviste, contro l’occupazione militare e le convenzioni sociali palestinesi, mettendo in prima linea i loro corpi e le loro vite quando sfidano i soldati armati. Ma non sono più disposte ad accettare che le due cose restino separate, la propria libertà e quella della nazione. Più di tutto, non sono più disposte a sacrificare o a rimandare nemmeno di un giorno la loro libertà in funzione di quella nazionale, come invece è avvenuto per troppo tempo a causa delle istanze più urgenti legate all’occupazione.
Nel suo manifesto, che oggi sembra essere stato oscurato, Tal’at, al primo punto recita: “Siamo qui per combattere ogni tipo di violenza, fisica, sessuale, psicologica, politica ed economica che la maggior parte delle donne palestinesi affronta ogni giorno”. Al secondo sancisce che la violenza non è un fatto individuale né va affrontato come un caso criminale: è un crimine sociale perché, dicono, è il sistema che uccide. Al terzo punto si legge: “La giustizia di genere è una questione politica. Siamo la terza generazione di rifugiati, viviamo in comunità segregate e divise dall’occupazione israeliana e come donne subiamo le stesse violenze, omicidi, detenzioni, divieto alla riunificazione familiare”. Infine, il loro proclama: “Vogliamo ridefinire il concetto di liberazione nazionale, prendendo di mira l’élite politica, i partiti e le organizzazioni: non ci può essere liberazione nazionale senza la liberazione delle donne”.
Ancora una volta le donne palestinesi rinnovano la loro resistenza e lo fanno nelle intercapedini di uno spazio di discussione diverso e nuovo, lo stesso che con potenza e risonanza globale il movimento Non una di meno (Nudm) rivendica da tempo: l’intersezionalità. La cosa più interessante di Tal’at riguarda proprio il punto raggiunto nella consapevolezza della messa in discussione dei confini e dei limiti fra identità narrate come contrapposte; sta cioè nella volontà di porre al centro della loro riflessione critica il legame tra etnia, nazionalismo e diritti delle donne, conciliandoli. Una questione che ritorna anche in altri esempi storici di attivismo pacifista femminile come le Woman in Black israeliane, le madri di Plaza de Mayo argentine o le Black Sash sudafricane, e soprattutto se si pensa alle donne curde e al laboratorio che da questo punto di vista è stato il Rojava attraverso l’Unità di difesa delle donne nel tenere testa allo stato islamico. Una lotta trasversale contro il patriarcato, la violenza di genere, il colonialismo e la segregazione, ma soprattutto contro la marginalizzazione, di qualsiasi tipo essa sia.
La Palestina da qualche tempo sta vivendo un processo di rinnovamento che sta mettendo al centro del dibattito politico i diritti delle donne, le diversità di genere e l’orientamento sessuale. Nonostante si viva in un teatro di guerre e di bombardamenti si sogna una vita libera e si cerca di ottenerla con ogni mezzo possibile. Questa volontà è testimoniata anche da iniziative come quella appena conclusasi a Gaza dal GFF, il Gaza Free Style Festival, promosso per aiutare la popolazione a diffondere messaggi di inclusione e condivisione con le donne, attraverso attività culturali e l’organizzazione di laboratori sull’affettività. Affinché queste proteste non siano vane, serve che il femminismo diventi un linguaggio comune, perché la costruzione di una società più giusta, etica ed egualitaria passa per una presa di coscienza collettiva e le responsabilità di ognuno, necessarie a mettere in discussione l’intero sistema.