La notte del 29 settembre 2019, il quartetto statunitense della staffetta 4x400m mista tagliava per primo il traguardo ai Campionati Mondiali di atletica leggera di Doha, regalando agli Stati Uniti una medaglia che, per qualcuno, aveva un valore particolare. La partecipazione alla rassegna era infatti stata tutt’altro che scontata per Allyson Felix, atleta olimpica con il record storico di medaglie. Solo dieci mesi prima, all’ottavo mese di gravidanza, Felix era stata sottoposta a un cesareo d’urgenza a causa di alcune gravi complicanze, esperienza che aveva messo a rischio la sua vita e costretto la figlia Camryn a trascorrere un mese nel reparto di terapia intensiva. Il 29 settembre Camryn tifava per la madre dagli spalti dello stadio.
Negli Stati Uniti lo stipendio degli atleti professionisti proviene quasi esclusivamente dagli sponsor. Nel 2010 Felix, già tre volte campionessa del mondo, aveva quindi firmato un contratto con Nike con la quale condivideva la volontà di promuovere lo sport come mezzo di emancipazione femminile. A gennaio 2018 erano da poco cominciate le contrattazioni per il rinnovo dell’accordo, con una sponsorizzazione ridotta da Nike del 70% rispetto agli anni precedenti a causa dell’età dell’atleta, ormai 32enne. Felix chiese di includervi la garanzia di una tutela economica in caso di una sua gravidanza, ma l’azienda si rifiutò di accontentarla. L’atleta troncò quindi il rapporto quasi decennale con la multinazionale, denunciando le difficoltà incontrate nel mondo dello sport professionistico dalle donne che desideravano avere figli.
“Sono stata una delle atlete Nike più commercializzate: se io stessa non riesco ad ottenere alcuna tutela per la maternità, chi può farlo?”, domandava nel 2019 la campionessa al New York Times, unendosi alle colleghe che negli anni precedenti avevano manifestato la stessa indignazione. La maratoneta olimpica Kara Goucher, anche lei sponsorizzata dal colosso sportivo, nel 2010 aveva scoperto, a gravidanza iniziata, che ogni suo compenso sarebbe stato interrotto fino alla ripresa delle sue gare, trovandosi costretta a rinunciare all’allattamento per partecipare a una mezza maratona a tre mesi dal parto. La ripresa precoce le procurò, fra l’altro, complicazioni fisiche irreversibili. La sette volte campionessa nazionale mezzofondista Alysia Montaño, nella stessa situazione, nel 2014 partecipò simbolicamente ai campionati americani, gareggiando negli 800 metri all’ottavo mese di gravidanza. Mentre i media la celebravano come “la runner incinta“, nel privato stava lottando per non perdere lo stipendio. Phoebe Wright, legata a Nike dal 2010 al 2016, intervistata dal Times riassunse bene la situazione condivisa dalle professioniste dello sport: “Rimanere incinta, per un’atleta, è come il bacio della morte”.
Felix era convinta che se le atlete speravano di ottenere un cambiamento dovevano alzare la voce. Nel giro di pochi mesi il loro grido collettivo non poteva più essere ignorato, tanto che Nike annunciò che avrebbe modificato le sue politiche relative alla maternità introducendo un periodo di 12 mesi – esteso a 18 l’anno successivo – in cui i compensi delle atlete incinte non potevano essere ridotti. Anche altri brand di materiale sportivo, come Altra Running, Brooks e Burton, si impegnarono a correggere i loro contratti affinché le atlete non fossero costrette a scegliere fra interrompere la loro carriera sportiva o rinunciare alla gravidanza.
Le politiche discriminatorie nell’ambiente sportivo non riguardano solo la maternità, ma come ricorda Felix “Le donne vengono decisamente tenute nell’ombra rispetto agli uomini”. Un’ombra ancora più opprimente in Italia, dove alle donne viene generalmente precluso l’accesso allo sport professionistico. Ciò comporta l’assenza dei diritti a esso collegati come pensioni, periodi tutelati di malattia e assicurazioni per infortunio, oltre naturalmente ai congedi di maternità. In Italia, l’unica garanzia di entrate economiche a lungo termine rimane l’ingresso nei gruppi sportivi delle Forze armate e delle Forze dell’ordine, limitato comunque a una ristretta élite. Una legge vecchia quarant’anni delega al Coni la selezione delle discipline “pro”, con il risultato che oggi percepiscono un regolare stipendio esclusivamente le categorie maschili dei livelli più alti di calcio, ciclismo, basket, motociclismo, boxe e golf. Tutte le atlete, di qualsiasi livello, sono ufficialmente dilettanti. Per le protagoniste degli sport più popolari, come nuoto o scherma, rimediano gli sponsor e i diritti tv, ma rimane scoperta la stragrande maggioranza delle atlete che, al pari dei colleghi, praticano lo sport come lavoro, contribuendo al prestigio dell’Italia a livello internazionale, ma costrette ad accontentarsi di un “rimborso spese“.
Complessivamente, il gender pay gap si aggira intorno al 30% – in linea con il mondo del lavoro nel suo complesso –, ma le differenze non riguardano solo la sfera retributiva. Nel sistema italiano, le atlete rappresentano il 28%, le ufficiali di gara il 18%, le allenatrici meno del 20% del totale. La percentuale scende ulteriormente nel sistema dirigenziale, rimanendo coerente con una tradizione che fa di tutto per ostacolare l’accesso delle donne ai ruoli apicali. Eventi sportivi poco partecipati non sono attraenti per il pubblico e gli sponsor e così le Federazioni rinunciano a priori a investire in progetti di sport femminile, soprattutto negli sport tradizionalmente considerati “maschili”. Per questo le discipline femminili sono snobbate anche dai media, dominati da pregiudizi per cui le donne che scelgono di dedicare la loro vita allo sport non saranno mai in grado di garantire, rispetto ai colleghi, uno spettacolo altrettanto coinvolgente, perché meno capaci, inadatte o fisicamente troppo fragili. La marginalità delle atlete non è quindi legata a un mero fattore numerico, e lo conferma il “dilettantismo” della nazionale femminile di pallavolo, sport in cui le tesserate sono nettamente più degli uomini e il potenziale mediatico è altrettanto alto.
L’imposizione di determinati ruoli sociali è in grado di stroncare la carriera delle atlete, tanto da rappresentare, secondo la sociologa Beatrice Barbusse, il fulcro del “Processo di competenza” al quale queste vengono sottoposte di continuo. “Siccome siamo donne, non siamo competenti a priori. Sta a noi dimostrare la nostra professionalità. Per un uomo non si porrebbe neanche la questione”. Un sessismo che si riflette anche sui campi gara, dove commenti intrisi dell’aspettativa circa il ruolo – “Torna a lavorare a maglia” – o l’aspetto fisico delle donne vengono rivolti alle atlete, ma non solo.
La francese Charlotte Girard-Fabre, ex arbitra internazionale di hockey su ghiaccio, ha raccontato le discriminazioni e gli insulti subiti sia in quanto atleta – incassando appellativi che oscillano da “Sporca puttana” a “Torna in cucina” – sia in quanto arbitra. È stata proprio questa denuncia, poco apprezzata dalla Federazione, a decretare la fine della sua carriera internazionale. In Italia, dove sessismo, misoginia e omofobia spesso culminano in un odio intersezionale e indifferenziato, l’ex presidente della Lega nazionale di calcio femminile Felice Belloli viene ricordato per la celebre esternazione del 2015 “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche!”. Se chi pratica sport “da uomo” è considerata una lesbica, in tutto il mondo aderire a canoni estetici “femminili” non è comunque considerato compatibile con la professionalità: secondo molte persone, se sei donna e pratichi uno sport non puoi curare il tuo aspetto, e se lo fai non sei credibile.
Anche la scarsa presenza di donne negli staff tecnici frena il percorso sportivo delle atlete. Come racconta Sara Ventura, quindici volte campionessa italiana di tennis, le giovani promesse reclutate dalle federazioni possono ritrovarsi a vivere in strutture dedicate, isolate dalla società, in cui gli unici punti di riferimento adulti sono uomini con una formazione puramente tecnica. “I miei coach avevano due metodi educativi: gli insulti e le prese in giro. […] Ho subito qualsiasi tipo di violenza: fisica, verbale, psicologica”. Questi abusi, alla lunga, spingono molte atlete di talento ad abbandonare la carriera, oltre a danneggiare per sempre la loro salute fisica e mentale. Se da un lato la storia ha dimostrato che la competenza emotiva delle allenatrici non può essere garantita solo dal loro genere, l’esperienza di Ventura dimostra che l’assenza di una componente femminile con la quale potersi confrontare rimane, per le giovani atlete, fortemente penalizzante.
Lo scandalo sollevato dalle campionesse statunitensi ha dimostrato che il mondo sportivo ha un problema con le donne e, soprattutto, con la maternità. Per scoprirlo non serve guardare agli Stati Uniti: oggi, per esempio, molte atlete italiane di alto livello vengono costrette a sottoscrivere le cosiddette “clausole anti-gravidanza”, in cui si impegnano a non rimanere incinte, pena l’espulsione dalla società sportiva. Un decreto del 2019 ha istituito come parziale soluzione il Fondo di sostegno alla maternità delle atlete, devolvendo alla causa un milione di euro all’anno fino al 2021: un piccolo passo in avanti, ma un bonus triennale non è certo sufficiente a risolvere la questione. Sempre parlando di miglioramenti, sembra essere più incoraggiante l’intenzione della Figc di introdurre il professionismo nel calcio femminile entro il 2022.
Sara Gama, vicepresidente dell’Aic e capitana della Nazionale, in un’intervista ha dichiarato che “La questione non è paragonarci […] a un Ronaldo o un Chiellini, noi vogliamo avere le stesse tutele. E per tutele parliamo di ‘professionismo’, cioè il diritto a una pensione, un’assicurazione, la maternità”. Se lo sport ha più volte dimostrato di essere lo specchio di una società e dei suoi cambiamenti, non possiamo accettare che alle atlete non vengano garantiti gli stessi diritti dei loro colleghi. Per questo la battaglia delle atlete statunitensi va combattuta anche in Italia, e in tutto il resto del mondo.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 18/02/2021.