Nonostante una speranza di vita tra le più elevate del continente, di 80,8 anni per gli uomini e 85,2 per le donne, l’Italia registra un dato decisamente preoccupante: il tasso di natalità più basso dell’Unione europea, di 7,3 per mille. Se è vero che tutto il continente è segnato dall’invecchiamento demografico e dal sorpasso delle morti sulle nascite, avvenuto nel 2018 per il secondo anno consecutivo, il nostro Paese è protagonista nel fenomeno delle culle vuote. Il tasso di fecondità di 1,32 figli per donna è ben lontano dal ricambio generazionale garantito da una media di 2,1 figli. Se alcune regioni, specialmente nel Nord, negli ultimi anni hanno visto aumentare la propria popolazione è soprattutto merito delle migrazioni, interne ed esterne, comunque non sufficienti per evitare il collasso. I responsabili di questa situazione sono diversi fattori sociali ed economici, e non le donne lavoratrici o il diritto all’aborto, come certa propaganda sovranista sembra voler suggerire.
Se questo andamento prosegue inalterato, entro il 2050 l’Italia potrebbe passare dall’attuale 23esimo posto al 36esimo nella classifica Onu dei Paesi più popolati, con effetti potenzialmente catastrofici sul piano economico e sociale. Il nostro Paese rischia di vivere una crisi strutturale per la mancanza di lavoratori attivi i cui contributi servono a pagare le pensioni della generazione dei baby boomers per la spesa destinata alla sanità pubblica che schizzerà alle stelle per assistere una popolazione invecchiata, e per la perdita di numerosi posti di lavoro, ad esempio nelle scuole, molte delle quali dovranno chiudere per mancanza di iscritti. La soluzione non è, come pensa qualcuno, tornare alla sacralità del matrimonio e della famiglia naturale, fare campagne di esaltazione della fertilità o incolpare le donne che vogliono il controllo del proprio corpo e scelgono la carriera. Anzi, vale proprio il contrario.
Se nei Paesi in via di sviluppo l’elevato tasso di natalità – a livelli insostenibili per le famiglie, il Paese e l’ambiente – è dovuto alla carenza di nozioni di contraccezione e a un modello familiare patriarcale, quest’ultimo pesa anche nei Paesi industrializzati, dove sono i sistemi con maggiore tasso di occupazione femminile, parità di genere e stato sociale a garantire un tasso di natalità più vicino alla quota di sostituzione naturale. Sono questi i fattori che assicurano una quota di fertilità più equa, sufficiente, ma non eccessiva per l’equilibrio sociale e ambientale. Nel 2014 il record positivo europeo del tasso grezzo di natalità (cioè il rapporto tra numero di nascite e popolazione media), con 14,6 nascite ogni mille abitanti, spettava all’Irlanda, dove i cittadini godono di un migliore equilibrio tra vita professionale e vita privata rispetto alla media dei Paesi Ocse. Seguivano Francia (che nel 2014 ha toccato i 2,01 figli per donna), Regno Unito, Svezia e varie regioni dell’Islanda e della Finlandia. Caratteristiche comuni a questi luoghi sono le politiche a sostegno delle donne lavoratrici, mentre si hanno più culle vuote nei Paesi dove la riproduzione è culturalmente vista come una prerogativa dell’istituzione matrimoniale. In Italia, ad esempio, abbiamo in media 10 nascite ogni mille abitanti, ma in alcune zone il tasso scende a 7.
Livello di istruzione, reddito e caratteristiche del luogo di residenza – come la disponibilità di infrastrutture, servizi per l’infanzia e mercato immobiliare – influenzano in modo massiccio l’andamento delle nascite. Il fattore più incisivo resta però la situazione lavorativa delle donne, poco tutelate e costrette a lasciare il lavoro dopo la nascita dei figli. In Italia, la disoccupazione femminile è più elevata di quella maschile di due punti percentuali, ma tra le donne si registra anche un maggiore tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni (43,8% contro 24,7%), a indicare che sono ancora molte quelle che non hanno e nemmeno cercano un’occupazione. Gli insufficienti servizi per l’infanzia incidono su questa situazione, tanto che ben il 73% dei lavoratori dipendenti che si sono dimessi nel 2018 erano madri e il 36% dei genitori che hanno lasciato il lavoro ha dato come motivazione l’incompatibilità tra l’impiego e l’accudimento dei figli, a causa dell’esclusione dalle graduatorie per gli asili nido o del suo costo eccessivo. Per evitare dinamiche simili, la Francia ha adottato da anni delle politiche che incentivano le donne a non abbandonare la loro professione per occuparsi dei figli, oltre a interventi di sostegno economico alle famiglie, senza discriminare le coppie conviventi da quelle sposate.
A conferma di quanto l’emancipazione femminile possa favorire anche la natalità, la sociologa Michaela Kreyenfeld ha sottolineato che se un tempo a essere senza figli erano soprattutto uomini senza titolo di studio, ora questo accade anche per le donne poco istruite. Nonostante i tanti pregiudizi, la carriera non è un ostacolo. È la stessa nota Eurostat di commento alle statistiche più recenti a sottolineare che spesso i tassi di fecondità sono più alti negli Stati europei dove la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è elevata, la famiglia in quanto istituzione è relativamente debole (ad esempio dove sono poche le coppie sposate e più numerose le convivenze) e i nuclei familiari sono meno rigidi.
Al contrario, le culle restano vuote in Giappone e Corea del Sud, due Paesi dalla società ancora decisamente patriarcale e dove l’istituzione matrimoniale è ancora molto forte, tanto che le nascite in relazioni diverse dal matrimonio, che nei Paesi Ocse sono in media il 40%, qui si fermano al 2%. La forte cultura del lavoro, che tiene lontani gli uomini dalla vita familiare (i padri sudcoreani sono quelli che trascorrono meno tempo con i loro figli), la disparità salariale a quote doppie rispetto alla media Ocse, e una componente culturale conservatrice – per cui i ruoli e compiti di marito e moglie restano rigidamente separati – sono tutti fattori che incidono sulla bassa natalità. Le politiche dei governi coreani per far fronte a un tasso di fertilità passato in 50 anni da sei figli per donna a 0,98, si sono rivelate controproducenti, rendendo più difficile alle donne tornare al lavoro dopo la maternità e disincentivando le assunzioni. Negli Stati Uniti il declino demografico ha motivazioni soprattutto economiche: i giovani vivono una condizione più fragile di quella delle generazioni precedenti a causa dei costi che devono sostenere a fronte di salari invariati da 40 anni, una situazione aggravata dalle minacce all’Obamacare avanzate dal governo Trump e dall’assenza di congedo retribuito. Anche qui, però, a pesare di più è l’elevato gender pay gap, nettamente sopra la media dei Paesi Ocse.
Anche in Italia serve un cambio di mentalità, che deve andare di pari passo con delle politiche adeguate, ad esempio sui congedi parentali, in particolare per l’estensione di quello di paternità. Per quanto riguarda il congedo facoltativo, invece, in parte per una vecchia concezione dei ruoli, ma soprattutto per ragioni economiche e lavorative, i padri che ne usufruiscono sono appena il 7%, dato che non tutti possono permettersi la decurtazione dello stipendio del 70%, un fattore discriminatorio nelle scelte di molte coppie. In Francia, invece, nel 2014 il congedo parentale per ciascuna coppia è stato prolungato di 6 mesi, riservati al secondo genitore (quello che non usufruisce del congedo principale), mentre in Svezia il congedo parentale di 480 giorni è a disposizione dei due genitori, di cui 390 retribuiti all’80% dello stipendio.
Proprio la Svezia, che trent’anni fa era in crisi demografica, ha saputo ribaltare la situazione arrivando negli anni Novanta a superare la soglia di 2,1 figli per donna per poi riassestarsi su una media di poco più bassa. L’ha fatto devolvendo il 10% della spesa pubblica al welfare per le famiglie con figli – sfruttando soprattutto le risorse che derivano dall’avere un debito pubblico e un’evasione fiscale quasi inesistenti – tramite sostegni e agevolazioni nei servizi come asili nido o trasporto pubblico locale, senza discriminazioni di reddito e senza sconti sulle tasse. Al contrario, in Italia si continuano a formulare iniziative frammentarie dedicate solo alle famiglie economicamente più svantaggiate, come conferma l’annuncio del premier Conte sul bonus asili nido, uno dei grandi problemi dei servizi all’infanzia nel nostro Paese.
Osservare le disparità a livello nazionale conferma questo quadro. In Liguria – regione “più vecchia” d’Europa per la quale le proiezioni per il 2065 prevedono una perdita di 250mila residenti e un aumento degli over 65 dall’attuale 28% al 36% – lo spopolamento pesa sempre di più sulla sua economia e le amministrazioni locali puntano soprattutto ad attirare nuovi residenti, migliorando i collegamenti stradali con le grandi città italiane e francesi e con agevolazioni fiscali per chi vi si trasferisce, oltre che con sostegni alle famiglie numerose. Per il momento, queste politiche non hanno visto grandi risultati. L’Alto Adige, invece, con un tasso di natalità sopra la media nazionale dell’1,7, beneficia della cultura della conciliazione tra famiglia e lavoro, consolidata anche presso le aziende, dei sussidi alle famiglie e dei servizi di qualità per l’infanzia.
Questa è la direzione giusta. Secondo la Commissione europea, tra le iniziative governative per aumentare la natalità non devono comparire né restrizioni all’aborto, né incentivi alle donne che stanno a casa abbandonando il lavoro, ma il miglioramento della conciliazione tra vita professionale e vita privata, la promozione dell’occupazione, che sia più stabile e di qualità, l’aumento degli investimenti in istruzione e ricerca, l’integrazione dei migranti e delle politiche che garantiscano pensioni dignitose, sicurezza sociale, sistemi sanitari efficienti e assistenza a lungo termine. Più donne che lavorano, quindi, e più parità tra uomo e donna, nessun vincolo matrimoniale e più stato sociale sono la ricetta per tornare a far nascere bambini. Che non hanno bisogno di angeli del focolare né per metterli al mondo né per crescerli.