Ogni volta che confesso che le attenzioni maschili che ricevo per il mio aspetto fisico mi mettono a disagio, sono pronta ad avere le più disparate reazioni e giudizi negativi sul mio conto. Solitamente, gli uomini, sentendosi colpiti nel personale, si chiedono quale sia effettivamente il mio problema nell’accettare quelle che sono stati abituati a considerare come semplici attenzioni e complimenti. Sentendosi dire che non sempre il contesto o la persona è felice di essere sotto i riflettori, alzano le mani e chiedono scusa in modo sarcastico per essere stati gentili. In poche parole, secondo loro, è un mio problema: non so accettare i complimenti. La maggior parte degli uomini, quindi, ma anche per alcune donne, per quella che è la mia esperienza, pensano che quando qualcuno ci fa un complimento si debba essere grati e lusingati. Il problema è che a monte c’è una riflessione molto complessa, da cui genera appunto la sensazione di fastidio che molte donne subiscono in questi casi.
In queste occasioni, mi vengono in mente diversi momenti della mia adolescenza, in cui confidavo a mia madre quanto mi sentissi a disagio quando uomini di diverse età mi dicevano che ero carina o quando mi facevano apprezzamenti mentre camminavo per strada. Inutile spiegarle che si trattava spesso di molestie vere e proprie o di catcalling, la risposta di mia madre era sempre la stessa: “Sei bella, lasciati guardare. Dovresti essere contenta”. Non voglio incolpare mia madre e il suo punto di vista, vittima della società e degli schemi in cui è cresciuta, ma voglio dire però che noi donne subiamo per tutta la vita lo sguardo degli altri, che è uno sguardo maschile. Le pubblicità, la televisione, e i media in generale ce lo provano ogni giorno. Le donne che vediamo, perfettamente truccate e pettinate, i cui lineamenti del viso e proporzioni fisiche rispondono a standard ben determinati (anche se piano piano iniziano a vacillare), vestite con abiti sensuali, ammiccano all’obiettivo o alla telecamera. Loro si rivolgono a uno sguardo maschile che deve approvare quello che vede.
Ne avevano parlato per prime le femministe della Feminist Film Theory negli anni Settanta: lo sguardo cinematografico è uno sguardo maschile. Il protagonista è un uomo e lo sguardo che ci viene imposto da donne è quello maschile. Il personaggio femminile è quasi sempre oggetto del desiderio del personaggio maschile, e non viceversa. Così, ovviamente, il pubblico si immedesima nel personaggio agente, il protagonista, l’uomo. E in questo modo anche le donne sviluppano uno sguardo maschile, che oggettivizza il personaggio femminile. Da qui a passare a uno sguardo maschilista e patriarcale il passo è breve e ciò non viene solo imposto dal cinema, ma da tutta la produzione culturale, essendo stata la cultura accademica, da quando ne resta memoria, quasi esclusiva prerogativa dell’uomo. Se questo potrebbe sembrare troppo radicale, basti pensare al numero di registe, di scrittrici, di intellettuali e così via che oggi riescono, ancora con enorme fatica, a mettere in luce e a far emergere il proprio lavoro; alle più importanti case di moda, che comunque appartengono agli uomini; al grande caso Weinstein e a tutte le donne che si sono sentite costrette a subire molestie da parte degli uomini proprio per paura di perdere l’opportunità di fare carriera – e questo fenomeno, comunque lo si giudichi o analizzi resta molto significativo e denuncia un problema reale.
Quel che ne viene fuori nel quotidiano, tuttavia, al di fuori dell’industria dello spettacolo, che sancisce per noi quali sono i modelli a cui dobbiamo ispirarci e aspirare, è che noi donne ci sentiamo apprezzate e sentiamo in qualche modo di esistere se siamo sessualmente attraenti. È ciò che viene chiamata in psicologia la sindrome di Cenerentola. Teorizzata per la prima volta da Colette Dowling nel libro The Cinderella Complex: Women’s Hidden Fear of Independence (1981), la psicoterapeuta ci spiega come le donne, così come Cenerentola, aspettino che sia l’uomo a salvarle dalla loro condizione, riconoscendole per la loro bellezza. Nessun talento particolare, nessuna azione da parte della donna; solo la bellezza come vero e unico valore. Da questo, poi, deriverebbe la dipendenza che le donne provano nei confronti degli uomini, da cui sentono di dover avere sempre conferme sul proprio valore. La conferma del valore e della centralità della bellezza nella nostra società sta nel fatto che le donne impiegano molto più tempo a curare il proprio corpo rispetto agli uomini: tanto che questo perenne e indotto senso di mancanza e conferme va ad alimentare diversi settori, attraverso l’acquisto di cosmetici, scarpe, vestiti, la continua cura dei capelli, con tagli, tinte e pieghe, passando dalle cerette, alle lampade, fino alla manicure e così via. Come se non bastasse tutto ciò viene oggi sostenuto da una narrazione strumentalizzata dal marketing che vorrebbe vedere la capacità di spesa come segnale di empowerment e libertà. Ogni volta che mi trovo a osservare il mio viso davanti allo specchio e a notare un’imperfezione (ci hanno istruito così bene le pubblicità) però mi chiedo: per chi lo sto facendo? Perché ho l’obbligo di essere visibile? Perché mi sento in dovere di apparire “al meglio”? Perché il mio valore deve risiedere nel mio corpo?
Anche Pierre Bourdieu, noto filosofo che si è interrogato sul significato e sulla funzione del corpo inteso come corpo sociale, ne Il dominio maschile (1998) parlava di questo: “Il rapporto di dipendenza delle donne nei confronti degli altri diventa costitutivo del loro essere […] Continuamente sotto lo sguardo degli altri, le donne sono condannate a provare costantemente lo scarto tra il corpo reale, cui sono incatenate, e il corpo ideale cui si sforzano senza sosta di avvicinarsi. Avendo bisogno dello sguardo altrui per costituirsi, esse sono continuamente orientate nella loro pratica dalla valutazione anticipata del prezzo che la loro apparenza corporea, il loro modo di atteggiare il corpo e di presentarlo, si vedrà riconoscere sul mercato dei beni simbolici; di qui una propensione più o meno accentuata dell’autodenigrazione e all’incorporazione del giudizio maschile sotto forma di imbarazzo corporeo e di timidezza”.
Insomma, ormai sembra impossibile celarsi a questo sguardo che ci giudica e decide se valiamo. E ormai, attraverso la narrazione social, sembra toccare non solo le minoranze ma anche gli stessi uomini. Nella società contemporanea è impossibile essere invisibili. Se da una parte viviamo una continua corsa per far sì che i nostri meriti e i nostri talenti vengano riconosciuti, dall’altra veniamo spinti sempre di più a esibire il nostro corpo. Anche se siamo consapevoli del nostro talento, delle nostre abilità, del nostro impegno e della nostra formazione, sembra assalirci il dubbio di non poter realmente permetterci di non curare la nostra apparenza, pena l’esclusione.
La Donna Invisibile dei Fantastici Quattro è l’emblema pop di tutto questo. La prima volta che vidi Jessica Alba interpretare questo personaggio, pensai che l’invisibilità non era poi un potere così affascinante rispetto a quello di Elastic Man, la Roccia o la Torcia. Nel corso del tempo, tuttavia, ho desiderato più di una volta essere invisibile: mentre camminavo da sola per strada, quando in un luogo di lavoro o durante un colloquio, subito dopo essermi presentata, si facevano apprezzamenti sul mio viso – e non eravamo certo a un casting. Il potere dell’invisibilità, in questo mondo, mi sembra il più invidiabile e necessario di tutti.
Se da una parte noi donne siamo oscurate dagli uomini, con cui dobbiamo spesso imparare a relazionarci in modo strategico per arrivare a essere riconosciute, dall’altra i nostri corpi vengono continuamente messi in mostra, giudicati, scrutati. Raggiungere i nostri obiettivi ci scopre così tanto, esponendoci allo sguardo altrui, che alla fine non desideriamo altro che essere invisibili, per ritrovare noi stesse, al di là della nostra immagine che a volte sembra annichilire tutto il resto, come unico discrimine. È il caso, per esempio, di Teresa Bellanova, ministra delle Politiche agricole alimentari e forestali, la quale il giorno dell’investitura, è stata subissata di polemiche e critiche per il suo abbigliamento e per il suo aspetto fisico. Nessuna parola sulla sua carriera, nessuna parola sulle sue capacità: con uno sguardo (maschile) è stato decretato tutto il suo valore. Quello che le persone che mi circondavano mi avevano fatto credere fosse esclusivamente un mio disagio personale, una mia mancanza, in realtà è estremamente diffuso tra la popolazione femminile.
In Francia è stato condotto un esperimento sociale semplice ma interessante. Un ragazzo di 23 anni è stato truccato e vestito come una donna. Gli è stata messa una telecamera addosso e, circondato da complici, è stato fatto girare per la città per una giornata intera. Mentre lo vediamo camminare e svolgere attività quotidiane, in voice over sentiamo la sua voce dire: “Mi sono sentito vulnerabile. Una donna viene guardata per tutto il tempo. Non sai che cosa gli altri si aspettano da te. Ero spaventato di essere guardato come un pezzo di carne, di dover affrontare delle reazioni che non erano state scatenate da me.” E conclude: “Questo comportamento è scioccante”. E così che le donne si sentono ogni giorno, e forse sarebbe il momento che gli uomini si sforzassero di capirlo.