Per anni l’HIV è stato lo stigma della comunità gay. Ma oggi le donne sono più esposte al contagio. - THE VISION

Quando negli anni Ottanta scoppiò l’epidemia di Aids l’infezione era già in circolo, probabilmente da decenni. Con un’alta letalità, associata dall’opinione pubblica solo ad abitudini sessuali senza protezioni e all’uso di sostanze stupefacenti tendenzialmente ricondotte agli uomini, fu accompagnata dalla creazione di uno stigma rivolto in particolare contro gli uomini omosessuali. La politica fece la sua parte: in Italia, per esempio, il ministro della Sanità del secondo governo Craxi Carlo Donat-Cattin ritardò gli studi e i controlli sulle sacche di sangue, non incentivò mai l’uso del preservativo, si distinse per dichiarazioni quali “L’Aids ce l’ha chi se la va a cercare” e per una lettera in cui giudicava e colpevolizzava le persone con malattie trasmesse sessualmente (Mts).

Anche se qualcuno negli ultimi mesi ha accostato la diffusione dell’Aids all’attuale pandemia, c’è una differenza profonda: nel caso dell’Hiv gli episodi di esclusione e discriminazione (detta anche sierofobia) sono ancora oggi frequenti, come ha raccontato anche lo scrittore Jonathan Bazzi, che ha saputo di aver contratto il virus a 31 anni. “Molti di noi gay non avevano famiglia, altri sarebbe stato meglio non l’avessero. Perlopiù le persone si allontanavano da noi”, dice Pigi Mazzoli, sieropositivo dal 1987. C’era chi si suicidava e chi si procurava una polmonite per morire. Alcuni documentari raccontano quella stagione, come + o – il sesso confuso di Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli, che raccoglie testimonianze di medici, attivisti, artisti e studiosi sul loro rapporto con il virus dagli anni Settanta in poi.

Nel 1996, una ventina d’anni dopo i primi casi registrati, si arriva a una svolta nel trattamento, rappresentata dall’adozione della Haart (Highly Active Anti-Retroviral Therapy) come standard internazionale di cura: in appena due anni il tasso di mortalità si riduce dell’84%. Altri studi successivi portano a nuove scoperte, ma ancora oggi la situazione non è risolta con successo. I farmaci mantengono l’infezione sotto controllo, ma non permettono di guarire, e non c’è ancora un vaccino. Oggi 38 milioni di persone vivono con l’Hiv, per la maggior parte in Africa. In Sudafrica, il Paese più colpito al mondo, si contano 7,7 milioni di casi su un totale di 55 milioni di abitanti. Per quanto riguarda l’Italia, Massimo Oldrini, attivista sieropositivo dal 1986 e presidente della Lila – Lega italiana per la lotta contro l’Aids – individua nello smantellamento del sistema sanitario pubblico una ragione di grande preoccupazione, aggravata dalle limitazioni nella continuità delle cure causate dal Covid: “Gli infettivologi sono stati letteralmente risucchiati dall’emergenza. Questo ha prodotto, in troppi casi, l’interruzione del rapporto medico-paziente, l’impossibilità di essere ricoverati nei reparti di riferimento, una distribuzione difficoltosa dei farmaci antiretrovirali salva-vita, lo slittamento di visite e controlli, mentre la gestione delle comorbidità (presenti in modo rilevante tra le persone con Hiv) è, per tante persone, completamente saltata. Il colpo è stato duro anche per la prevenzione e la diagnosi precoce”.

Se la vita con questa sindrome è ora più accettabile, non sono stati fatti altrettanti passi avanti nella percezione comune della malattia: ancora oggi si associa a personalità celebri del passato come Pier Vittorio Tondelli, Giuliano Giuliani, Rock Hudson, Michel Foucault, Keith Haring, Freddie Mercury, Anthony Perkins, Bruce Chatwin. Tutti uomini. Nel corso degli anni, sono morte a causa del virus o per malattie a esso collegate più di 32 milioni di persone, ma quando se ne parla in genere non si pensa che tra queste ci sono anche molte donne, di ogni orientamento sessuale. La conferenza italiana sull’Aids del mese scorso, Icar 2020, ha permesso di conoscere i dati più recenti, dai quali risulta che le donne oggi sono più a rischio di contrarre l’Hiv. Giulia Marchetti, professoressa associata di malattie infettive dell’Università di Milano presso l’Ospedale San Paolo, riferisce che le donne sono la metà delle persone infette, ma poco rappresentate nei trials clinici. I genitali femminili hanno infatti caratteristiche specifiche che possono comportare alterazioni in grado di favorire la possibilità di contrarre l’infezione.

In merito alla probabilità di sviluppare Aids, nessuno studio ha dimostrato con certezza differenze significative tra uomini e donne. È emerso che nelle donne, pur con una carica virale più bassa all’inizio dell’infezione, viene a crearsi una situazione di maggiore attivazione del sistema immunitario durante la fase cronica. Gli elementi che causano la vulnerabilità sono soprattutto due: l’infiammazione, cioè l’aumento di cellule infiammatorie che possono essere infettate, e il microbioma (i microrganismi simbiotici che vivono nel nostro organismo) che in alcune tipologie sembra favorire la trasmissione dell’infezione. Inoltre le donne prima del trattamento antivirale hanno meno carica virale, ma hanno una maggiore produzione di interferone e un’attivazione immunitaria più repentina che può portare a una progressione di malattia più rapida. L’assetto infiammatorio più elevato causa poi maggiore probabilità di sviluppare tutte quelle malattie associate alle persone affette da Hiv, come quelle di tipo cardiovascolare, aterosclerosi precoce, infarti, malattie dell’osso come l’osteoporosi o l’osteopenia, oltre a menopausa precoce, minore funzionalità ovarica, conseguenze all’apparato riproduttivo.

Mentre aumenta il numero di donne sieropositive infettate dai mariti, si indebolisce anche tutta una serie di preconcetti che ostacolano la lotta al virus, ben individuati nel libro Stop Aids di Emanuele Gabardi, che analizza il linguaggio delle campagne di sensibilizzazione e i pregiudizi di chi si è trovato a prendere delle decisioni in campo medico. Nel 1991, stanco delle fake news tra gli addetti ai lavori, l’immunologo Fernando Aiuti, nel corso di un congresso a Cagliari baciò una ragazza sieropositiva, la venticinquenne Rosaria Iardino, tuttora impegnata nell’ambito della prevenzione e informazione come fondatrice di Nps Italia – Network Persone sieropositive. Un altro tabù di cui dovremmo liberarci è quello del profilattico in pubblicità, che viene al massimo nominato, senza mai chiarirne l’uso, anche a causa di una sottile forma di censura che fino al mese scorso richiedeva il via libera del ministero della Salute su ogni campagna di sensibilizzazione .

Laura Savarese, Regulatory & Medical Affairs Director Sud Europa di Reckitt Benckiser, la multinazionale di cui fa parte il marchio di preservativi Durex, ha dichiarato che gli interventi ministeriali hanno limitato “fortemente l’approccio funzionale al rendere il contenuto più comprensibile e vicino alle esigenze e ai bisogni di determinate fasce di popolazione”. Per anni in Italia abbiamo inoltre assistito a campagne istituzionali inadeguate, angoscianti e limitate al dogma eteronormativo, dalle quali era assente sia il profilattico (solo nominato, ma mai mostrato) che il tema della solidarietà. Negli anni Novanta tutti ricordano quelle dell’agenzia Armando Testa con messaggi come “Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide” eL’Aids è più vicina di quanto pensi mentre un contorno fucsia indicava le persone da evitare.

Solo nel 1991, dopo dieci anni dall’inizio ufficiale dell’epidemia globale, siamo arrivati a uno spot che non punta tutto sulla valutazione dei comportamenti individuali, ma che invita finalmente a chiamare il numero verde dedicato. Quando però il ministero della Salute chiede al fumettista Silver di illustrare una campagna con protagonista il suo Lupo Alberto è il ministero dell’Istruzione a vietarlo nelle scuole: “Né approvato, né proibito” dirà l’allora ministra Rosa Russo Iervolino. Ci sono state poi campagne di aziende che cercavano di spezzare proprio quella tensione, come quando Control fa diventare un tormentone la domanda “Di chi è questo?”, rivolta da un professore alla sua classe dopo aver trovato un preservativo sul pavimento. Dichiararsi sieropositivi resta spesso un tabù ancora oggi, e persino nelle app di incontri frequentate solo da uomini si può essere emarginati e insultati dopo il coming out.

Come tutte le altre questioni connesse al benessere di donne e uomini, un salto di qualità si potrà fare solo attraverso la formazione e l’educazione sessuale a partire dall’età scolare. In Italia però, sembra ancora un miraggio che ciò avvenga in chiave sex-positive. Tra i Paesi europei il nostro è uno dei più restii a riguardo, tanto che la materia non è ancora stata inserita come obbligatoria nel percorso di studio di nessun ordinamento scolastico. È indicativo che nel sito del ministero della Salute dedicato a Hiv e Aids, consultato il 30 novembre, non troviamo alcuna ricorrenza del termine scuola o scuole. Gli interventi in questo senso, dove ci sono, tendono per lo più a proteggere studentesse e studenti dai pericoli della navigazione su Internet e sulle app dai contenuti pornografici, dimenticando che la sessualità è anche affettività e relazione. La scarsa conoscenza di sé e del proprio corpo e la riluttanza a parlarne fa sorgere quesiti rispetto alla parità di genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere che di norma nelle nostre scuole non trovano ancora risposta. Su una cosa, però, le epidemie di Coronavirus e Hiv ci insegnano la stessa cosa: solo l’informazione e la verità scientifica servono per contrastare la malattia; chi nega ai propri cittadini gli strumenti per difendersi è responsabile e complice delle sofferenze di chi si ammala.

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