Negli ultimi tempi, tra Salvini che si iscrive a Tik Tok e Daniela Santanché che si riscopre foodblogger, i social hanno dato spazio a un lato della politica che probabilmente tutti noi avremmo preferito non vedere. Lontani ormai anni luce da quell’idea per cui una figura istituzionale abbia anche il dovere di far trasparire una certa gravitas nel modo in cui si concede ai media, Instagram, Twitter e Facebook hanno invece lasciato che noi estranei potessimo sbirciare nel privato di personaggi come Matteo Renzi o Ignazio La Russa. Mettendo da parte tutto ciò che è strategia politica, il fatto di poter usare un social come Twitter per dire anche cose personali, fare considerazioni sui propri gusti cinematografici, condividere scatti di vita in famiglia, fa sì che se già l’esposizione dei personaggi pubblici generi di per sé gaffe e strafalcioni, in questo modo se ne moltiplicano le probabilità. Cosa che è successa tempo fa, per esempio, a Carlo Calenda, un politico che da quando ha acquisito una certa notorietà all’interno del centro-sinistra non si è mai preoccupato di mettersi fin troppo a nudo rispetto ai suoi seguaci, letteralmente. Calenda, infatti, ha condiviso un video in apparenza innocente e anche abbastanza irrilevante, in cui dà un esempio concreto di ciò che significa un certo tipo di sessismo, che non è quello sbandierato a mo’ di provocazione da personaggi aberranti in stile Vittorio Feltri, ma quello tipico proprio di quel genere di persona che se per caso glielo fai notare ti risponde “Ma chi, io? Impossibile”. Quello più insidioso e difficile da debellare, in sostanza; quello di cui proprio gli esponenti di una sinistra che si definisce progressista – o sedicente tale – dovrebbero sbarazzarsi al più presto.
Il video di Carlo Calenda, che non a caso ha ricevuto diverse critiche subito dopo essere stato postato su Twitter, ritrae sua figlia – una bambina – che va in bicicletta senza rotelle, con una didascalia che recita “Maschi due mesi per imparare, Livia due giorni. Siamo un genere in declino”, con annesso l’emoji di quello che dovrebbe essere un virile fist bump. Calenda, che sebbene non ricopra chissà quale ruolo di esponente della sinistra e dei suoi valori che comprendono anche l’abbattimento di barriere sessiste e retrograde, ha comunque una posizione piuttosto in vista all’interno del centrosinistra italiano. La sua frase, che a una prima occhiata magari non sembra nemmeno così grave o offensiva, però, ha dato l’esempio perfetto del perché siamo ancora distanti da un modo di pensare realmente paritario tra i due sessi. Questo modo di fare paternalistico, accondiscendente e sminuente nei confronti di sua figlia, atteggiamento che immagino lui stesso non si è nemmeno reso conto di perpetuare, che si traduce in una sorta di stupore che perpetua uno stereotipo su quale sesso impara prima ad andare in bici, in questo caso rispetto all’abilità da ciclista della bambina – qualità che in quanto donna non dovrebbe avere? O avere in misura ridotta rispetto ai figli maschi? – paragonata a quella molto più scarsa dei suoi fratelli è infatti un ottimo esempio concreto di ciò che all’alba del 2020 una giovane donna non dovrebbe più sentirsi dire. Sia chiaro, Carlo Calenda non mi sembra né un mostro né un insensibile, né tantomeno ciò che potremmo definire canonicamente un “maschilista”. Ma gli strascichi di una cultura patriarcale che ci portiamo dietro da anni assumono forme insidiose, come per esempio quella degli uomini che dicono cose come “Ah le donne, esseri superiori”, o peggio ancora che “Il genere maschile è in declino”.
Da donna, non c’è niente che mi dia più fastidio di sentirmi dire da un uomo cose come “Siete una spanna sopra”: sottolineare una presunta superiorità non fa altro che confermarne un’altra. Per millenni il ruolo del genere femminile all’interno della società Occidentale è stato formato all’insegna della subalternità rispetto a quello maschile, e questo è abbastanza chiaro a tutti. Senza stare troppo a rivangare il passato, è evidente anche che nell’ultimo Secolo questa tendenza ha trovato sempre meno spazio, attraverso cambiamenti drastici nel modo in cui sia noi donne ci percepiamo all’interno del tessuto sociale sia rispetto ai compiti e alla predominanza che abbiamo nel mondo del lavoro, della politica, dell’arte e così via. Nel momento in cui un uomo si ritrova a dire che le donne sono superiori, sta riportando a galla esattamente tutti quei millenni di storia in cui non è stato così: perché mai un genere dovrebbe essere migliore dell’altro? Forse proprio perché siamo abituati a dirci che in effetti, il “sesso forte”, quello che fa le cose serie, che si occupa delle questioni importanti, è proprio quello maschile. Così come quando un bambino si fa imboccare la sua pappa senza opporre resistenza e non facciamo altro che ricoprirlo di complimenti, stupiti della sua incredibile abilità nel trangugiare cucchiaiate di pastina col passato di verdure, allo stesso modo quell’uomo che ci dice che siamo davvero così migliori, così sensibili, così intuitive ci sta sbattendo in faccia il fatto che no, non è così.
Negli ultimi dieci anni, periodo in cui il femminismo contemporaneo si è occupato anche di inquadrare da un punto di vista linguistico alcuni fenomeni tossici, sono emersi concetti come “mansplaining” e “male gaze”. Personalmente, non sono troppo fiduciosa rispetto alle etichette rigide che si danno in modo sistematico a ciò che ci circonda, e credo in una certa flessibilità – per non dire arbitrarietà – sia di significato che di significante rispetto alla realtà e alle sue manifestazioni. Esistono anche tante donne che per orgoglio e arroganza hanno creduto di dovermi spiegare qualcosa con fare accondiscendente e paternalistico, cosa che tradisce la stessa pedanteria e presunzione come trasversale ai generi. Tuttavia, il fatto che ci possa essere un principio per cui l’essere umano di sesso maschile sia in fondo sempre il protagonista principale della narrazione, che sia quello in grado di spiegare come funzionano le cose, che sia in sostanza anche quello che prende le decisioni, è che giocoforza sia anche quello più sicuro di sé e spesso più presuntuoso o arrogante è un’intuizione che ognuna di noi avrà provato almeno una volta nella vita. Così come il cosiddetto male gaze, appunto, per quanto non credo sia in grado di inquadrare in modo critico tutto questo fenomeno, indica proprio il fatto che il punto di vista dominante – anche nel cinema per esempio, nel racconto di una trama qualsiasi – ricada sempre sul personaggio maschile, cosa che rende noi donne delle co-protagoniste. Le aiutanti speciali, appunto, le famose “creature di un altro mondo”, le comparse di un set, quello della vita e della realtà, in cui serve il famoso tocco di femminilità.
Quindi, i maschi fanno le cose vere, serie e importanti e poi semmai ce le spiegano, le donne – che dall’alto della loro superiorità custodiscono il prezioso dono del multitasking – rimangono fossilizzate in questa idea stilnovista che le inquadra in un universo angelicato per anime superiori. E non è nemmeno una questione prettamente estetica, come poteva essere un tempo, ancorata a un’idea iperuranica di femminile in stile casalinga americana con la piega e gli orecchini di perle, più una visione romanzata di ciò che nella realtà una donna può portare con il suo essere “diversa”; co-protagonista, subalterna, appunto. Il punto è che questo modo di atteggiarsi nei confronti del genere femminile è a dir poco fastidioso, e quando qualcuna lo fa notare non ci vuole niente a prendersi pure un simpatico “Eh, ma non vi va bene niente”. Non si tratta di pedanteria o di “acidità”, è proprio il fatto di sentirmi dire che sono superiore come se ci fosse bisogno di sottolineare che possiamo anche avere delle qualità non solo pari a quelle di un uomo ma addirittura superiori – qualità come l’avere la coordinazione sufficiente per pedalare, cosa che in effetti ho imparato a fare prima di mio fratello – che mi umilia in quanto donna. Ricondurre tutto sempre e solo a un gioco di ruoli fissato nei generi è limitante, sterile, obsoleto: mi dà molto più fastidio sentirmi trattata come un “essere speciale” che potermi misurare nel mondo con le stesse possibilità di chiunque altro e fallire. Le differenze poi, questo è ovvio, esistono e ci sono dei valori oggettivi per cui tra uomo e donna non si può usare lo stesso metro di giudizio, ma preferirei che si evitasse di mascherare un sessismo latente spacciandolo per femminismo e adorazione del mio genere, come se le femmine fossero una specie rara di qualche insetto da osservare nella sua magnifica peculiarità.
Questo ragionamento, peraltro, tocca anche un altro aspetto piuttosto complesso della femminilità oggi, ossia quella tendenza ad apprezzare qualsiasi donna solo in qualità del fatto che è appunto donna. Se dal lato maschile questo processo porta alla retorica fastidiosa della superiorità come contentino, dal lato femminile invece innesca la tendenza al legittimare qualsiasi cosa sia detta o fatta da una donna, anche se magari è una cretinata o si scontra con quello che pensiamo. Per dire, non è che in nome di una solidarietà femminile e di una presenza più forte del nostro genere in campi che prima ci erano preclusi devo sostenere per forza Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi. Sono entrambe due donne potenti, ben inserite in politica, esempio di determinazione e così via, ma non posso certo ritrovarmi a fare il tifo per loro a prescindere dal fatto che prima di essere due persone di sesso femminile sono appunto, due persone. Così come non amo la retorica rispetto alle grandi manager o alle imprenditrici di successo che si sono “fatte da sole”: uomo o donna che sia, non mi piace il concetto di vincente, che pone per forza l’idea di un perdente. Questa per me è libertà e parità, distaccarsi sia dalle idee vecchie e superate per cui esistono cose “da femmina” e cose “da maschio”, ma anche non cadere in retoriche demenziali per cui esiste un genere a prescindere migliore dell’altro. Noi donne non siamo superiori a nessuno, non siamo migliori, non siamo più sensibili o più brave ad ascoltare, abbiamo limiti e talenti, come tutti e soprattutto come persone, non come categoria. Un uomo che dice il contrario non mi sta gratificando, sta sottolineando proprio l’opposto. Ciò che sappiamo o non sappiamo fare determina quanto siamo bravi o brave, “superiori” o qualsiasi valore vogliamo attribuirci, e il genere a cui apparteniamo non c’entra proprio nulla.