Le donne che raccolgono fragole e pomodori vivono nello sfruttamento e nella violenza - THE VISION

Nel dibattito sulla regolarizzazione dei braccianti, così come in quello sulle migrazioni, spesso si commette l’errore di ridurre tutti i soggetti coinvolti a un unico stereotipo: tra le identità dimenticate, neanche a dirlo, ci sono senz’altro le donne, che vivono una storia diversa, profondamente connotata dal loro genere. La loro esperienza, infatti, può essere molto diversa da quella degli uomini, ed è spesso segnata dalla violenza sessuale e dall’isolamento sociale, oltre che dalla mancanza di tutele lavorative. Secondo il quarto rapporto “Agromafie e caporalato” di Flai-Cgil 2016 a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, le donne costituiscono il 42% dei lavoratori vittime di sfruttamento nel settore agroalimentare. Lo stipendio, che di norma si aggira intorno ai 20€ al giorno – già di per sé misera – per loro è in media inferiore del 20%.

Tra i settori che impiegano maggiormente le donne, specie con contratti stagionali, c’è la raccolta a mano, come quella delle fragole e del pomodoro ciliegino – coltivazioni diffuse soprattutto nel territorio della Huelva, nel Sud della Spagna, e in Puglia. Ogni anno queste due zone sono interessate da una migrazione massiccia proveniente dal Nordafrica e dall’Est Europa, senza contare le migranti già presenti sul territorio e le migliaia di braccianti residenti in quelle stesse regioni. Nel 2015, aveva fatto molto scalpore la morte di Paola Clemente, una lavorante a giornata pugliese di 49 anni morta per infarto in un vigneto a San Giorgio Ionico, in provincia di Taranto. Anche se la procura ha escluso l’accusa di omicidio colposo nei confronti della cooperativa che l’aveva assunta, l’indignazione causata dalla notizia del suo decesso ha favorito l’adozione della legge n. 199/2016 contro il caporalato.

Tuttavia, come denunciano le e i braccianti che il 21 maggio scorso hanno organizzato un grande sciopero, guidati dal sindacalista Aboubakar Soumahoro, questa legge non è abbastanza, specialmente per i lavoratori che sono in attesa di regolarizzazione. La questione migratoria e quella del caporalato e delle agromafie, infatti, vanno di pari passo: imprenditori e cooperative immorali approfittando delle situazioni disperate di chi è senza documenti, sfruttano la manodopera al minor costo possibile, spesso servendosi di ricatti e imbrogli, oppure impongono condizioni ingiuste ai lavoratori stagionali, consapevoli che si tratta solo di situazioni temporanee. In passato ci sono stati diversi tentativi di regolarizzare i flussi migratori attraverso programmi di cooperazione internazionale, ma i risultati sono stati insoddisfacenti.

Come racconta la ricercatrice Chadia Arab in Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale, l’afflusso di stranieri nella provincia spagnola di Huelva è passato dai 2649 del 1996 ai quasi 40mila del 2017, anche grazie all’attrattiva dei programmi di lavoro attivati nella regione, come l’Aeneas, lanciato nel 2004 dall’Unione Europea per contrastare l’immigrazione clandestina. Tra i progetti attivati c’era anche una convenzione tra l’Anapec, l’Agenzia nazionale marocchina per il lavoro, e il comune di Cartaya, che si sarebbe impegnato in una migliore gestione dei flussi migratori stagionali attraverso processi di selezione, iniziative di integrazione sul territorio e un sistema di alloggi. L’Unione europea ha continuato a finanziare il programma attraverso altri progetti di cooperazione fino al 2011, quando la crisi economica ne ha richiesto la cessazione per favorire l’impiego dei cittadini locali in cerca di occupazione.

I flussi sono ripresi nel 2017, quando però i programmi di mediazione culturale, integrazione e tutela erano ormai conclusi. Questo vuoto ha creato una situazione di grande vulnerabilità per le braccianti, che vengono ancora reclutate grazie all’Anapec ma che poi, una volta arrivate in Spagna, sono praticamente lasciate a loro stesse. Programmi simili, detti di migrazione circolare (che implicano cioè che il o la migrante torni nel proprio Paese di origine dopo un certo periodo di tempo), sono stati previsti anche in Italia con il “Piano per l’integrazione nella sicurezza: Identità e Incontro” del 2010, ma mai formalmente adottati. Ogni anno viene semplicemente diramata una circolare in cui sono fissate le quote massime dei lavoratori stranieri, 30.850 unità per l’anno 2019, 18mila delle quali riservate agli ingressi per motivi di lavoro stagionale. Sono poi singole agenzie o cooperative a organizzare gli spostamenti e a mettere in contatto i braccianti con le aziende.

In generale, come fa notare la sociologa Sara R. Farris in Femonazionalismo, negli ultimi dieci anni le politiche migratorie dell’Unione europea si sono spostate da un regime di welfare, basato su “forme di solidarietà connesse ai diritti di cittadinanza”, a uno di workfare, che invece predilige “una relazione contrattuale selettiva e temporanea che discrimina tra i poveri meritevoli e non”. L’accesso al mercato del lavoro è diventato in maniera vincolante il requisito fondamentale per l’integrazione nella società europea. Anche le migranti sono oggetto di tali politiche, ma se la migrazione femminile non è solo un fenomeno più recente ma spesso è anche “subita”, cioè si realizza con il ricongiungimento familiare e non per l’iniziativa autonoma della donna, ha bisogno di norme specifiche. Il caso delle migranti stagionali è molto diverso. Come scrive Chadia Arab, si tratta di “un’idea ponderata affinché le donne non migrino, non restino, non si installino, non si integrino nello spazio di arrivo”. Questo succede anche in Italia, dove la natura del contratto stagionale “ha delle conseguenze importanti sull’accesso a misure di welfare come il sussidio disoccupazione agricola, malattia, infortunio, maternità”, come sottolinea il rapporto “Donne, madri, braccianti” di ActionAid, misure assenti anche per le lavoranti che hanno la cittadinanza.

Dall’inchiesta di ActionAid emerge la specificità della condizione delle donne all’interno del lavoro agricolo. Le donne sono più facilmente ricattabili e si sentono continuamente succubi dell’autorità maschile che, nella quasi totalità dei casi, non solo è incarnata dalla figura dell’imprenditore, ma anche della cooperativa e dai cosiddetti “supervisori”. Questa autorità spesso si esprime attraverso il ricatto sessuale, sia minacciato che subito. Lo stupro può sia essere la condizione che permette di essere assunte o pagate, sia una forma di punizione. Un’inchiesta del Guardian del 2017 aveva svelato il sistema di coercizione a cui erano sottoposte le lavoranti stagionali rumene nella provincia di Ragusa, metà delle quali, secondo le stime dell’associazione Proxyma, aveva subìto violenza da parte dei propri datori di lavoro. Nel solo comune di Vittoria, nel ragusano, si svolgono circa otto interruzioni di gravidanza alla settimana, cinque o sei delle quali di donne provenienti dalla Romania.

La specificità delle condizioni delle migranti e delle lavoranti stagionali (specialmente se provenienti da Paesi stranieri) le espongono a un alto rischio di violenza, fisica, sessuale, e istituzionale. Quello che manca loro, in particolare, è una rete di supporto. Se Arab in Fragole può raccontare esperienze di solidarietà – dovute però al fatto che tutte le braccianti di Huelva hanno più o meno seguito lo stesso percorso – la natura molecolare della migrazione in Sud Italia, dove tutto è informalmente affidato all’organizzazione mafiosa, isola le donne, che in caso di difficoltà non sanno a chi rivolgersi. Come sottolinea anche Aboubakar Soumahoro nella prefazione del libro, la sindacalizzazione di queste lavoratrici è una delle sfide centrali per raggiungere un cambiamento. Ma sarebbe ingiusto scaricare per l’ennesima volta questo peso sulle migranti: ciò che serve è soprattutto una vera regolarizzazione e l’abolizione dei Decreti sicurezza, che incoraggiano situazioni di marginalizzazione ed esclusione sociale. A farne le spese sono infatti molte donne che, private della protezione umanitaria (anche coloro che l’avevano ottenuta in precedenza), senza alternative e senza possibilità di dimora, finiscono spesso nelle mani del caporalato e della tratta. Il rapporto Grevio degli esperti del Consiglio d’Europa sulla violenza di genere e la violenza domestica ha espresso grande preoccupazione per i cambiamenti introdotti da tali decreti, notando “un alto numero di dinieghi per lo status di asilo nei confronti delle donne” e le “condizioni disumane” di hotspot e Cpr, che spesso non dispongono nemmeno di bagni suddivisi per genere. Ma l’integrità e la sicurezza di queste persone al momento sembra valere meno di una confezione di fragole.

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