Le dichiarazioni del neoministro Fontana hanno avuto un effetto da mossa Kansas City sull’opinione pubblica. Come fa Bruce Willis in Slevin che in una scena distrae l’attenzione del suo avversario affibbiandogli un colpo mortale mentre è impegnato a guardare nella direzione opposta, così mentre tutti si concentravano a criticare le posizioni del ministro, nessuno guardava dall’altra parte: quella della condizione femminile all’interno del contratto di governo. E invece anche lì ci sarebbe stato da discutere.
“Occorre introdurre politiche efficaci per la famiglia, per consentire alle donne di conciliare i tempi della famiglia con quelli del lavoro, anche attraverso servizi e sostegni reddituali adeguati,” si legge nelle prime righe del documento, nella parte dedicata alla famiglia. Sembrerebbe un programma volto ad agevolare l’occupazione femminile e la ridiscussione dei ruoli, ma il testo in realtà, come hanno sottolineato alcune associazioni femminili, chiarisce fin da subito come lo strumento della “conciliazione” sia però tutto caricato sul fronte femminile, che deve quindi dividersi tra casa, famiglia e lavoro. Neanche un indizio della possibile redistribuzione di questo impegno tra uomini e donne, di cui comunque sempre più uomini sarebbero felici di farsi carico.
Nel frattempo anche Papa Francesco ha ribadito la stessa politica conservatrice sull’organizzazione interna della famiglia. Non che sia una novità, ma persino in questa occasione alla donna viene rivolto l’appello di tenere insieme la coppia di fronte a un tradimento, sopportando e scegliendo in silenzio, pur di tenere in piedi un legame considerato inviolabile come il matrimonio. A lei il compito di sostituire la colf, di crescere i figli, di rinunciare per questo alla professione o di diminuirne le aspettative e di trovare, se possibile, un’alternativa al divorzio nel sacrificio personale o nell’abnegazione. C’è un unico grande assente in questo quadro: l’uomo e il suo impegno come membro della famiglia e della coppia. I pubblici appelli a lui rivolti rimangono sempre sullo sfondo.
La conseguenza è che continuiamo a ritrovarci di fronte a un dilemma per cui la politica di qualsiasi colore ha sempre fatto molto poco: costringere le donne a scegliere fra il tempo dedicato alla famiglia e la vita professionale. Sembrerà scontato, ma quando una donna dedica numerose ore della propria giornata alla cura della casa o alla gestione dei figli senza la collaborazione del compagno, non le resta molto altro tempo da dedicare a se stessa o a una prospettiva professionale; ancor meno se non esiste per la famiglia la possibilità di assumere una colf o una baby-sitter, o di chiedere aiuto ai nonni. E così la donna è costretta a rinunciare al lavoro, oppure a compiere uno sforzo da supereroina per riuscire in entrambe le cose. Quando poi manifesta stanchezza e fatica o prova una sensazione di ingiustizia o sente bisogno di aiuto, le può capitare anche di subire i rimproveri di chi non sopporta che possa essere appena sotto la perfezione. Nelle nostre coscienze è più inculcato di quanto si possa ragionevolmente sospettare che sia la donna a occuparsi della lavatrice e di stirare la biancheria. C’è ancora la tendenza, nel nostro Paese, da parte di molti uomini a considerare il lavoro di cura domestica, pulizia e gestione dei figli e della casa come poco impegnativo. Ma basta pensare che secondo l’Istat, si parla di 84 ore “in meno” al mese e di 1000 ore all’anno da dedicare a se stesse o al lavoro che le donne perdono rispetto agli uomini. E se passare del tempo a giocare insieme ai propri bambini può essere un momento di arricchimento personale – che fanno anche i papà – non è detto che lo sia passare le ore a cercare di pulire macchie di pappa o di cacca da body e bavaglini – che i papà non fanno quasi mai, “perché lavorano” e perché “noi donne siamo multitasking”.
L’Italia comunque non è mai stata all’avanguardia per vivacità ed efficacia delle politiche di uguaglianza di genere, nemmeno sotto governi tradizionalmente di sinistra. Il governo Letta prima, e il governo Renzi poi, ci hanno lasciato a lungo senza un ministro per le Pari opportunità con pieni poteri, inaugurando una tendenza diventata regola, a cui si aggiunge il fatto che oggi il responsabile del Dipartimento designato dal governo sia un uomo. Così è ancora un modello tradizionale quello in cui viviamo e questo contratto sembra confermarlo di nuovo e con più forza, evitando ad esempio di parlare di una delle misure di cui avremmo più bisogno: la parità salariale.
La questione della divisione del lavoro di cura può essere anche affrontata parallelamente in maniera privata, pur non essendo una questione sociale, a livello di ridiscussione dei ruoli e di impegno degli uomini in tante attività tradizionalmente femminili. Mentre aspettiamo che il sistema riconosca con chiarezza che l’occupazione femminile non è un accessorio, un lusso esistenziale o un extra dedicato esclusivamente a chi può permetterselo, qualcosa sta lentamente cambiando a livello generazionale. Ma dire che la redistribuzione, piuttosto che la conciliazione, solo al femminile sia qualcosa di dato per assodato, accettato e integrato nella nostra società, è azzardato. L’influenza culturale è ancora molto forte e cambia da regione a regione. Ho conosciuto e ascoltato storie di uomini che quando vivevano soli si davano da fare per pulire e stirare in virtù della necessità, ma che vivendo poi in coppia si sentivano esonerati di default non tanto dal cucinare, pratica che la TV dei cooking show ha contribuito a estetizzare e glorificare levandola dal grigiore del lavoro domestico, ma sicuramente da aspetti come la pulizia e la messa in ordine della casa, oppure dalla cura genitoriale. Tutti ambiti di cui si occupava principalmente la loro fidanzata o compagna, pur lavorando anch’essa.
Di solito poi quando si affrontano i discorsi sulla parità a livello collettivo, ci sono sempre voci che difendono il diritto delle donne a comportarsi in maniera “tradizionale”, caricandosi di tutto il peso della cura domestica e dei figli, a discapito della carriera o della loro realizzazione personale. Spesso l’obiezione più comune è che la loro scelta vada rispettata. Ma credendo nella parità di genere come obiettivo ugualitario collettivo che vuole smantellare tutte quelle forme resistenti di disuguaglianza radicate nel nostro sistema e nelle nostre menti, non è detto che solo per il fatto che una donna accetti di stare dentro un circuito che contribuisce a escluderla dalla vita sociale ed economica, non fornendole appoggi e servizi, perché magari è per lei è un obbligo, o le hanno fatto credere che lo sia, questa decisione non possa essere analizzata. E se la scelta personale compiace un sistema oppressivo, allora c’è un problema, o comunque un fenomeno da valutare. Non è con un’idea di parità tarata solo sul rispetto della libertà personale, avulsa dal contesto e soprattutto slegata dalla misurazione dell’impatto sociale, che indebolirà un sistema culturale ed economico sbilanciato nei confronti del femminile. Purtroppo il luogo dove si nasce, l’ambiente, la famiglia, il ceto sociale e il livello di patriarcato che si eredita dalla cultura dominante, sono ancora molto rilevanti nel condizionare le decisioni di ciascuno di noi. Sarebbe come celebrare l’uso degli assorbenti usa e getta di per sé – come vittoria della libera scelta e dell’emancipazione, cosa che in effetti è – senza valutare però l’impatto del materiale sull’ambiente. E questo vale anche per i modelli femminili che si scelgono di sostenere e validare a livello politico.
“Prima gli italiani,” ci viene ripetuto da tempo, come slogan di campagna elettorale perenne che stabilisce in maniera chiara le priorità del governo. Ma prima, molto prima degli italiani, c’è un’idea della donna molto datata. E prima ancora, all’interno della categoria delle donne stesse, vengono lasciate indietro quelle che non possono permettersi di acquistare la parità ma che ancora devono combattere perché il sistema di welfare e la lotta agli stereotipi tossici le sostenga se decidono di lavorare e allo stesso tempo non restare sole.