Lo scorso Natale, nei pressi del sito archeologico di Pompei, sono stati trovati i resti di un cavallo, probabilmente risalenti al 79 d.C. L’animale presentava sella e finimenti decorati in bronzo e, secondo gli archeologi, fu bardato affinché il suo cavaliere riuscisse a fuggire dall’eruzione del Vesuvio in corso. Secondo le stime, nel tragico evento vulcanico che cancellò via interi paesi del napoletano, morirono all’incirca 2mila persone. Da quel giorno il Vesuvio eruttò un’altra decina di volte, l’ultima nel 1944. Da lì, il silenzio.
Il tema del Vesuvio e della sua pericolosità emergono di tanto in tanto, in occasione di specifici episodi. Se ne parla quando uno sciame sismico interessa la zona, quando la vicina area super-vulcanica dei Campi Flegrei dà segni di attività, o quando dai siti archeologici della provincia emergono nuove tracce della tragedia di 2mila anni fa. Per il resto, la questione dei rischi connessi al Vesuvio rimane riposta nel cassetto, insieme ad altri temi in qualche modo collegati, come l’edilizia abusiva. Di tanto in tanto si sente parlare di piani di emergenza e di evacuazione da mettere in pratica in caso di eruzione, ma la realtà è che non esiste ancora nulla di ufficiale.
La Campania è la patria dell’abusivismo in Italia, con il 50,6% degli immobili fuorilegge. Il fenomeno è visibile in modo più evidente che mai sulle pendici del vulcano, in quella che è definita la zona rossa. Come spiega Legambiente, sono 27mila gli abusi edilizi penalmente rilevanti in quest’area, che comprende 25 comuni e l’area orientale della città di Napoli. Per tutti questi casi sono stati avviati dei procedimenti, ma sono solo 192 le sentenze passate in giudicato e 55 le demolizioni realizzate. Questo riflette un altro dato regionale: in Campania il 97% delle esecuzioni di demolizione non vengono eseguiti.
È chiaro a tutti che la vita delle migliaia di abusivi che abitano sulle pendici del Vesuvio è a rischio. In caso di eruzione, con ogni probabilità per loro non ci sarebbe nulla da fare. Ma le conseguenze di una tale eventualità non riguardano solo gli abusivi. A essere interessata, come dimostrano anche gli eventi del passato, sarebbe tutta l’area metropolitana di Napoli: nella sola zona rossa – che comprende 25 comuni per una superficie totale di 356,03 km² – oggi vivono circa 700mila persone. Nel 1944, quando si verificò un’intensa settimana di colate laviche, sciami sismici, esplosioni ed evacuazioni, le vittime furono 26 e i paesi coinvolti oltre una decina. Non solo gli insediamenti sulle pendici del vulcano, ma anche gli abitati sul litorale, in un’epoca in cui l’abusivismo edilizio selvaggio doveva ancora nascere. In caso di un’eruzione oggi le conseguenze sarebbero dunque decisamente più drammatiche.
Tra le fila del governo si dà il semaforo verde all’abusivismo edilizio attraverso condoni che, oltre a regolarizzare ciò che in regola non è, finiscono per legittimare la filosofia dell’illegalità. Le sanatorie diventano arma elettorale in un territorio dove migliaia di persone rischierebbero di perdere la casa in caso di concreta e reale lotta all’abusivismo. Se dunque da una parte le istituzioni chiudono un occhio, dall’altra cercano di non farsi trovare del tutto impreparate di fronte all’eventualità di un’eruzione. Un Piano nazionale di emergenza per il Vesuvio è stato redatto nel 1995, mentre nel 2001 sono state approvate alcune aggiunte e varianti a diverse sezioni. L’anno successivo è stata costituita una Commissione nazionale preposta all’aggiornamento del piano e nel 2006 c’è stata un’esercitazione pratica, in cui è stata simulata un’eruzione vulcanica per verificare e migliorare le procedure di emergenza, compresa l’evacuazione degli abitanti della zona rossa. Il decennio successivo è stato tutto un aggiornamento del piano, una ri-delimitazione delle zone rossa e gialla, una predisposizione di piani per la viabilità e un’attività di formazione nelle scuole dell’area sui rischi e le modalità con cui gestirli. Insomma, il Vesuvio è un pericolo, le istituzioni lo sanno e negli ultimi vent’anni non sono state con le mani in mano.
“Se nei prossimi mesi dovesse esserci un’eruzione, non potremmo garantire la salvezza della popolazione,“ avverte Giuseppe Mastrolorenzo, primo ricercatore dell’Osservatorio Vesuviano. “Al momento, esiste solo una bozza di piano di emergenza e non c’è traccia di piani di evacuazione”. Quel piano di cui si parlava poco sopra, in effetti, è solo una bozza perché non è mai stato completato. La parte mancante, quella più importante, riguarda i piani di evacuazione: la fuga è l’unica strategia possibile in caso di risveglio del vulcano, eppure è proprio questa la parte che non si trova all’interno delle carte relative alla gestione di un’eventuale eruzione.
Da quanto trapela, il Piano di emergenza Vesuvio, che coinvolge 700mila persone, prevedrebbe per ogni paese modalità di fuga diverse, tra navi, treni e autobus. Alcuni cittadini verrebbero trasferiti via mare in Sardegna, in Liguria o in Sicilia, per altri sarebbe la volta del treno verso le città del Nord, mentre gli autobus dovrebbero prendere la direzione dell’Abruzzo. Secondo le proiezioni, le infrastrutture della Campania dovrebbero reggere lo spostamento di 500 autobus e oltre 200 treni in 72 ore. “I Comuni dell’area rossa, sia nel territorio del Vesuvio che dei Campi Flegrei, sono tutti dotati di un piano di emergenza. In tutta la Campania, siamo nell’ordine di 480-490 Comuni su 550,” ha dichiarato nel settembre scorso Massimo Pinto, direttore generale della Protezione civile regionale. Pinto è convinto che già oggi il piano di evacuazione della zona rossa del vulcano possa essere portato a compimento in 72 ore.
“Per completare il piano di emergenza nazionale è necessario che i comuni coinvolti nelle zone rosse definiscano un loro piano di emergenza comunale,” spiega Mastrolorenzo. Per ogni comune vanno stabilite le vie di fuga, la cartellonistica, l’organizzazione dei soccorsi e i luoghi del paese in cui concentrare la popolazione, per poi prelevarla e portarla nelle varie regioni di destinazione. Una volta realizzato ciascun piano comunale, essi devono poi essere coordinati a livello regionale affinché non ci siano incompatibilità tra i vari comuni. Poi serve l’approvazione della Protezione civile nazionale e, ultimo step, la firma del Presidente del Consiglio. “La situazione attuale è che solo qualche comune ha completato la sua documentazione, molti piani sono stati considerati inadeguati e manca il coordinamento a livello regionale. In molti casi siamo ancora, quindi, alla definizione del primo livello dell’emergenza, sui quattro previsti. Ci troviamo molto indietro,” afferma Mastrolorenzo.
Da questo deriva la totale inconsapevolezza della popolazione su come comportarsi in caso di eruzione. “Si tratta di una macchina organizzativa molto complessa per la quale è necessario un rodaggio continuo e, a oggi, nulla di tutto ciò si vede ancora,” ha chiosato il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, dopo lo sciame sismico nell’area dello scorso autunno. Quei fogli identificati erroneamente come Piano Nazionale Vesuvio sono dunque una sorta di libretto delle istruzioni incompleto, di quelli di cui si rimanda lo studio e su cui si perdono poi le ore quando arriva il momento di metterle in pratica, senza venirne a capo. A influire su questi ritardi della macchina organizzativa, anche l’assenza di personale indicato per svolgere questo lavoro. In un Paese dove per ogni calamità viene nominato un Commissario Straordinario, per il Vesuvio non è mai stato creato un organismo ad hoc. Quello che c’è, a oggi, sono solo funzionari che se ne occupano quando hanno tempo, commissioni che si riuniscono di tanto in tanto e qualche incontro pubblico che accende i riflettori sul tema, senza risolverlo.
A tutto questo si aggiunge poi un altro problema. Come sottolineato da uno studio dell’Università Federico II di Napoli, le case intorno al Vesuvio non resisterebbero a un’eruzione, in quanto progettate unicamente per resistere alla caduta della cenere. “Se si vuole decidere di abitare in ambienti pericolosi come questo bisognerebbe disegnare le strutture in grado di sostenere la massima portata degli eventi,” si sottolinea nel rapporto. Al di là delle problematiche legati ai Piani e ai discorsi sull’abusivismo, torna al centro il problema edilizio nell’area.
Quella del Vesuvio è solo una delle tante potenziali catastrofi italiane, in un Paese che già vive quotidianamente sotto il ricatto del rischio idrogeologico. “Lo sapevamo tutti che sarebbe successo,” è ormai il motto dopo qualunque tragedia. Eppure, sistematicamente, ne avvengono di nuove e la quasi totalità degli episodi ha responsabilità umane precise. Nel caso del Vesuvio però, probabilmente, la portata della catastrofe sarebbe superiore ad altre avvenute nel Paese negli ultimi decenni e per cui si poteva fare qualcosa. Eppure non si va oltre a qualche piano provvisorio, una manciata di esercitazioni simboliche e l’accondiscendenza tacita all’abusivismo che imperversa nella zona e che renderebbe la bomba-Vesuvio ancora più micidiale. Visto che sappiamo quello che potrebbe riservarci il vulcano napoletano, sarebbe importante prevenire oggi quello che poi, per la portata dell’evento, sarebbe impossibile curare domani. Per non trovarci ancora una volta a cercare colpevoli sopra le macerie di una tragedia annunciata.